venerdì 31 maggio 2013

Popoli d'Africa: Daasanach

foto dalla rete
I Daasanach (chiamati anche Dama, Merile o Geleb) sono un piccolo gruppo etnico che vive prevalentemente in Etiopia (circa 50 mila) intorno all'area bassa del fiume Omo, dove questo entra nel Lago Turkana (il loro nome significa appunto "popolo del delta"). Altri gruppi, meno numerosi, vivono in Kenya e Sud Sudan (altri 10 mila).
Originariamente questo popolo abitava le sponde del Lago Turkana, di cui l'Omo è immissario, (dove ancora oggi una parte di loro vive), per poi spostarsi verso nord alla ricerca di pascoli. Oggi è l'ultima (in senso geografico) etnia che vive lungo il fiume Omo e anche tra le più isolate e a rischio.
Per tradizione pastori nomadi, i Daasanach i sono lentamente trasformati in agricoltori (sorgo, mais e piselli, i loro principali raccolti), sfruttando il terreno semi-arido del loro habitat. Sono diventati anche abili pescatori e costruiscono
foto dalla rete
canoe ricavata da un tronco d'albero. L'habitat dove vivono è molto estremo: arido, con temperature oltre i 35 gradi, in zona malarica e, lungo il fiume, infestato dalla mosca tze-tze.
Il bestiame assume - come avviene spesso in Africa e non solo - un forte valore simbolico e rituale, mentre da esso si ricava oltre al latte e al cibo, anche il sangue (che viene bevuto) e quel poco abbigliamento che usano.

Hanno una complessa struttura sociale a discendenza patrilineare e articolata in classi di età (per cui sono previsti nella loro tradizione una serie di riti di passaggio)  divisa in otto sezioni territoriali (chiamati emeti), con grande autonomia sulle questioni interne, a loro volta suddivisi in massimo otto clan. I loro villaggi sono molto semplici, con abitazioni (capanne) ricavate tradizionalmente da tronchi e foglie, e recentemente da carta, plastica e lamiere.


I Daasanach hanno un elevato conflitto con i popoli vicini, in particolare con gli Hamar, i Nyangatom, i Turkana e i Gabra, per questioni relative ai pascoli, ma non solo (su questo tema vi segnalo questo saggio di Yntiso Gebre, dell'Universitòà di Berlino, proprio sui conflitti di questa area).

Le donne lavorano bellissime collina di perle colorato di cui amano adornarsi, assieme ad altre forme di ornamenti, di più recente introduzione, come ad esempio i tappi di bottiglie. 
Tra le donne di questa etnia è ancora purtroppo molto praticata, tra i 10 e i 12 anni, la clitoridectomia (una delle orrende mutilazioni genitali femminili), per cui donne che non l'hanno subita vengono considerate sullo stesso piano degli animali e non viene data loro la possibilità di sposarsi.

Come per molti popoli della valle dell'Omo questa etnia è soggetta, oltre alle carestie e ai rischi dovuti ai progetti invasivi (dighe) che si stanno portanto a termine (vedi scheda su Survival International), ad una forte attrazione da parte del turismo internazionale. Sicuramente "quell'alone di primitivo" che li circonda affascina, forse anche il seno nudo di belle e giovani donne deliziosamente ornate, contribuisce a questa "morbosa" attrazione. La rete offre infinite gallerie fotografiche.

Vi segnalo questa interessante racconto, anche fotografico, sul popolo Daasanach dal blog Trip Down Memory
Vi segnalo anche il blog The Angaza Project dove è possibile vedere alcuni filmati (documentari) sulla vita nella regione dei Dassanech

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venerdì 24 maggio 2013

Libri: Africa S.p.A.

Un'Africa diversa è quella che viene descritta e analizzata dal ricercatore indiano Vijay Mahajan nel suo libro Africa S.p.A.. Un continente che è un'opportunità, e non una disgrazia, un continente che come il sottotitolo ricorda ha "900 milioni di consumatori che sono una grande opportunità di business ancora inesplorata"
Pubblicato nel 2009, in Italia dalla Pearson Paravia ed a opera della Wharton School Publishing, è un testo che analizza, con rigorosità e con minuziosa conoscenza, la situazione attuale del mercato africano, attraverso le storie e le testimonianze di imprenditori, manager e imprese che in Africa hanno (e stanno) scoprendo l'enorme vastità del mercato interno.
L'analisi di Mahajan  merita di essere letta, perchè offre una visione diversa dell'intero continente. Egli stesso nella premessa sottolinea come, alla pari di altri studiosi, "ha sempre considerato l'Africa più come una questione umanitaria che come una opportunità di mercato". Alla luce di questo nuovo paradigma l'autore, dopo aver percorso in lungo e largo il continente, ha voluto raccontare come stanno veramente le cose.

Dal produttore alimentare alle fibre ottiche, dal trasporto aereo alla musica, dal turismo all'editoria, dalla telefonia e internet l'Africa è un pullulare di iniziative e di imprese, che fanno affermare a Mahajan che "il continente è molto più ricco di quanto di pensi". Egli sottolinea come questo enorme mercato (quando scrisse il libro affermava che a breve gli africani sarebbero stati un miliardo), con una grandissima componente giovanile, ha molti bisogni e la sua crescita è, e sarà, straordinaria. E non si pensi che le imprese siano concentrate solo in alcuni paesi. Nell'elenco delle prime 500 aziende africane, sono rappresentati ben 16 paesi del continente.
Infine il libro affronta anche il tema dell'ottimismo, diffuso tra le giovani generazioni, che si contrappone alla cappa di pessimismo (legittimo!) che angoscia le menti dei giovani dei ricchi paesi.

Un libro, ripeto da leggere, per conoscere un'altra Africa e per sottolineare ancora una volta come questo straordinario continente continui a far convivere (sebbene con difficoltà, sia chiaro) popoli "primitivi" e centri universitari e di ricerca all'avanguardia (o per usare le parole di Mahajan "dai  cesti di vimini e dalle regioni inquiete ad alcune delle economie più prospere e dai tassi di crescita più veloci al mondo").

Vijay Mahajan, nato nel 1954 a Puna in India, è ritenuto uno dei massimi esperti nel campo del global business e del marketing. Dopo aver lavorato nel marketing per conto di una multinazionale, e' stato preside della Indian School of Economy ed è docente di economia presso la University of Texas. Si occupa di microfinanza e impresa sociale.

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mercoledì 22 maggio 2013

Riserva della Biosfera di Yangambi


La riserva naturale di Yangambi, oltre 230.000 ettari, si trova nella Repubblica Democratica del Congo, nella provincia orientale a 90 chilometri ad ovest della città di Kisangani (un tempo Stanleyville), sulle sponde del fiume Congo. Si tratta di un importante sito di foresta tropicale umida (posto intorno ai 500 metri d'altezza), che grazie alla sua straordinaria  biodiversità consente di osservare oltre 32 mila specie di piante, oltre ad una grande varietà di animali tra i quali elefanti, scimmie (tra cui lo scimpanzè) e potamocheri (animali simili ai cinghiali).
Il sito è diventato riserva della biosfera dell'UNESCO nel 1976.
Non vi sono dati sull'ammontare di persone che vivono all'interno della riserva, dove si svolgono (nel pieno rispetto delle convenzione sulle riserve della biosfera) attività antropiche come agricoltura (si produce in particolare olio di palma molto apprezzato in oriente ed in particolare in Malaysia) e pesca. Vi sono anche delle miniere di oro.
Tra le attività di ricerca (nella zona detta core, di circa 160 mila ettari, anche queste legate alla convenzione sulle riserve), vi sono soprattutto quelle legate alle reintroduzione di specie vegetali a rischio di estinzione.


Tra gli istituti di ricerca che maggiormente si occupano di questa area vi è l'INERA Research Institute, che tra le altre cose gestisce anche l'orto botanico e uno straordinario erbario con oltre 150 mila specie vegetali (http://www.congobiodiv.org/en/infrastructure/herbaria/yangambi) e la IFA (Institut Facultaire Agronomique) (http://ifayangambi.com/) entrambe le istituzione nate durante il colonialismo belga.

Ecco alcuni dati sul clima e sulle specie animali (mammiferi e anfibi) presenti nella Riserva

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lunedì 20 maggio 2013

Femen in Tunisia

La giovane tunisina, attivista di Femen, ha ottenuto il suo scopo: far parlare di se e delle tematiche per cui si batte. L'ha fatto in un modo insolito e sicuramente provocante per un paese, come la Tunisia, che dopo la primavera araba stenta a trovare la sua strada. Mentre, cresce. il peso dell'islam sulla vita pubblica. Amina Tyler, questo è il nome della giovane diciannovenne tunisina, è una ragazza spigliata e determinata, che non ha esitato a manifestare a seno nudo davanti ad una moschea per denunciare la condizione delle donne in Tunisia e la deriva integralista che il paese rischia di intraprendere.

dalla rete
Femen, è un movimento nato in Ucraina nel 2008, che ha come obiettivo quello di sostenere le lotte delle donne, a difesa della parità di genere e contro ogni discriminazione. Lo fa in un modo insolito, e molto criticato, da uomini e donne, scoprendo pubblicamente il seno (in realtà fino all'agosto del 2009 lo fece in biancheria intima). Anna Hutsol (o Gutsol), economista e attrice teatrale nata nel 1984 è stata una delle fondatrici, mentre gran parte delle originarie compagne di questo insolito viaggio, proveniva dall'ambiente universitario . In poco tempo il movimento è diventato noto in tutto il mondo e azioni simili sono uscite dai confini dell'Ucraina, giungendo in Polonia, in Francia, in Italia, in Svizzera, in Brasile, in Canada e ora in Tunisia.

Irina Schevchenko, altra storica leader del movimento, ha sempre voluto sottolineare come il loro messaggio, senza la provocazione del seno nudo, non sarebbe mai giunto in maniera così dirompente sue media mondiali. E' difficile darle torto.

Naturalmente Amina è stata subito arrestata dalla polizia tunisina, così come a seguito della sua precedente azione, era sparita dalla circolazione perchè la famiglia d'origine l'aveva in qualche modo "sequestrata". In Tunisia Amina ha ricevuto qualche solidarietà per la sua azione, ma soprattutto molte critiche anche dalle femministe islamiche, che hanno affermato come "Femen abbia rubato la loro voce" (perfino sui social network sono nati gruppi di donne islamiche contro Femen).


Del resto nemmeno in Occidente i giudizi su Femen sono univoci.

Amina però rischia molto, molto di più delle sue compagne di battaglia in Ucraina o in Francia (che pure rischiano sempre di essere malmenate, arrestate e condannate). Dopo il suo primo gesto, la pubblicazione su Facebook di una foto a seno nudo con una scritta in arabo inneggiante i diritti delle donne, l'attenzione nei suoi confronti è cresciuta e la sua aperta sfida al movimento salafita tunisino (per semplicare movimento radicale che preme per una lettura integrale del Corano e per l'applicazione della sharia) ha determinato il pronunciamento di una condanna a morte (fatwa) nei suoi confronti. I salafiti da tempo sfidano il governo.

Le gesta di Amina dividono fortemente il mondo nord-africano. Culturalmente il suo seno scoperto vuole mettere a nudo un sistema in cui la donna è messa da parte e che faticosamente tenta di conquistare un suo spazio, ora che i vari re sono usciti di scena. Lo fa, come avvenne alla fine degli anni '60 in Europa e in America con i movimenti di emancipazione, scoprendo il seno per rivendicare il proprio diritto ad esistere e pretendere, non piccole concessioni, ma un radicale cambiamento nella vita sociale del proprio paese.
La differenza semmai è nella capacità di comunicare che oggi raggiunge, in poche ore, una scala planetaria varcando confini un tempo impensabili.
Hanno ragione le attiviste di Femen, senza il seno scoperto l'attenzione mondiale sarebbe venuta meno. E' innegabile.

Mentre il seno nudo di Amina agita milioni di abitanti del Nord-Africa, stretti nella morsa tra un islam sempre più aggressivo e la voglia di libertà e democrazia, mentre in Europa il seno scoperto delle Femen attira forse più per una morbosa curiosità, in Africa sub-sahariana, le donne, a seno nudo, cercano faticosamente di sopravvivere. Non tutti i seni evidentemente, sono uguali.


Ecco il sito ufficiale di Femen

venerdì 17 maggio 2013

Il tamburo parlante

Tra gli strumenti a percussione africani, il tamburo parlante, meglio noto nella dizione inglese talking drum, è senz'altro quello più curioso e sotto molti versi più affascinante. Originario dell'Africa Occidentale, è un tamburo bipelle (con due membrane tese) a clessidra (ricavato da un unico blocco di legno), che viene suonato con una bacchetta ricurva e  tenuto sotto l'ascella (a volte è anche per questo chiamato tamburo d'ascella).  Il braccio preme su delle corde che tendendo le pelli (originariamente fatte di budella animale), modulano il suono. Alcuni popoli, come gli Hausa della Nigeria o i Bulu del Camerun riescono a produrre suoni che assomigliano moltissimo alla voce umana. Da questa caratteristica, il nome. Conosciuto già durante l'Impero del Ghana, è uno strumento della tradizione Hausa e Yoruba ed è spesso utilizzato dai griot (cantori e custodi della tradizione orale dell'Africa Occidentale).
Conosciuto con nomi diversi come tama o tamma (tra i serer, i wolof e i mandinga), gan gan o dun dun (tra gli yoruba), dondo (tra gli akan), lunna (tra i dagbani), kalaugu (tra gli hausa), tamanin (tra i bambara) e doodo (tra i songhai).




Un tamburo dal suono che assomiglia alla voce umana non poteva che assumere un ruolo rituale e religioso (ancora oggi il suo uso, in particolare tra gli Yoruba, è legato alla pratica religiosa ed alle cerimonie) e di comunicazione, anche a notevole distanza. Non a caso ne fu proibito l'uso tra gli schiavi, per il timore che potessero comunicare tra di loro.


Tra i suonatori di talking drum vi sono il polistrumentista maliano Baba Sissoko (nel video), molto conosciuto in Italia e i senegalesi Assane Thiam e Yamar Thiam. Non sono mancati utilizzi di questo strumento fuori dalle musiche tradizionali africane.

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martedì 14 maggio 2013

I palazzi reali di Abomey

A partire dal 1685 Abomey (oggi città turistica del Benin) è stata la capitale di uno dei più prosperi regni dell'Africa Occidentale, il regno di Dahomey fondato dall'etnia Fon. Tra il XVII e il XIX secolo furono edificati una serie di edifici, divenuti nel 1985 Patrimonio dell'Umanità UNESCO.
Per l'esattezza, tra il 1695 e il 1900, dodici re che si susseguirono alla guida del potente regno edificarono, utilizzzando materiali tradizionali, 10 palazzi reali in un'area di circa 47 ettari. Originariamente l'intera città era protetta anche da un grande muro di fango.

Gli edifici che sono composti da circa 184 diversi elementi tra cui bassorilievi policromatici, sculture e murales, rappresentano una straordinaria testimoniananza della cultura Fon. Infatti, l'assenza di scrittura, rende questi elementi l'unica rappresentazione della vita di quei tempi.

La città, e di conseguenza chi edifici, fu parzialmente distrutta a seguito di un incendio nel 1892, quando l'ultimo re del regno Dahomey, Behanzin (famoso anche perchè aveva un esercito di donne), diede fuoco a tutto prima di cedere, fuggendo, la città ai francesi.
Nel 1984 un tornado distrusse nuovamente parte degli edifici e nel 1985 l'UNESCO decise di tutelare questo patrimonio, inserendo i Palazzi Reali di Abomey (fino al 2007) nella lista dei Patrimoni dell'Umanità UNESCO in pericolo. 
Oggi in realtà sono due in particolari gli edifici reali in buono stato, entrambi del 1800, quelli del re Ghazo e del re Glelè.
Ancora oggi i discendenti delle famiglie reali si contendono il "titolo" di re ed i palazzi sono ancora utilizzati per le importanti cerimonie, mentre la popolazione nutre una sorta di venerazione sacra per i  defunti reali.

I Fon furono però anche dei commercianti di uomini. La loro prosperità fu per molto tempo dovuta al commercio degli schiavi, che praticavano con grande intensità (del resto siamo in quella che è conosciuta tristemente come la Costa degli Schiavi) con gli europei in cambio soprattutto di armi. Questo aspetto è descritto anche nel libro di Bruce Chatwin pubblicato nel 1980 Il vicerè di Ouidah che racconta appunto la storia di un negriero brasiliano, Dom Francisco Manoel da Silva (ispirato alla figura reale di Francisco Felix da Sousa) che nel Dahomey guida la fiorente tratta degli schiavi direttamente con la famiglia reale (il cui re Ghazo lo nomina vice-re di Ouidah) fino alla sua messa al bando. Dal libro è stato tratto anche un film, Cobra Verde, del regista tedesco Werner Herzog.

Ecco il sito del Museo storico di Abomey
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mercoledì 8 maggio 2013

I falascia dell'Etiopia

Qualche tempo fa ha fatto il giro del mondo l'immagine di Yityish Aynaw, la prima donna nera ad essere eletta Miss Israele. In realtà la sua notorietà si deve maggiormente all'incontro con il Presidente americano Barak Obama avvenuta durante una cena offerta dal Presidente israeliano Shimon Peres.

Titi, così è più semplicemente chiamata la reginetta di bellezza, ha origini etiopi ed è della comunità "falascia", i neri ebrei che vivevano in Etiopia, che Israele trasferì con una serie di operazioni segrete dal 1984 al 1991.

I Falascia (letteralmente emigrato, straniero) sono un popolo etiope di religione ebraica, non differenti dalle popolazioni locali, fatto salvo per la loro religione. L'origine storica di questo popolo resta controversa (i primi resoconti appartengono ai viaggiatori arabi del 1400), sebbene la tesi più accreditata sia quella della fusione tra popolazioni autoctone e ebrei fuggiti dall'Egitto. In Israele sono conosciuti come Beta Israel.

Israele dal 1984 al 1991 condusse tre operazioni clandestine, coordinate dai servizi segreti, per "spostare" questo popolo dal Corno d'Africa ad Israele, complessivamente nelle tre operazioni, denominate Mosè, Giosuè e Salomone, furono trasferiti quasi 30 mila falascia (altre fonti parlano di 90 mila, ovvero l'85% della popolazione).

I Falascia, da sempre in conflitto con il regime etiope, fuggirono durante il periodo 1977-79 nel Sud Sudan a causa della carestia. Stipati in campi profughi, con un governo ostile e in guerra con le popolazioni del sud (le loro condizioni non erano dissimili da quelle delle popolazioni del Sud Sudan), fecero crescere attorno a loro l'attenzione dell'opinione pubblica israeliana. Il 21 novembre 1984 il governo israeliano (Primo Ministro Shimon Peres, l'attuale Presidente) fece partire l'operazione clandestina (grazie anche al segreto via libera del governo sudanese) denominata Mosè. Attraverso un ponte aereo (alla media di circa 160 partenze al giorno dirette in Europa da un volo charter belga) e fino al 5 gennaio 1985 furono evacuati circa 8000 falascia etiopi. L'operazione ebbe fine quando, una volta resa pubblica l'operazione, i governi arabi fecero pressione sul regime del Sudan, costringendolo a chiudere gli spazi aerei ad Israele.
In realtà le operazioni di evacuazione via terra e poi via mare erano già attive dalla fine del 1981 avendo come base un villaggio turistico a Port Sudan sul Mar Rosso e continuarono anche dopo grazie alla ripresa dei rapporti diplomatici con l'Etiopia. 



L'ultima operazione di evacuazione fu quella denominata Salomone avvenne nel maggio 1991 quando il regime di Menghistu era prossimo al collasso e che in sole 36 ore, grazie all'utilizzo simultaneo di 34 aerei, furono evacuati dal nord dell'Etiopia 14.500 falascia. 
Per farlo si svuotarono completamente gli aerei e ai passeggeri venne consentito di portare solo i propri vestiti. Le cronache del tempo ricordano di un Boing 747 che trasportò ufficialmente 1122 passeggeri.

La vita dei molti ebrei neri subì un brusco cambiamento. Catapultati in poche ore da una vita rurale, sebbene di stenti, negli altopiani del nord dell'Etiopia vicino al lago Tana alla moderna Tel Aviv, una volta spenti i riflettori sulla loro vita, hanno vissuto (e vivono tutt'ora) il difficile dramma dell'integrazione. Del resto non sono mai stati nemmeno accettati da tutti i rabbini come "ebrei" e non sono mancate accuse di razzismo verso di loro.

Per la cronaca, la giovane Yityish Aynaw, che oggi ha 21 anni, ha dichiarato di essere giunta in Israele 12 anni fa, quando era bambina. Ancora oggi comunità di falascia vivono in Etiopia.

Sull'operazione Mosè, nel 2005 il regista franco-romeno Radu Mihaileanu (l'autore dello splendido Train de Vie) ha girato un bel film intitolato Vai e vivrai.

martedì 7 maggio 2013

Popoli d'Africa: Kru


I Kru sono un gruppo etnico della Liberia e in piccola parte della Costa d'Avorio, che oggi possono essere divisi in 21 tribù (secondo altri etnologi 24) assimilabili per lingua e cultura. Complessivamente si stimano essere circa 10 millioni di individui di tale etnia. Essi rappresentano circa il 7% della popolazione della Liberia. Vengono per comodità distinti in due grandi raggruppamenti in base al luogo di residenza: i Kru della Costa (Liberia) e i Kru della foresta (Liberia e Costa d'Avorio). Parlano la lingua Kru della grande famiglia linguistìca Niger-Congo. Per l'80% oggi sono cristiani, mentre permangono molte delle tradizioni religiose incentrate sulla figura del Dio creatore Nyesoa e su molte ritualità.
Secondo alcuni studiosi i Kru migrarono dall'odierno Mozambico verso la costa dell'Africa Occidentale, sebbene tale tesi non trovi precise conferme. Quel che è certo che il popolo della costa sfruttò molto la sua posizione strategica di cerniera tra acqua e terra. Infatti i coloni per passare verso l'interno dovevano attraversare i loro territori, così come per sbarcare dalle navi era necessario, in assenza di strutture a terra, utilizzare le loro piroghe. Ottimi pescatori, divennero ben presto provetti marinai.
I Kru della foresta (migrati verso l'interno a partire dal XV secolo e fino al XVII secolo) divennero invece cacciatori e restarono sicuramente più isolati.
Entrambi hanno una lunga tradizione nella coltivazione del riso e della cassava.
I Kru, che già erano stati conosciuti dagli Europei (in particolare inglesi e olandesi) perchè "contrari" alla tratta degli schiavi (perfino come schiavi il loro valore era minore perchè propensi alla ribellione e alla fuga), si opposero fortemente, ingaggiando una vera e propria guerra contro la marina americana, a metà dall'ottocento all'ingresso degli afro-americani a cui era stato assegnato l'area costiera della Liberia, temendo di perdere il controllo del commercio.
Il realtà la pacificazione tra i Kru e il governo liberiano avverrà molto molto lentamente.
Tra le curiosità del popolo Kru vi è il ritrovamento di alcuni oggetti, chiamati dwin, tien o nitien, i quali non trovano ancora una precisa risposta sul loro utilizzo. Infatti alcuni ritengono che si tratti di antichi oggetti rituali, mentre altri propendono per il lor uso come monete tradizionali. 




Ecco un approfondimento sul popolo Kru dal sito Trip Down Memory Lane 
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