mercoledì 29 febbraio 2012

29 febbraio 1960, terremoto di Agadir

Erano le 23.40 del 29 febbraio 1960, quando una scossa di terremoto di magnitudo 5,7 gradi Richter devastò la città di Agadir in Marocco. Furono 15 secondi di forte attività sismica che distrussero la città vecchia di Agadir sulla costa Atlantica. Con una numero di 12-15 mila morti (alcune fonti parlano anche di 20 mila morti, un terzo della popolazione) e 25 mila feriti, quel terremoto è stato il più forte sisma mai registrato nel continente africano.
La città di  Agadir (il cui nome sembra derivi dal berbero "granaio fortificato") assunse questo nome nel 1571 quando il forte portoghese di Santa Cruz de Cap de Guè (costruito nel 1504)  fu conquistato dal sultano Mohamed ech Cheick. Agadir fu conosciuta nel mondo nel 1911 poichè accadde quello che da tutti è conosciuto come "incidente di Agadir" o "crisi di Agadir"- cioè quando i tedeschi tentarono di impedire alla Francia di instaurare il protettorato sul Marocco, inviando appunto ad Agadir la cannoniera Panther. La tensione in Europa fu altissima per molti mesi.
L'epicentro del terremoto fu esattamente sotto la città storica (i sismologi parlano di 2-3 km nel sottosuolo) e questo, assieme ad una fragilità degli antichi edifici, spiega la grande forza distruttrice che ebbe il terremoto. La zona vecchia fu completamente rasa al suolo (nella Kasba crollarono il 100% degli edifici, tutti tranne una cabina elettrica di trasformazione). Nei quartieri storici di Adouar, Yachech, Fourti e Talborj la distruzione fu pressochè totale (90-100%), il quartiere Ville Nouvelle ebbe distruzioni tra il 50 e il 70%, mentre altre zone della città, tra cui la zona industriale e quella portuale, persero dal 20 al 30% degli edifici.
A soccorrere gli abitati di Agadir furono i militari della base aereonavale francese - siatuata a pochi chilometri - e successivamente le squadre di soccorso inviate da Francia e Olanda, oltre naturalmente ai volontari marocchini.
Il re del Marocco Mohammed V affido al figlio Hassan II (che divenne re l'anno successivo e regnò fino alla sua morte nel 1999) il compito di gestire la ricostruzione della città che venne edificata più a sud (oggi è possibile ancora vedere in cima alla collina di Cap Ghir i resti terremotati della vecchia Kasba) della vecchia Agadir. La ricostruzione iniziò il 30 giugno 1960, quasi contestualmente alla rimozione delle macerie. Sul terremoto di Agadir vi è anche un romanzo omonimo scritto dal marocchino Mohammed Khair-Eddine (1941-1995).

Ecco un sito, in francese, dedicato al Terremoto del 1960
Le foto di questo post sono tratte da questo sito (pbase.com).

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martedì 28 febbraio 2012

28 febbraio 1922, Egitto indipendente

Donne egiziane durante le rivolte del 1919 

L'Egitto fu il quarto paese del continente africano che raggiunse l'indipendenza. Quando il 28 febbraio 1922 gli inglesi concessero, unilateralmente, l'indipendenza all'Egitto vi erano in Africa solo altri tre stati, in qualche modo, sovrani. L'Etiopia, che è ritenuto, a ragione, il più antico stato africano, che fino a quel momento non era mai stato conquistato (sarà annesso per un breve periodo, dal 1936 al 1941 all'Impero Italiano), la Liberia, i cui coloni afro-americani avevano dichiarato l'indipendenza, dopo essere arrivati nel 1822, il 26 luglio 1847 ed il Sudafrica, che dal 1910, era a tutti gli effetti una dominion del Commonwealth britannico (dal quale fu espulso nel 1961).
Il leader del Wafd, Sa'b Zaghlul  (Wikipedia)
L'indipendenza del 1922 - nata sulla spinta dei movimenti nazionalisti, primo tra tutti il partito Wafd ("Il partito egiziano della delegazione", quello che aveva partecipato appunto come delegazione alla conferenza di pace di Parigi del dopoguerra), che aveva dato vita ad una vera e propria rivoluzione nel 1919, fu di fatto una sovranità di facciata poco gradita agli egiziani. Gli inglesi mantenevano saldamente nello loro mani il controllo della politica estera e della difesa, il diritto di mantenere le proprie truppe nel paese, il codominio nel Sudan e quello che più contava, l'assoluto controllo, assieme alla Francia, del Canale di Suez. Il sultano Ahmed Faud (che era subentrato al fratello nel 1917) divenne re, assumendo il nome di Faud I, mentre primo ministro (eletto dal popolo a grande maggioranza nel gennaio 1924) fu fino al novembre 1924 -quando entrò in conflitto con il re e gli inglesi-  il leader del Wafd Sa'd Zaghlul.
Nonostante il 22 agosto 1936 fu siglato (dal figlio di Faud, Faruq I che alla morte del padre nell'aprile 1936 gli era succeduto) un trattato tra gli inglesi e l'egiziani (firmato anche dal partito Wafd, nella figura del suo nuovo leader Nahas Pascià che lo denuncierà nel 1951), in cui peraltro il Regno Unito si impegnava a ritirare le truppe dal paese, l'Egitto fu sempre sotto tutela.
Durante la guerra l'Egitto fu alleato dei britannici - sebbene gli egiziani vedevano più gli inglesi che i tedeschi come nemici  (di fatto solo la "responsabilità" del partito Wafd impedì che si creasse un asse egiziano con i nazifascisti) - e questo non giovò al prestigio del partita wafdista. 
La prima bandiera egiziana (1922-1952)
Bisognerà aspettare gli eventi del dopoguerra, la nascita di Israele e la prima guerra arabo-israeliana per creare la definitiva frattura nei rapporti tra inglesi e egiziani, che culminarono con il colpo di stato dei "liberi ufficiali" (di Muhamd Naguib e Gamal Nesser) del 23 luglio 1952, con la proclamazione della Repubblica (nel 1953) e  infine con la nazionalizzazione del canale di Suez nel 1956.
Per gli egiziani però la vera data da ricordare non è quella di una falsa indipendenza. Prima dei recenti sviluppi era la data del golpe di luglio del 1952 ad essere festeggiata e da poco si è aggiunta quella dell'inizio della rivoluzione che ha destituito il regime di Mubarak.

Da notare che la prima bandiera egiziana aveva tre stelle a significare i tre popoli dell'Egitto (mussulmani, cristiani e ebrei). Poi gli uomini e soprattutto le interferenze esterne hanno creato un'altra storia.


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venerdì 24 febbraio 2012

La crisi alimentare del Sahel

Sahel, da Wikipedia
Sahel è un nome che per molti ha scarso significato. Per qualcuno è addirittura difficile posizionare l'area che ricade sotto questo nome su di una carta geografica. Perfino l'origine del suo nome, la parola araba sahil (riva del mare) inganna sul suo reale posizionamento geografico. In realtà il mare non ha quasi nulla a che fare con il Sahel, che è la fascia d territorio (desertico o ad alto tasso di desertificazione) che separa il grande deserto del Sahara dall'Africa nera. Una fascia che dall'Oceano Atlantico attraversa tutta l'Africa fino al Mar Rosso, interessando paesi quali Senegal, Gambia, Nigeria, Camerun, Mauritania, Ciad, Burkina Faso, Niger, Sudan ed Eritrea. E' un'area - nel passato sede dei più grandi e potenti regni africani - abitata da oltre 70 milioni di persone che vivono di un'economia di sussistenza (ovvero vivono di ciò che riescono a coltivare). La loro sorte dipende dalle piogge - che giungono durante la nostra estate - e che rappresentano l'unica fonte di acqua. La scarsità o l'irregolarità dei fenomeni atmosferici diventano una condanna alla morte per fame per milioni di persone. Ad ogni periodo di siccità il deserto ingloba, per sempre, larghe fette di terra.
Quest'anno, a seguito delle scarsità di piogge nelle scorsa stagione, il raccolto agricolo è molto scarso e l'ennesima crisi alimentare nel Sahel è oramai in corso. L'ennesima, perchè nell'ultimo decennio la zona è stata già colpita da siccità e crisi (nel 2005 e nel 2010), sebbene in aree molto più circoscritte (Niger e Ciad in particolare). Le organizzazioni non governative e la comunità internazionale hanno - già da settimane lanciato l'appello all'azione urgente. Il Programma Alimentare Mondiale (PAM) e l'Unione Europea hanno già stanziato i primi 30 milioni di euro per gli aiuti alimentari. Naturalmente vi è la necessità di intervenire, in fretta.
Dal sito del PAM
La spirale della sicccità e della povertà è sempre quella. Come avevamo visto recentemente nella crisi del Corno d'Africa: le famiglie iniziano a vendere bestiame e terreni per comprare cibo (che, guarda caso, in questo periodo ha prezzi altissimi) rendenendo la loro situazione ancora più fragile, fino a costringerli a  migrare in cerca di fortuna e di lavoro.
Naturalmente tutta la colpa è della natura (o di qualche Dio, a seconda delle preferenze) che colpisce sempre i soliti. Come già ho avuto modo di dire durante la crisi del Corno d'Africa vi sono delle enormi responsabilità nelle politiche alimentari (ed economiche) imposte nel passato, e spesso ancora in vigore, da parte delle macro organizzazioni economiche mondiali e una buona dose di "incapacità" nello gestire i rapporti con i grandi poteri economici del mondo. Le situazioni del Sahel e quella del Corno d'Africa, con le dovute differenze, possono sotto molti aspetti essere sovrapposte, così come le concause e gli errori che stanno alla base di questi drammi umani. Questa volta sono 12 i milioni - secondo le stime - di esseri umani a rischio fame. Come è accaduto altre volte - dopo l'urgenza - raramente si mettono in atto strategie per la prevenzione di questi fenomeni che oramai hanno una regolarità e una frequenza allarmante. Ogni volta ci si interroga su come prevenire, nel futuro, simili crisi. Ogni volta vi sono idee, soluzioni e strategie che regolarmente vengono disattese. Aspettando la nuova emergenza (che forse, siamo onesti, paga di più).

giovedì 23 febbraio 2012

Popoli d'Africa: Arbore

Gli Arbore (talora scritto Irbore) sono un piccolo gruppo etnico (si stimano circa 7.000 persone), che vivono in Etiopia nei pressi del Lago Chew Bahir (o lago Stefanie), ad ovest del fiume Woito. Parlano una lingua cuscitica (a cui appartengono anche l'oromo e il somali). Usano anche la lingua franca dell'area che è il Konso e altre lingue di etnie vicine come l'Hamer, e il Tsemay. Secondo alcuni abitano l'attuale area da circa due secoli. La loro discendenza è posta tra i Borana e i Dassanetch.
Tradizionalmente sono dei "commercianti", per questa ragione si spostano anche molto lontano per seguire i loro commerci. Un tempo possedevano l'assoluto monopolio del commercio dell'avorio nell'Africa Orientale. Naturalmente per vivere sono anche abili pastori, pescatori, agricoltori (mais e sorgo) e produttori di miele.
Sono di religione islamica, sebbene siano ancora molto presenti credenze tradizionali che riconoscono un unico Dio creatore, chiamato Waq.
All'interno dei loro rituali sono abili danzatori e cantanti - sostengono che danzare e cantare favorisce l'eliminazione delle energie negative che a loro volta genera prosperità per l'intera collettività. Mentre le donne sono riconosciute per i loro coloratissimi ornamenti, in particolare orecchini, collane e bracciali con cui ricoprono il loro corpo (realizzati con i più svariati materiali quasi perline, metallo, avorio, pezzi di animali) e per i copricapo (e spesso dei vestiti) di colore nero per proteggersi dal sole. Durante i rituali - in particolare quello della circoncisione dei bambini - colorano il loro corpo con terre e colori estratti dai vegetali.
Sono frequenti i matrimoni con altri etnie, in particolare con i vicini Tsemai, da cui diventa sempre più difficile distinguerli.
Vivono in quattro grandi villaggi (Dir), chiamati Gandareb, Kulaama, Murale e Eegude, in ogni villaggio - le cui capanne sono costruite utilizzando esclusivamente canne e disposte a semicerchio-  vi sono tra i 10 e 12 clan esogamici.
Hanno una rigida struttura sociale basata su classi di età, con cui attraverso rituali di passaggio, si procede verso una sempre maggiore considerazione nella scala gerarchica del clan.


Tra gli aspetti simpatici di questo popolo vi è l'uso da parte dei bambini delle zucche cave per ripararsi il capo dal sole.



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giovedì 16 febbraio 2012

La devastazione del Delta del Niger

Il Delta del Niger
Il Delta del Niger è l'area fluviale più vasta dell'Africa, è il terzo delta al mondo. Ha una superficie complessiva di circa 70.000 kilometri quadrati (per avere un metro di paragone, per noi italiani, il nostro maggior delta, quello del fiume Po, si estende su di una supercie di 786 chilometri quadrati). Era un paradiso ecologico, un ecosistema dove foresta pluviale, paludi alluvionali e anse del fiume si amalgamavano in un perfetto equilibrio tale da far vedere, in modo netto ed inequivocabile, la straordinaria bellezza della natura e da far vivere, attraverso la pesca, la caccia e l'agricoltura oltre 20 milioni di persone. 
Oggi non è più così.  
Dal sito del The Epoch Times
Alle fine degli anni '50 (esattamente tra il 1956 e il 1957) fu scoperto il petrolio. Le concessioni furono acquistate in particolare dall'anglo-olandese Royal Dutch Shell. Le compagnie - e in particolare la Shell - hanno per decenni occupato l'area, estratto ed inquinato, corrotto i governi (gli introiti da petrolio rappresentano tra il 40 e il 60% del PIL nazionale), infiltrato persone nel governo per condizionarne le scelte e scacciato le popolazioni locali dal loro habitat tradizionale. Non dimentichiamo che anche l'italiana ENI estrae petrolio in Nigeria.
Guerriglieri del MEND
Nello stato del Rivers (la cui capitale è Port Harcourt, oggi "città del petrolio" con le più grandi raffinerie della Nigeria) fu colpita una popolazione, gli Ogoni (oggi un gruppo di 500 mila persone) che a partire dagli anni '90 iniziarono una dura lotta prima contro il governo nigeriano e successivamente direttamente contro le multinazionali del petrolio. Nel 1990 nacque infatti il MOSOP (Movement for the Survival of Ogoni People) guidato dallo scrittore e poeta Ken Saro-Wiwa. Il movimento riuscì a portare all'attenzione internazionale il problema del Delta del Niger (tra le richieste vi era quella di utilizzare gli enormi dividenti del petrolio per le popolazioni locali, che per oltre il 70% vivono sotto la soglia di povertà). Ken Saro-Wiwa fu arrestato più volte, condannato e infine impiccato - assieme ad altri 8 attivisti del MOSP - il 10 novembre 1995. Naturalmente l'assassinio del leader ogoni -avvenuto durante la sanguinosa dittatura di Sani Abacha -  ebbe un grande eco internazionale (la Shell patteggiò, con un risarcimento di 11 milioni di euro, pur di non far svolgere il processo sulle sue responsabilità). 
Dall'inizio degli anni 2000 è attivo anche un gruppo armato, denominato MEND (Movement for the Emancipation of the Delta Niger) che attacca direttamente le compagnie petrolifere ed i suoi dipendenti. Sin dall'inizio il MEND ha chiesto agli "stranieri" di lasciare le loro terre, pena la morte. Ecco il resoconto dell'ultima azione del MEND.



Gli oleodotti nel Delta del Niger
Un rapporto, pubblicato nell'agosto 2011 (Enviromental Assessment of Ogoniland) dell'UNEP (United Nations Environment Programme) ha stabilito che ci vorranno almeno 30 anni di interventi, alcuni dei quali urgenti, e svariati miliardi di dollari per ripristinare l'ambiente naturale. I danni dovrebbero essere pagati dalla Shell. Intanto, come denuncia il giornalista Osasu Obayiuwana su New African (nel mese di gennaio in mensile New African ha dedicato uno speciale al Delta del Niger, con il titolo "The Rape of Paradise", che poi è il titolo di un libro di George Osodi), nulla è stato fatto.
Il Rapporto dell'UNEP ha impegnato per 14 mesi un folto team che ha esaminato oltre 200 località, sorvegliato 122 chilometri di oleodotto, compilato oltre 5000 cartelle cliniche, incontrato 23 mila persone, analizzato oltre 4000 campioni di terreno.
Il rapporto evidenzia lo stato di gravissimo inquinamento. Le popolazioni locali bevono acqua contaminate da idrocarburi. Il 60% dei campioni prelevati supera i livelli consentiti.

Quello del Delta del Niger è uno scempio verso la natura e l'uomo. L'avidità delle multinazionali (che poi a ben guardare è l'avidità nostra che usiamo i derivati dal petrolio) e una classe politica corrotta ha consentito decenni di distruzione. E' stato l'ennesimo atto di violenza contro l'Africa (che sia chiaro, attuato con la piena complicità di africani) e contro il suo popolo. Si sono fatte cose (e si continuano a fare) che nel nostro mondo non sarebbero mai state possibili. Nessuna legge, nessuna tutela per le popolazioni, nessuna distribuzione degli ingenti introiti dalla concessioni petrolifere, ma solo tanto denaro per pochi. La Nigeria è l'ottavo esportatore al mondo di petrolio e contemporaneamente uno dei paesi più poveri del mondo. Si stima che siano stati riversati - solo da perdite degli oleodotti - oltre 500 milioni di galloni di petrolio nel Delta del Niger (un gallone è circa 5 litri). Gli oleodotti sono stati posizionati tagliando a metà villaggi, lungo i fiumi che fornivano acqua da bere alla popolazione, spesso con materiali scadenti e senza nessuna manutenzione. 


Non vi sono ragioni al mondo per non affermare che chi ha prodotto questo disastro debba pagare fino all'ultimo centesimo il ripristino (se mai sarà possibile, comunque quanto più possibile) dell'ambiente naturale. Non è un problema che riguarda solo gli Ogoni (o i nigeriani). E' un tema che riguarda tutti noi, il mondo intero.


Vi segnalo il sito della rivista The Atlantic dove si possono vedere delle straordinarie (e purtroppo tristi) immagini del Delta del Niger.

martedì 14 febbraio 2012

Parco Nazionale del Pendjari

Il logo del Parco Pendjari
Il Parco Nazionale del Pendjari è situato nel nord-ovest del Benin, al confine con il Burkina Faso (prende il nome dal fiume omonimo, che viene anche chimato anche Oti). Si estende su 2755 kilometri quadrati ed è parte di un'area più grande, denominata WAP, composta dal Parco Arli (in Burkina Faso) e dal Parco W (in Niger).
Dal 1986 il parco (in realtà un'area più estesa di 623.000 ettari) è inserito nella lista delle Riserve della Biosfera voluta dall'UNESCO.
Il Parco - inteso come intero complesso WAP -  è ritenuto oggi uno degli ultimi ambienti naturali dell'Africa Occidentale dove vivono grandi mammiferi come elefanti, ippopotami, bufali e leoni. Complessivamente si stimano ad oltre un centinaio le specie di mammiferi che vivono nel Parco. Gli elefanti, ad esempio, sono 3800 nel complesso WAP, di cui 800 nel solo parco Pendjari.
Tra gli animali rari che vivono nel parco vi è il Ghepardo dell'Africa Nord-Occidentale (Acinonyx jubatus hecki), una rara sottospecie di ghepardo - si calcola che ne esistano meno di 50 individui (di cui 5-13 nel parco) - inserita nella lista rossa degli animali a rischio di estinzione.
Nel Parco vi sono anche oltre 300 specie di uccelli (compresi quelli introdotti), di cui alcune decisamente rare.
La città più vicina al Parco è Natitingou, che dista 45 chilometri in direzione Sud. Nell'intero perimetro della Riserva dell Biosfera (275.000 ettari sono riserva integrale - core area nella definizione delle riserve, mentre 348.000 sono buffer area) vivono circa 30.000 persone distruibuite in 30 villaggi. Essi sono dediti all'agricoltura (cotone, cassava e riso) e alla caccia.
Per chi visita il parco, vi sono 400 chilometri di piste da percorrere alla ricerca di animali da osservare e fotografare.
Da tempo il governo del Benin ha notificato la candidatura del Parco del Pendjari  all'UNESCO per renderlo Patrimonio dell'Umanità.

Ecco il sito ufficiale del Parco dove poter avere tutte le informazioni.

Vai alla pagina sulle Riserve della Biosfera in Africa.

lunedì 13 febbraio 2012

Lo Zambia sul tetto dell'Africa

La nazionale dello Zambia
Sfatando ogni pronostico della vigilia, lo Zambia si è aggiudicato, ai rigori (dopo una partita senza reti) la Coppa d'Africa di calcio 2012 battendo la superfavorita della vigilia, la Costa d'Avorio del fuoriclasse Didier Drogba.
Per lo Zambia, oltre a trattarsi della prima vittoria in Coppa d'Africa - era giunta altre due volte in finale, nel 1974 contro la Zaire e nel 1994 contro la Nigeria - questa vittoria rappresenta un simbolo di straordinaria importanza.
La finale di ieri (12 febbraio) si è giocata a Libreville, a pochissima distanza dalle acque dove, in uno sfortunato 27 aprile del 1993, si schiantò l'aereo militare, un De Havilland Canale DHC 5 Buffalo, che trasportava la squadra dello Zambia verso Dakar dove si doveva giocare la partita di qualificazione per i Mondiali americani del 1994. Morirono tutti.
Si festeggia dopo un goal
Per i zambiani questa coincidenza ha un valore simbolico immenso, si tratta di un riscatto sportivo - e non solo - di una nazione che è stata capace di ripartire (l'anno dopo, come già detto, la squadra centrò la finale di Coppa d'Africa, perdendola contro la Nigeria per 2 a 1) e di costruire non solo la prima vittoria della Coppa, ma di ottenerla proprio a 500 metri da quella sciagura.
Dal quotidiano dello Zambia, Zambia Daily Mail
La vigilia della Coppa d'Africa è stata per la nazionale dello Zambia densa di emozioni. Nel commemorare appena giunti in Gabon la memoria dei defunti sulla spiaggia di Libreville, il Commissario Tecnico francese Hervè Renard e il presidente della Federcalcio dello Zambia, avevano voluto sottolineare come la vittoria sarebbe stato "un sogno che ricorda un incubo" ed un simbolo importantissimo per l'intera nazione.

Per gli amanti dei numeri, 20 giocatori della nazionale dello Zambia che ha vinto giocano in Africa (8 in Sudafrica, 6 nella Repubblica Democratica del Congo, 5 nello Zambia e 1 in Sudan), 2 giocano in Israele, uno in Cina e uno in Russia. L'unico a giocare in Europa è Emmanuel Mayuka che gioca ngli Young Boys in Svizzera. Anche nel calcio, l'Africa corre.

Noi italiani ricordiamo bene la nazionale dello Zambia, perchè alle Olimpiadi di Seoul nel 1988, ci inflissero un impetuoso 4-0 nel girone di qualificazione.

venerdì 10 febbraio 2012

Djemila

Djemila, l'antica città romana Cuicul, è un villaggio montuoso (si trova a 900 metri) dell'Algeria che si trova ad est di Algeri. Oggi è un sito archeologico di grande importanza dove sono conservati, bene, i resti della città romana, ritenuta uno dei massimi esempi dell'architettura romana in Nord Africa. In particolare un teatro, due fori, basiliche, arco, templi, terme e strade. La città fu costruita nel I secolo d.c.,precisamente durante il regno di Marco Cocceio Nerva (96-98 d.c.) prima come avanposto militare e solo successivamente, a partire dal III secolo, un grande mercato soprattutto di prodotti agricoli (in particolare olive), nonchè luogo di culto cristiano.
Dal sito dell'UNESCO
Dopo la caduta dell'impero romano (tra il V e il VI secolo) la città fu lentamente abbondanata e dai mussulmani (la città cadde in mano prima ai Vandali e poi ai Bizantini), fu denominata Djemila (che in berbero significa "la bella"). Si persero le sue tracce a partuire dagli anni 1000-1100.
Arco di Caracalla
Solo nel 1700, quando i primi viaggiatori europei iniziarono ad esplorare le vaste aree del nord africa, furono scoperte le rovine dell'antica città. I lavori di scavi veri e propri iniziarono nel 1909 ad opera degli archeologi francesi. Vi fu anche un piano iniziale, per fortuna poi abbandonato, di trasferire l'Arco di Caracalla a Parigi (però molte sculture furono portate in Francia dove sono ancora oggi). I lavori di scavo terminarono nel 1957 e molte cose sono ancora da scoprire. Oggi poche città romane sono in grado di fornire un quadro d'insieme così ben delineato nelle forme e nell'architettura come Djemila.


Nel 1982 il sito è divenuto, proprio per le sue caratteristiche di unicità e di stato di conservazione un Patrimonio dell'Umanità UNESCO  come "una delle più belle rovine romane del mondo".

Dal 2006 a Djemila si svolge un importante Festival Internazionale (Festival de Djemila) di musica algerina.

Vi posto anche il link al portale Il Mediterraneo dove vi sono anche dei filmati sul sito archeologico.

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mercoledì 8 febbraio 2012

Cinema: L'ultima alba

L'ultima alba (titolo originale Tears of Sun) è un film d'azione girato nel 2003 dal regista americano di colore Antoine Fuqua e che ha come protagonisti Bruce Willis a l'italiana Monica Bellucci. E' un film molto criticato e per lo più accompagnato da giudizi negativi, a volte perfino offensivi, per aver affrontato, secondo alcuni, in modo superficiale, banale e non veritiero, la drammatica realtà africana.
La storia è quella di un commando di forze speciali americane, capitanate dal tenente Waters (Bruce Willis nel film),  che, a seguito di un colpo di stato in Nigeria (in film è girato negli Stati Uniti e nelle isole Hawai), è chiamato a portare in salvo una cittadina americana,la dottoressa Lena Kendricks (Monica Bellucci), che opera in una missione. Il medico riuscirà a far disattendere al tenente ed ai suoi uomini gli ordini, mettendo in salvo sugli elicotteri malati, anziani e bambini, e avventurandosi in un difficile viaggio verso i confini del Camerun. Il gruppo dopo aver attraversato un villaggio nel mezzo di una pulizia etnica, scopre di essere stato tradito da uno degli stretti collaboratori della dottoressa e di essere braccati dall'esercito perchè sotto falso nome nel gruppo si nasconde un membro della famiglia presidenziale deposta e sterminata. I militari, gran parte pagando con la vita, riusciranno a portare il gruppo in salvo oltre il confine.



Raccontato, è un film d'azione, ricco di effetti speciali e centrato sulla figura del militare americano buono, che diventa un eroe perchè salva donne e bambini. Dicevemo un film stroncato dalla critica come banale, accusato di non avere nessun legame con la realtà.
Io consiglio comunque di vederlo, perchè spesso anche in questi film apparentemente superficiali, vi si possono intravedere chiavi di lettura diverse e che fanno riflettere. La storia regge ad un confronto della realtà. Durante le crisi "africane" non è stato infrequente vedere azioni di "recupero", spesso militari, del personale espatriato. Operazioni che erano coperte da segreto e che spesso non sono mai state nemmeno conosciute. Operazioni che non prevedevano una presa di posizione o l'ingaggio con gli eserciti locali, ma solo recupero ad ogni costo e senza contatto con le popolazioni locali che venivano, spesso cinicamente, abbandonate alla loro sorte.
Gli aspetti di pulizia etnica che si vedono nel film non hanno nulla di "irreale", anzi ad essere onesti quello che è accaduto in Sierra Leone, in Liberia, nella Repubblica Democratica del Congo o in Ruanda (per citare gli esempi più conosciuti) hanno superato, di molto, gli episodi già orribili descritti nel film.

Il film si chiude con una citazione da Edmund Burke, scritta in rosso su fondo nero, che dice" perchè il male trionfi e sufficiente che i buoni rinuncino all'azione".


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lunedì 6 febbraio 2012

Giornata Internazionale della tolleranza zero contro le mutiliazioni genitali femminili

Nel 2003 l'Organizzazione Mondiale della Sanità stabilì che il 6 febbraio di ogni anno si celebrasse la Giornata Internazionale di tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili (MGF), giunta quest'anno alla decima edizione.
Un modo per ricordare, riflettere e lottare contro questo puro atto di barbaria che, stando ai numeri dell'OMS, interessa 140 milioni di ragazze e donne nel mondo e che ogni anno mette a rischio altre 3 milioni di bambine.
Sancara aveva già affrontato questo tema, con un post denominato "Mutilazioni genitali femminili uno stupro silenzioso" proprio a rimarcare come un atto di tale violenza non trova nessuna giustificazione di tipo religioso, culturale o etnico. 
Sono molte le iniziative che si svolgono nel mondo, a sostegno delle associazioni di donne impegnate contro le mutilazioni. Il problema investe anche l'Europa (alcune stime dicono che oltre 180 mila bambine nate in Europa sono a rischio ogni anno), dove, nonostante in alcuni paesi le mutilazioni siano vietate per legge (Francia, Svezia e Inghilterra ad esempio), il fenomeno non trova soluzione.


Dal sito UNICEF
E' chiaro che gli sforzi, oltre che di tipo legislativo, devono essere spinti verso il lavoro nelle comunità locali e in particolare attraverso il ruolo attivo delle donne. 
Naturalmente le mutilazioni genitali femminili vanno candannate e combattute in modo deciso, senza scuse e senza attenuanti.
Al tempo stesso è fondamentale aiutare le donne  (e sono molte e sempre più) delle comunità locali che lottano per una trasformazione culturale delle credenze che stanno alla base dei motivi che inducano intere etnie a ricorrere a queste orribili pratiche. E' un passaggio delicato perchè tutti noi abbiamo anche il compito di salvaguardare popolazioni che hanno sopravvissuto con le loro tradizioni e la loro cultura ai secoli e che oggi sono molto fragili. 

venerdì 3 febbraio 2012

L'UNICEF chiede fondi per il 2012

L'UNICEF ha presentato oggi il Rapporto Humanitarian Action For Children 2012, in cui si analizzano le necessità finanziare indispendabili per assistere bambini e donne nel 2012 nei 25 paesi del mondo dove sono in corso emergenze recenti o di lunga data. L'UNICEF si rivolge ai suoi donatori (governi, aziende e singoli individui) per chiedere 1,28 miliardi di dollari (poco meno di un miliardo di euro) necessari per far fronte alle situazione mondiali oggi in corso e che costringono alla fame, e alla morte, milioni di bambini nel mondo.
I fondi sono destinati per il 30% all'alimentazione, per il 20% all'acqua e all'igiene, il 14% all'educazione, il 13% alla salute, l'8% alla prevenzione delle catastrofi. Il rimanente all'AIDS e alla protezione dei bambini.
Di questo ammontare, 942 milioni di dollari sono necessari nella sola Africa (ovvero il 73%), 187 milioni di dollari in Asia,  76 milioni di dollari in Medio Oriente, 42 in Sudamerica e 8 milioni in Europa dell'Est. Di queste cifre circa 68 milioni di dollari servono al funzionamento degli uffici regionali Unicef.
Andando nel dattaglio in testa alla necessità vi è la Somalia (289 milioni di dollari), seguita dalla Repubblica Democratica del Congo (144 milioni), dal Sudan (98 milioni), dal Pakistan (88 milioni), Etiopia (58 milioni), Yemen (50 milioni), Kenya (47 milioni), Ciad (46 milioni), Afghanistan (32 milioni), Niger (30 milioni).

Darfur (dalla rete)
Il rapporto dell'UNICEF sottolinea come nel corso del 2011 le esigenze dell'UNICEF ammontavano a 1,6 miliardi di dollari per intervenire in 38 paesi. Da notare che al 31 ottobre 2011 "solo" 854 milioni di dollari erano effettivamente entrati nelle casse dell'UNICEF (di cui una larga fetta era costituita dai fondi arrivati per l'emergenza Corno d'Africa).

E' singolare come, nello stesso giorno in cui l'UNICEF chiede i fondi per gli intereventi del 2012, indicando nella Somalia il punto di massima necessità nel mondo (circa un quarto dei fondi), le Nazioni Unite decretano la fine della carestia in Somalia. Naturalmente queste due notizie non sono in contraddizione, poichè il fatto che la produzione agricola sia migliorata, non sposta di una virgola la situazione emergenziale in cui, da oltre vent'anni, vive la Somalia. 


Dal sito dell'UNICEF
L'UNICEF lancia un appello ai donatori, ricordando le debolezze dei bambini negli scenari di emergenza. E' una vera e propria richiesta di aiuto anche in virtù del fatto che non sempre le promesse vengono mantenute dai governi. Se è vero che l'emergenza Somalia ha trovato (al 31 ottobre 2011) la copertura dell'86% dei fondi, è altrettanto vero che, ad esempio, l'intervento a seguito delle alluvioni in Pakistan sono stati coperti solo per il 16%, così come l'intervento nel Sudan ha trovato copertura solo per il 31% del totale.


Analizzando infine chi sono i maggiori donatori, si scopre che l'Europa (con 116 milioni di dollari al 31 ottobre 2011) rappresente il primo tra i donatori, seguito dagli Stati Uniti (98 milioni), dal Giappone (97 milioni), dal CERF delle Nazioni Unite (97 milioni), dal Regno Unito (65 milioni), da fondi privati (49 milioni), dall'Australia (33 milioni), dalla Svezia (32 milioni), la comitato UNICEF della Germania (22 milioni) e dal comitato UNICEF Francese (22 milioni).


Questi numeri fanno riflettere. Nel 1999 l'UNICEF spendeva 197 milioni di dollari per le emergenze, oggi siamo ad oltre 1 miliardo (e nemmeno tutti trovano copertura). Vi sono  situazioni che perdurano da decenni nonostante gli investimenti ingenti. Vi sono emergenze che scompaiono dall'informazione (e per questo molti le ritengono magicamente superate) lasciando le popolazioni il balia degli eventi. Vi sono persone che dedicano la loro vita a queste emergenze sicuri che tanto domani sarà come oggi.
Vi sono infine situazioni, come queste (di contiguità con chi è ritenuto un criminale contro l'umanità) che cercano spiegazioni.

giovedì 2 febbraio 2012

Popoli d'Africa: Kikuyu

I Kikuyu (anche Gikuyu) sono il gruppo etnico più numeroso del Kenya e vivono (sono circa 5,5 milioni di individui) nell'altopiano centrale del paese dove sono migrati oltre 4 secoli or sono. Parlano la lingua kikuyu, ritenuta una delle più antiche lingue della famiglia bantu. Per tradizione sono agricoltori ed allevatori.
Hanno sempre avuto un legame molto solido con le loro terre che hanno difeso dagli altri gruppi etnici in particolare dai Masai, con cui hanno un rapporto conflittuale sebbene caratterizzato anche da frequenti matrimoni misti. Successivamente i Kikuyu furono uno dei gruppi etnici più ostili al colonialismo.


Hanno un sistema di credenze tradizionali religiose in cui esiste un solo Dio chiamato Ngai e che vive sul Monte Kenya (che essi chiamano Montagna della bianchezza o della Luce). Egli creò il mondo. La tradizione racconta poi del suo rapporto con un uomo chiamato Kikuyu a cui egli diede una moglie, Mumbi, i due ebbero nove figli e fondarono la "stirpe dei Kikuyu".
La struttura sociale è organizzata tradizionalmente attraverso la discendenza familiare patrilineare esogamica e una rigida divisione per classi di età e di sesso (denominata riika). Il potere è nelle mani di un sistema di assemblee (kiama) di diversi livelli che garantiscono il principio della "decisione collettiva" di tutte le scelte importanti.
Numerosi sono i riti tradizionali che i Kikuyu organizzano a sottolineare il passaggio in classi di età (sottopongono i giovani a circoncisione e purtroppo ancora le bambine alla clitoridectomia). Sono poligami.


Il grande conflitto con le potenze coloniali si verificò proprio sulle questione delle terre, a cui i Kikuyu sono molto legati (i giuramenti vengono praticati utilizzando una manciata di terra che sancisce l'impegno solenne), quando la politica coloniale portò all'esproprio dei terreni. La sollevazione si manifestò in vari modi, guidata dalla Kikuyu Central Association (KCA), nata nel 1920, e con l'appoggio alla lotta per l'indipendenza (il massimo fautore dell'indipendenza, nonchè primo presidente del Kenya, Yomo Kenyatta era di etnia Kikuyu e da tutti è considerato il padre della patria) e in particolare al movimento dei Mau Mau che nasce nel 1948, come braccio armato del Kenya Africa Union (KAU) guidato dallo stesso Kenyatta.
I Mau Mau che nascono in seno all'etnia kikuyu, si estendono poi ad altri gruppi etnici (Embu e Meru). La ribellione Mau Mau costrinse il governatore della colonia a dichiarare lo stato d'emergenza. La repressione contro i Mau Mau non si fece attendere e fino al 1955 i membri catturati ed i simpatizzanti furono torturati e internati in campi di concentramento. Lo stesso Kenyatta fu arrestato e condannato nel 1953 ai lavori forzati. 
dal sito The Africa Image Librery
La storia dei Mau Mau si conluse nel 1957 quando l'ultimo vero capo militare, Dedan Kimathi fu impiccato dagli inglesi. Il bilancio di nemmeno un decennio di lotte è stato di oltre 10 mila guerriglieri Mau Mau uccisi, 1068 giustiziati e 333 vittime tra gli inglesi. Kenyatta, liberato nel 1959, divenne primo ministro e successivamente Presidente della neonata Repubblica a seguito dell'indipendenza conquistata il 12 dicembre 1963. Restò in carica fino alla sua morte avvenuta il 22 agosto 1978. Kenyatta tra le tante cose è autore di un libro sulla cultura Kikuyu pubblicato in Italia nel 1977 da Jaca Book e intitolato "La montagna dello splendore".
Di etnia Kikuyu è anche l'attuale presidente del Kenya Mwai Kbaki e il premio Nobel per la Pace Wangari Maathai, scomparsa di recente.
Nel libro autobiografico la Mia Africa, Karen Blixen racconta il suo rapporto con questa etnia.



Sui Mau Mau vi posto questo interessantissimo approfondimento di Renzo Paternoster  su quelli che sono ritenuti i "grandi attori del risorgimento keniota"


Vai alla pagina di Sancara sui Popoli dell'Africa

mercoledì 1 febbraio 2012

Alcuni pensieri sulla "primavera araba"

Locandina della Fondazione Pellicani
Si è svolto ieri a Mestre - organizzato dalla Fondazione "Gianni Pellicani" - un interessante dibattito tra Massimo Cacciari e Renzo Guolo ad un anno dall'inizio della primavera araba. Vi sottoporrò alcune suggestione emerse durante l'incontro con alcune domande e riflessioni. Cacciari, sicuramente un attento osservatore, e protagonista, della politica italiana ed europea, in vena particolarmente ironica, ha introdotto a "questi straordinari eventi" affermando come tutte le riflessioni avvengono dopo, poichè il nostro mondo ha vissuto con "potenti paraocchi" i fatti che hanno preceduto gli avvenimenti nella sponda sud del Mediterraneo e solo a posteriori, questo "magma confuso" è stato spiegato in base ai nostri paradigmi ("l'abbiamo spiegato con quello che abbiamo nella zucca noi"). Il vero tema oggi è capire come può evolvere la situazione. Renzo Guolo, da vero esperto delle questioni arabe, ha tentato di ricostruire gli eventi per poter ipotizzare uno sviluppo possibile. Proporrò la sua analisi per punti sperando di non modificare il suo pensiero.
Fonte: Linkiesta
Si può fare un tentativo di comprendere le cause che hanno dato origine alle proteste e che attraverso la miccia che ha innestato il tutto (il ragazzo tunisino che si è dato fuoco) ha modificato ("ma non rivoluzionato") il Nord-Africa. All'origine vi è la crisi economica del 2008 che ha determinato la fine degli aiuti americani a questi paesi. Il patto era una scambio tra il contenimento del fondamentalismo islamico (che Guolo afferma avere il suo momento fondativo nell'assassinio di Sadat nel 1981) e il sostegno ai regimi autocratici. L'altra tappa fondamentale è costituita dall'avvento dell'amministrazione Obama, che ha modificato, in modo sostanziale, la politica estera americana (e secondo Cacciari "decretato la fine dell'Impero") e che in un discorso al Cairo nel giugno 2009 sostenne che "gli americani saranno sempre dalla parte dei popoli che lottano per la libertà". Questi due aspetti hanno reso "meno sicuri" i regimi (i giovani avevano per anni avuto in cambio istruzione a costi bassi e questo aveva contribuito, in assenza di lavoro, al fenomeno migratorio) e dall'altro "dare speranza alle minoranze attive". Infatti i regimi hanno sempre represso l'opposizione politica (socialisti e comunisti) e i fondamentalisti, ma sono stati incapaci (o impreparati) di contenere le minoranze di giovani  apolitici, spesso connessi attraverso la rete con l'occidente (i blogger, il popolo della rete) e con una forte propensione ad essere padroni del proprio destino.
Foto dal sito Il Journal
Una volta caduto il regime (senza la protezione esterna) è emersa appunto la difficoltà politica di queste "avanguardie" che alle elezioni hanno dovuto cedere il passo "all'islamismo politico", ovvero a quelli che (Fratelli Mussulmani e altri simili) in tutti questi anni hanno continuato a svolgere attività politica a stretto contatto con la gente, spesso sostituendosi allo stato nell'organizzazione del welfare sociale. La riflessione di Guolo è impeccabile: "un terzo della popolazione egiziana è analfabeta. Alle elezioni le masse hanno votato per chi conoscevano, per chi era in grado di parlare il loro linguaggio, non per le minoranze attive che non avevano lo stesso impatto sulla gente"
Ora la sfida dei partiti islamici è quella del governo, per la prima volta si trovano a fare i conti con la complessità, trovandosi di fronte dei grandi vincoli come la gestione dell'economia e la complessa organizzazione militare-economica (i militari detengono il 40% dell'economia egiziana). Questa è la scommessa per il futuro.

Naturalmente, nel corso del dibattito, non sono mancate riflessioni  più ampie sulle questioni geopolitiche di un'area a forte instabilità. La questione siriana - di grande attualità - e il legame con l'Iran, spaventano. Così come, di riflesso la questione israelo-palestinese, ridiventa nuovamente il punto centrale del contendere. Su questo Massimo Cacciari, si lancia in alcune provocazioni-riflessioni, che meritano una attenta riflessione. Ve le sottopongo a modi spot.
-tutto questo (l'avvento di questi movimenti) avviene perchè non vi è più l'Impero (contenimento americano) che a dire del filosofo "ha fatto delle cappelle a nastro". Il mondo ha necessità dell'Impero.
-siamo così convinti che questi paesi vogliano la democrazia?
-vi è un forte scetticismo sulla capacità dei nuovi governanti arabi di guidare la complessa questione israelo-palestinese
-la catastrofe scoppierà a Gerusalemme (coinvolgendo l'asse Iran-Siria).


La mia impressione è che vi sia una forte paura dell'islam (ovvero del suo radicalismo), comprensibile dalla parte del mondo che oggi domina e che si fonda sul cristianesimo.Quel meccanismo di controllo (di contenimento) dell'Impero americano garantiva la tenuta di un sistema che consentiva a noi maggiore sicurezza e ricchezza e a loro (chi abitava in quella parte del mondo) repressione, povertà (non per tutti) ed un certo isolamento. Tutti questi elementi sono oggi crollati, senza che noi fossimo in grado di predirne (anticiparne) e di guidarne gli eventi. Se aggiungiamo che oltre alla caduta dell'Impero, assistiamo ad una crisi economica spaventosa che coinvolge "il nord del mondo" (Europa e Stati Uniti in testa) e che gli andamenti demografici ci raccontano che Europa e Stati Uniti raggiungono a malapena un settimo della popolazione mondiale, qualche preoccupazione su quello che avviene (e che avverrà) è legittima.

Ecco il primo post di Sancara allo scoppio della "rivoluzione egiziana".