martedì 29 ottobre 2013

Ghadames: la perla del deserto

Ghadames è una città che sorge in un oasi del deserto della Libia, al confine con Algeria e Tunisia. La sua posizione strategica, di avanposto fortificato in area pre-desertica, l'hanno fatta diventare, nel corso dei secoli, un importante centro commerciale sulle rotte carovaniere.
E' ritenuta la più antica città pre-sahariana, le cui origini risalgono alla città di Cidamus di epoca romana (20 a.C.). E' stata nel corso degli anni occupata da bizantini, dagli arabi, dai grandi imperi islamici, dai turchi, dagli italiani e dai francesi, i quali hanno lasciato la loro grande o piccola impronta.
La sua importanza è anche di tipo architettonica, grazie alla suddivisione degli spazi nel senso verticale e legato alle sue funzioni.
Oggi è una cittadina nell'oasi omonima, circondata da immense dune desertiche, di circa 10 mila abitanti, distribuiti tra berberi sedentari, arabi e tuareg.
Nel 1986 la città antica (centro storico) è diventato Patrimonio dell'Umanità UNESCO, per la sua unicità della sua architettura.

Foto da National Geographic
Da un punto di vista architettonico la città storica si presenta come un'insieme di costruzioni molto fitto, bianche, collegate tra loro da cunicoli e passaggi coperti (per consentire di spostarsi anche durante la calura diurna), che fanno immaginare la grandiosità del passato. Disseminata di palme da datteri (durante la cui raccolta si celebra anche un importante festival) la città ha avuto, soprattutto nel corso del Novecento, un notevole sviluppo creando una vera e propria "periferia".
La sua posizione strategica di confine, oggi la rendono molto vulnerabile ai commerci illegali e al passaggio di uomini in fuga verso il Mediterraneo.

Ecco alcune belle immagini di Ghadames nel sito di Paolo Cason

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mercoledì 23 ottobre 2013

Hugh Masekela, un virtuoso della tromba

Hugh Ramopolo Masekela è un trombettista jazz sudafricano, nato nel 1939 nella città di Witbank. Il suo contributo all'evoluzione del jazz è stato determinante, avendo collaborato con i maggiori musicisti del jazz moderno.
Inizia a suonare il piano da bambino, ma la svolta avviene a 14 anni, quando dopo aver visto un film dedicato a Bix Beiderbecke, decide si passare alla tromba. La prima gli viene donata dall'arcivescovo Trevor Huddleston e anche grazie a lui pochi anni dopo forma la sua prima band chiamata Father Huddleston Band (con cui nel 1956 incide il primo album).
Ascolta la musica jazz dal grammofono e ne diviene un vero e proprio esperto riconoscendone dettagli e sfumature tecniche. Nel 1956 si aggrega all'African Jazz Revue di Alfred Herbert e suona con i Manhattan Brothers di Nathan Mdledle. Lavora anche in tournè con Miriam Makeba e nel 1959 con Dollar Brand.
Come tutta una generazione di musicisti neri sudafricani, dopo il massacro di Sheperville del marzo 1960 e a seguito delle ulteriori leggi razziali, è costretto a alasciare il paese e si rifugia a Londra. Poco dopo, grazie all'intervento di Miriam Makeba, Herry Bellafonte e Dizzy Gillespie riesce a trasferirsi a New York, dove incontra il suo mito, Louis Armstrong.
La collaborazione musicale, e non solo, con Miriam Makeba lo portano ad incidere con lei ed arrangiare molti dei suoi pezzi contribuendo alla sua notorietà internazionale. I due si sposano anche nel 1964 (per separarsi solo due anni dopo, sebbene la collaborazione tra loro non sarà mai interrotta).
La carriera di Hugh prosegue negli Stati Uniti (dove collabora con i gruppi rock emergenti ed in particolare con i The Byrds e con Bob Marley), poi agli inizi degli anni '70 in Ghana prima e in Nigeria dopo, dove incontra e suona con Fela Kuti e Manu Dibango.

Nel 1981 si trasferisce in Botswana, dove fonda la Botswana International School of Music. Poi è ancora in Inghilterra dove è in tour con Paul Simon e con i Ladysmith Black Mambazo.
Solo nel 1990, a seguito della liberazione di Nelson Mandela, torna, dopo 30 anni di esilio in Sudafrica, dove nel 1991 effettua il suo prima tour ormai da musicista affermato e molto seguito.



Da allora non si contano le collaborazioni e le incisioni.

Oggi, ad oltre 70 anni di età, si può affermare senza dubbio che Mesekela sia uno dei musicisti africani più noti e più apprezzati (nel 2004 ha pubblicato anche un'autobiografia). Le sue collaborazioni internazionali (nella sua carriera vi sono anche partecipazioni a musical, documentari e film) portano il suo stile sonoro che è sinonimo di qualità e raffinatezza.

Ecco il suo sito ufficiale
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martedì 22 ottobre 2013

Leopold Sedar Senghor (1906-2001)

Presidente Senegal (1960-1980)
Scrittore, poeta e ideologo.

Leopold Sedar Senghor è ritenuto unanimamente uno dei massimi intellettuali nati nel continente africano, nonchè l'ideologo, assieme all'antilliano Aimè Cesaire, a Leon Damas e successivamente a Franz Fenon, di quel movimento culturale, politico e letterario che prende il nome di negritudine.

Oltre che scrittore, filosofo, poeta e intellettuale, Senghor è stato anche un illustre politico, ricoprendo per oltre 20 anni (1960-1980) il ruolo di Presidente del Senegal.

Nato a Joal, un piccolo villaggio costiero a sud di Dakar (a cui Senghor dedica una poesia nel 1945), il 9 ottobre 1906. Sebbene la sua data di nascita fu registrata all'anagrafe due anni dopo, pare fosse nato in agosto.
Figlio di piccoli proprietari terrieri (il padre di origine Serer, la madre di etnia Fula), studia nella scuola cristiana di N'Gabosil e nel 1922, a 16 anni entra nel seminario di Dakar. Ben presto comprese che la vita religiosa era distante dalle sue idee, concluse gli studi liceali e dopo aver ottenuto una borsa di studio, si trasferì (1928) a Parigi, dove si laureò in Lettere, nel 1935 (nel 1932 aveva ottenuto la cittadinanza francese). Dopo la laurea insegna alle scuole superiori e all'Univesità, approfondendo i suoi studi di linguistica. A quel tempo Parigi ospita una grande comunità di intellettuali neri africani e dagli scambi con loro Senghor approfondisce il concetto della riscoperta della cultura africana in contrapposizione con la cultura imposta dai colonizzatori. Inventà così il termine negritudine. Arruolato nell'esercito francese nel 1939, imprigionato dal 1940-42 dai tedeschi (sarà internato in vari campi, tra cui quello di Poitiers), verrà rilasciato per le sue condizioni di salute. Nel 1945 per un breve periodo è nella resisetnza francese. Nel 1945 pubblicò anche la sua prima raccolta di poesie "Canti d'ombra"
Alla fine della guerra nel 1946 divenne Preside di Facoltà alla Ecole Nationale de la France d'Outre-Mer (posizione che tenne fino al 1960), l'Università che formava i dirigenti coloniali.
Nello stesso anno, Lamine Gueyè, leader del Partito Socialista Senegale, gli suggerì di essere eletto all'Assemblea Nazionale Francese (le colonie esprimevano dei seggi), così che riuscì a fare. Presto su posizioni diverse da Gueyè, nel 1948 fondò un proprio partito, assieme a Mamadou Dia, il Blocco Democratico Senegalese. Nel 1951 fu rieletto per un secondo mandato in Parlamento e nel novembre 1956, divenne sindaco di Thies (Senegal).
Dal 1959 al 1961 fu consigliere del governo francese di Michel Debre e membro della commissione incaricata di eleaborare la Costituzione della Prima Repubblica.
Assiduo sostenitore delle necessità di formulare delle cooperazione tra gli ex-territori francesi (Commonweath Francese) nel 1959, assieme al maliano Mobito Keita, fondò la Federazione del Mali (la quale ottenne indipendenza piena della Francia nell'aprile 1960) di cui divenne presidente dell'Assemblea.
Poco dopo, il 20 giugno 1960, il Senegal lasciò la Federazione (per dissidi con Keita) e  dopo essere stato Capo di stato provvisorio, il 5 settembre 1960 fu eletto Presidente del Senegal.
Senghor - che ha anche scritto l'inno nazionale del Senegal - governò con Mamadou Dia Primo Ministro fino al 18 dicembre 1962 (Senghor curava le relazioni estere, mentre Dia seguiva i fatti interni), quando Dia fu arrestato sospettato di aver progettato un colpo di stato (restò in carcere fino al 1974).  
Il 22 marzo 1967 Senghor subì un tentativo di assassinio mentre era in Moschea a Dakar durante la festa del Tabaski. Al killer non funzionò la pistola e fu giustiziato, per tradimento, nel giugno 1967. Nel 1976, a seguito delle lotte studentesche il Senegal introdusse il mutipartitismo, sebbene a soli tre partiti (socialisti, comunisti e liberali).
Il 4 dicembre 1980, poco prima della fine del quinto mandato consecutivo, Senghor rassegnò le dimissioni (caso quasi unico in Africa) e il primo gennaio 1981 cedette il potere al suo Primo Ministro, Abdou Diouf che guidò il paese fino al 1 aprile 2000.

Ritiratosi dalla vita politica attiva, il 2 giugno 1983 fu il primo africano ad essere nominato membro dell'Accademia Francese, mentre continuò la sua attività di saggista e poeta. Trascorse gli ultimi anni della sua a Verson in Normandia, dove morì,a 95 anni, il 20 dicembre 2001. Il Presidente francese Chirac, al suo funerale pronunciò una frase che forse rappresenta la sintesi di questo uomo straordinario: "La poesia ha perso uno dei suoi maestri, il Senegal un uomo di stato, l'Africa un visionario e la Francia un amico." Fu sepolto il 29 dicembre a Dakar.

A lui è stato intitolato l'aereoporto internazionale di Dakar.

Ecco l'inno del Senegal, scritto nel 1960 da Leopold Senghor.

Pizzicate tutti le vostre cora, battete i vostri balafon Il leone rosso ha ruggito. Il domatore della savana Di un balzo s'è slanciato dissipando le tenebre Sole sulle nostre paure, sole sulla nostra speranza Ritornello : In piedi fratelli ecco l'Africa riunita Fibre del mio cuore verde spalla contro spalla Miei più che fratelli. O Senegalesi, alzatevi! Uniamo il mare e le sorgenti, uniamo La steppa e la foresta. Ti saluto Africa madre.
Senegal, tu figlio della spuma del leone, Tu sorto dalla notte al galoppo dei cavalli, Rendici, oh ! rendici l'onore dei nostri Antenati Splendidi come l'ebano e forti come il muscolo! Diciamo diritti - la spada non ha una sbavatura
Senegal, facciamo nostro il tuo grande disegno: Riunire i pulcini al riparo dei nibbi Per farne, dall'est ad ovest, dal nord al sud, Ritti, uno stesso popolo, un popolo senza divisioni, Ma un popolo volto verso tutti i venti del mondo
Senegal, come te, come tutti i nostri eroi, Saremo duri, senza odio e con le braccia aperte, La spada, la metteremo nella pace del fodero, Perché il nostro lavoro sarà la nostra arma e la parola. Il Bantu è un fratello, come l'Arabo e il Bianco.
Ma se il nemico incendia le nostre frontiere Stiamo tutti eretti con le armi in pugno: Un popolo nella sua fede sfidando tutte le sventure; I giovani e i vecchi, gli uomini e le donne. La morte, sì ! Noi diciamo la morte ma non il disonore.

Ecco la pagina di The Poetry Foundation, dedicata a Senghor
Il dossier su Senghor dal sito African Study Center (con una bibliografia completa)
La scheda, in italiano, sul sito di Radio Radicale

Libri in italiano:
- Senghor. Poesie, a cura di Carlo Castellaneda, Nuova Accademia, 1963
- Elogio per la regina di Saba. Poesie, Ed.del Leone, 1985
- Senghor. L'uno e i molti, Antonella Emina, Bulzoni, 1992
- La negritudine in Italia (1950-1994), Cesaire, Damsa, Senghor, Bulzoni, 1995
- Canti d'ombra e altre poesie, Passigli, 2000

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lunedì 21 ottobre 2013

Popoli d'Africa: Chewa

I Chewa (chiamati anche Nyanja) sono un popolo (oggi intorno ai 12 milioni di individui) che abitano il Malawi e in numero inferiore lo Zambia, lo Zimbabwe e il Mozambico.
Parlano una lingua del ceppo bantu chiamata chichewa, che è anche lingua ufficiale del Malawi.
Gli storici ritengono che i Chewa migrarono, intorno all'anno mille, dall'attuale Repubblica Democratica del Congo, giungendo nell'attuale Zambia. 

Abili agricoltori (sorgo e frumento), sono conosciuti in tutta l'area anche per le loro maschere, per i loro tatuaggi e per l'organizzazione sociale del loro vivere. Sebbene vi sia stata un'alta conversione al cristianesimo (i missionari giunsero in quest'area a partire dal 1870), permangono molto elevate, in seno ai Chewa, le credenze tradizionali che vedono nel dio creatore Chiuta, l'origine della vita. Il contatto con gli spiriti degli antenati è sostenuto dalla danza e dalla musica. Ancora oggi, nelle aree rurali vivono in villaggi compatti, costituita da capanna dalla forma conica, e guidati da un capo-clan anziano a successione patrilineare.

Essi costituirono, attorno al XV secolo un importante regno e al suo interno si sviluppò la suddivisione in due principali clan (i Phiri, aristorcratici e i Banda, mistici) che ancora oggi costituiscono l'ossatura dell'organizzazione sociale dei Chewa. 
In particolare la nascita di una società segreta, quale la Nyau, incaricata della trasmissione orale dei rituali ha favorito la tutela delle loro complesse tradizioni che sono giunte sino ai nostri giorni (la danza Gula Wamkulu è dal 2005 diventata Patrimonio Immateriale dell'Umanità dell'Unesco).
Il Regno Chewa entrò in contatto, nel 1600, con gli esploratori portoghesi che ne descrissero la complessa struttura sociale e la cosmogonia. Il Regno si frantumò in molte dinastie nel XIX secolo.

Un approfondimento (ricco di immagini, tra cui quelle tratte per questo post) sui Chewa, dal blog Trip Down Memory Line

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venerdì 18 ottobre 2013

Oggi Giornata Europea contro la Tratta di esseri umani


Siamo tutti troppo presi da problemi importanti, quali l'ultima funzione del nostro smartphone o le vicende amorose di un anziano ex primo ministro, per distrarci con questione amene come la tratta di esseri umani. Proviamo a farlo, solo per un attimo, oggi, in occasione della 7° Giornata Europea contro la tratta di esseri umani.

Il traffico di merce umana è un industria, che frutta svariati miliardi di dollari. Un'industria globalizzata, che interessa tutto il pianeta e che secondo alcuni dati per l'80% è legata allo sfruttamento sessuale (di cui il 20% bambini). L'80% sono donne. Il numero complessivo sfiora di 3 milioni di individui. Numeri da capogiro.

I luoghi di maggior provenienza delle vittime sono l'Asia Orientale, il Sud America, l'Africa Occidentale e il Centro-Sud dell'est Europeo. 
Se ci concentriamo nella sola Europa, il 36% delle vittime proviene dall'Africa (la Nigeria è capofila di questa non invidiabile classifica), il 26% dall'Est Europeo e il 9% dall'Asia.

Da secoli e secoli gli uomini (nel senso di genere umano) sono merce (ne avevamo già parlato in questo post), quel che è cambiato è il loro utilizzo: da lavoranti non pagati nelle piantagioni di cotone a donne sfruttate sulle strade dei nostri quartieri. 
Oltre allo sfruttamento sessuale (nelle strade, ma anche nei club, nella pedo-pornografia e in tutte le variabili della perversione umana), le vittime sono schiave del lavoro (in agricoltura o nelle miniere, ma anche nel lavoro domestico), manodopera illegale (commercio di droga)  o, cosa forse più atroce, come pezzi di ricambio (donatori d'organi forzati).
Quel che è rimasto immutato è il guadagno (enorme) e una diffusa e pericolosa tolleranza verso questi fenomeni.

Dobbiamo essere chiari, assieme ai criminali (che nella maggioranza dei casi sono le grandi organizzazioni criminali) che, spesso con l'inganno, reclutano questi nuovi schiavi e li utilizzano, vi è una fetta di responsabilità della "gente comune". Da quelli che consumano sesso per strada fino ai "turisti sessuali", che nel nostro paese abbondano, soprattutto tra gli insospettabili. Forse, oltre ad incrementare le azioni di polizia contro i trafficanti, bisogna iniziare a colpire, severamente e senza ipocrisie, sugli "utilizzatori finali".

Certo, poi è innegabile che le radici di tutto questo affondano nella miseria e nella povertà. Finchè non ci saranno interventi seri e duraturi nei paesi di provenienza delle vittime, finchè perfino essere schiave sarà meglio che morire di fame, finchè non vi saranno interventi decisi sulle transazioni finanziarie (perchè non dimentichiamolo: le organizzazioni criminali reinvestono il denaro sporco sul mercato legale), finchè non sveglieremo le nostre menti sopite, i cattivi vinceranno sempre.

Oggi in occasione della Giornata Europea vi saranno molte iniziative in Italia e all'Estero. Dobbiamo tutti fare in modo che da domani tutto non torni solo tra le mani delle forze dell'ordine, delle associazioni e dei servizi che molti comuni hanno attivato in questi anni. 

Ecco il Rapporto 2013 della Commissione Europea

Tra le organizzazioni più attive contro la tratta dei minori vi è l'ECPAT (End Child Prostitution, Pornography and Trafficking).


martedì 15 ottobre 2013

Thomas Sankara (1949-1987), un sognatore

Presidente Burkina Faso (1983-1987)


“La nostra rivoluzione è, e deve essere, l’azione collettiva di rivoluzionari per trasformare la realtà e migliorare concretamente la situazione delle masse del nostro Paese. La nostra rivoluzione avrà avuto successo solo se, guardando indietro, attorno e davanti a noi, potremmo dire che la gente è, grazie alla rivoluzione, un po’ più felice perché ha acqua potabile, un’alimentazione sufficiente, accesso ad un sistema sanitario ed educativo, perché vive in alloggi decenti, perché è vestita meglio, perché ha diritto al tempo libero, perché può godere di più libertà, più democrazia, più dignità.”


Thomas Isidore Noel Sankara, per molti è stato il Che Guevara d'Africa. Un uomo integro, che aveva fatto di tutto, in parte riuscendoci, per far uscire il suo paese, l'Alto Volta (da lui rinominato Burkina Faso, "paese degli uomini integri") dalla povertà e dalla dipendenza verso gli ex paesi coloniali. Il suo progetto, rivoluzionario sotto molti aspetti, idealista, fu interrotto da una raffica di mitra dopo quattro anni. Aveva 37 anni.

Thomas, terzo di dieci figli, era nato a Yako il 21 dicembre 1949 da una famiglia cattolica (padre Joseph di etnia peul e madre Marguerite, mossi) che aveva tentato di indirizzarlo al sacerdozio. Da giovane fu un abile chitarrista, passione che l'accompagnò per tutta la vita. A 17 anni invece, Thomas si arruolò nell'esercito. La sua formazione militare avvenne in Madagascar (1970-73) all'Accademia militare di Antisitabè, in un periodo di tumulti e rivolte. Per un breve periodo sarà anche in Francia.


Dopo essere stato istruttore nella divisione paracadutisti (1976) ed aver frequentato un corso in Marocco (1978), assieme ad altri giovani ufficiali fondò, agli inizi degli anni '80, la ROC (Regroupment des Officiers Communistes), un'organizzazione di di miliari comunisti, con la quale prepara la "teoria" della sua rivoluzione.
Sotto la presidenza di Saye Zerbo (1980-1981), Thomas divenne nel 1981, dopo esser stato promosso capitano, Segretario di Stato per l'Informazione (settembre 1981), carica che abbandonò il 21 aprile 1982 in opposizione al regime.
A seguito del golpe del capitano Jean-Baptiste Ouedraogo avvenuto l'8 novembre 1982, Thomas Sankara divenne, il 10 gennaio 1983 Primo Ministro e in tale veste partecipa al vertice dei Paesi non Allineati a Delhi (7-12 marzo).
Il 17 maggio 1983 fu destituito e messo agli arresti domiciliari dallo stesso Ouedraogo. L'arresto portò ad una vera e propria rivolta, Sankara fu liberato il 30 maggio e il 4 agosto, i militari guidati da Blaisè Campaorè, sospinti dal movimento popolare di studenti e lavoratori, rovesciarono il regime di Ouedraogo e Thomas Sankara, assunse la carica di Presidente del Consiglio nazionale della Rivoluzione (CNR). Il gruppo dei fedelissimi è composto da Campaorè, Zongo e Lingani, oltre che da civili e molte donne.

I quattro anni di presidenza di Thomas Sankara furono una vera e propria rivoluzione. Il 2 ottobre 1983 Sankara pronunciò il discorso di orientamento politico, che gettò le basi della sua politica. Rinunciò a tutti i privilegi della sua carica (auto, aereo presidenziale e ogni genere di lusso). Il 4 agosto del 1984 l'Alto Volta divenne Burkina Faso e pochi giorni dopo nazionalizzò terre e miniere.

Il 4 ottobre 1984, pronuncia un celebre discorso alle Nazioni Unite (il Burkina Faso è membro di turno del Consiglio di Sicurezza), affermando "di parlare a nome di tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo". Poco dopo Sankara lancia un ambizioso programma di sviluppo che punta al miglioramento della vita, dell'ambiente e delle infrastrutture. Quella che in altri luoghi del pianeta potrebbe essere definita una rivoluzione "rosso-verde".

L'azione del suo governo si sviluppò secondo alcune direttive ben chiare: lotta ai privilegi e alla corruzione (si attenne ad uno stile di vita sobrio, senza privilegi per se e per la famiglia, non era insolito vederlo girare in bicicletta da solo, amava ripetere "non possiamo essere la classe dirigente ricca di un paese povero"), centralità della produttività agricola (produciamo quel che consumiamo), una forte politica dell'acqua (due pasti e 10 litri di acqua al giorno per ognuno), lotta alla desertificazione (non possiamo aspettare la siccità a braccia incrociate) e programmi di riforestazione, centralità del ruolo della donna, lotta all'analfabetismo partecipazione dei comitati alle decisioni e conservazione delle tradizioni.


Il suo grande carisma e la sua profonda onestà e sobrietà furono la spinta iniziale al cambiamento collettivo e alle conquiste. 
Il 29 luglio 1987 Sankara parlò alla XXV Conferenza dell'OUA ad Addis Abeba, pronunciando un forte discorso (ecco il link) contro il debito e invitando i paesi debitori a non pagarlo.

Forse spinse troppo oltre l'acceleratore, sicuramente chiese grandi sacrifici a tutti (sempre comunque prima a se stesso), quel che è certo è che si fece molti nemici all'estero e alcuni, più pericolosi, all'interno. Certo era un visionario e come molti uomini di quel genere era sprezzante e irriverente.

Il 15 ottobre 1987, Thomas Sankara fu ucciso assieme a 12 ufficiali. Ad organizzare il golpe fu il suo compagno e braccio destro, Blaise Campaorè, che ancora oggi guida il paese.

Si spegneva così la giovane vita di un idealista, di un sognatore che forse avrebbe potuto dare una svolta alle sorti dell'intero continente. Come scrisse Jean Ziegler, la morte di Sankara è stato un dramma per l'intera Africa. 

La storia di Thomas Sankara, le sue idee, le sue lotte, purtroppo, non sono molto note dalle nostre parti. L'Africa post-coloniale è un buco nero nella storia.

Per saperne di più:

Il sito Thomas Sankara Net, una ricorsa completa di documenti e altro
Questo invece è un documentario su Thomas Sankara curato dal giornalista Silvestro Montanaro
Fiorella Mannoia e Thomas Sankara (post di Sancara)
Una canzone che l'ivoriano Alpha Blondy ha dedicato a Sankara
La pagina facebook Giustizia per Thomas Sankara

Bibliografia (in italiano)

- Thomas Sankara. Una speranza recisa, Aluisi Tosolini, EMI Bologna, 1988
- La vittoria dei vinti, Jean Ziegler, Edizioni Sonda, 1992 
Thomas Sankara, il presidente ribelle, Marinella Correggia (a cura), Minifestolibri, 1997
-  L'Africa di Thomas Sankara, Carlo Batà, Acheb 2003
- Una foglia, una storia. Vita di Thomas Sankara, Valentina Biletta, Ediarco, 2005
- Sankara.Un rivoluzionario africano, Alessandro Aruffo, Massari, 2007
- La voce del deserto, Vittorio Martinelli, Zona, 2009

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venerdì 11 ottobre 2013

Tradizioni e riti della foresta sacra Kaya dei Mijikenda

foto dalla rete
I Mijikenda sono 9 gruppi etnici bantù (il nome significa nove tribù), che vivono nei pressi della foresta sacra di Kaya (divenuta Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO nel 2008) sulla costa del Kenya.
I riti e le pratiche relative alla foresta, ritenuta sacra, sono stati inseriti tra i Patrimoni Immateriali dell'UNESCO nel 2009, in quanto bisognosi di urgente salvaguardia. Si tratta di uno dei rari esempi in cui l'UNESCO oltre a salvaguardare il luogo fisico (la foresta) ha impegnato anche i governi alla tutela di un patrimonio di conoscenze, tramandate da generazione in generazione, che rischiava di essere perduto per sempre.
L'insieme delle pratiche rituali, che comprendono cerimonie di vario genere, ma anche un'intima conoscenza della foresta, come ad esempio il compendio delle erbe medicinali, sono state sviluppate a partire dal XVI secolo, quando i Mijikenda migrarono dall'odierna Somalia,  in villaggi fortificati chiamati Kayas, 11 complessivamente, in un'area di 200 chilometri. Questi villaggi, di cui oggi rimangono i resti (furono abbandonati negli anni '40), sono oggi preservati da un consiglio di anziani, denominato Kambi.

foto dalla rete
La foresta è un ecosistema molto ben mantenuto a causa della sua sacralità. Le popolazioni locali ritengono che all'interno della foresta vi abitino gli spiriti degli antenati, il cui legame e la cui protezione influisce sulla vita di ogni giorno. All'interno della foresta, tra i suoi sentieri si tengono cerimonie quali le sepolture, i matrimoni, i riti di passaggio e il consiglio degli anziani.

Gia' dal 1992 il Kenya aveva decretato che le foreste fossero Monumento Nazionale, inserendo così le foreste tra le area di conservazione, di studio e di tutela.

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giovedì 10 ottobre 2013

La merce umana

Sono 302 i morti accertati del naufragio a Lampedusa. Essi si aggiungono agli altri 19.142 che, dal 1988 a oggi, hanno perso la vita nei mari che circondano la nostra penisola. Un numero impressionante, un disastro che periodicamente si ripete, scatenando le ire di molti e smuovendo le coscienze addormentate di tanti, per poi essere dimenticato e tornare ad essere un fatto di pochi. Lo scrivevo nel mio post, già giorni addietro.

foto dalla rete
Gli uomini sono sempre stati merce. Gli africani ancora più di altri, una merce pregiata. Quasi 20 milioni furono portati con le catene nel nuovo continente. Schiavi che hanno permesso lo sviluppo economico e la ricchezza a chi li trasportava e a chi li usava.

Oggi sono merce pregiata per chi organizza questa ignobile tratta. Dal Corno d'Africa, dove massiccia è la miseria e quindi la necessità di fuggire, alla Libia  e infine alle coste italiane, il percorso è lungo e quanto più severe sono le leggi di contenimento dell'immigrazione (e quindi la possibilità di giungere nei paesi) tanto maggiori sono i guadagni. Si chiama mercato. illegale, ma pur sempre mercato.

Una storia che si ripete. La tratta degli schiavi ha contribuito alla nostra ricchezza, la tratta di esseri umani (sia quelli ai fini migratori, si quelli sfruttati per lavoro, prostituzione e commercio di organi) arricchisce un'altra parte del mondo, spesso gli stessi che commericano altre prelibatezze di questo pianeta (droga, armi e esseri umani) Differenze? Se fossimo onesti, no.
Su questo tema, quello della filiera della tratta e delle atroci peripezie di questi disperati torna oggi anche Raffaele Mastro nel suo blog Buongiorno Africa.

Con sdegno e disapprovazione ho letto commenti e perfino battute, non solo tra esponenti politici (molti dei quali hanno enormi responsabilità in quello che è successo e che succederà) anche tra amici virtuali che mi hanno addolorato. Come se i disperati del pianeta (perchè di questi che stiamo parlando) avessero colpa della loro povertà, della loro precarietà o delle guerre in corso, da decenni, nei loro paesi. Come se imbarcarsi con i propri figli piccoli (dopo aver fatto un viaggio di 4000 chilometri in balia di criminali) alla ricerca (o forse solo nella speranza) di una vita migliore, sia un reato.

Il vero reato è pensare che emigrare sia un reato. Che essere sfruttati sia una colpa. Oppure che tutti quelli che sbarcano siano criminali. Oppure gridare all'invasione quando dei 332 mila profughi giunti in Europa nel 2012 sono 13 mila quelli giunti sulle coste italiane! Numeri sicuramente gestibili.

Vi è qualcuno che da anni getta benzina sul fuoco creando allarmismi e inutili paure. Queste persone hanno una responsabilità enorme, loro si che devono avere sulla coscienza queste morti. Questi esseri umani, dopo aver passati di mano in mano di criminali, giungono in Europa (di cui alcuni hanno solo sentito parlare) per essere sbattuti per mesi in un centro di identificazione indegno per qualsiasi paese.

Ma è questa l'Europa per cui i nostri nonni e i nostri padri hanno combattuto? Quell'Europa che è stata culla del sapere, della cultura e dell'arte. Che ha saputo favorire il benessere della sua gente. E' questo il mondo che vogliamo, dove il rispetto per gli altri avviene solo quando vediamo una fila di bare in bell'ordine?

Leggete il reportage di Fabrizio Gatti su questi uomini in fuga

martedì 8 ottobre 2013

Libri: I turbamenti della nazione arcobaleno

I turbamenti della nazione arcobaleno è un libro, scritto da Franco Arato e pubblicato da Il Canneto Editore nel 2013, che si presenta così come sottolineato dal suo sottotitolo: un diario sudafricano. Si tratta però, come lo stesso autore precisa, non di una guida turistica (sebbene l'uso per il turista è ampiamente da consigliare), ma di note, appunti e riflessioni di chi ha vissuto, lavorando come docente Universitario a Johannesburg, nella nazione arcobaleno.
L'autore ci conduce in un interessantissimo viaggio tra le contraddizioni del nuovo Sudafrica, quello emerso dalla lunga e dolorosa storia del regime razziale, e che, nonostante gli sforzi stenta a superare vecchie e radicate abitudini. Quel paese che la scrittrice novantenne, forse la più conosciuta del paese, Nadine Gordimer definisce come un "paese adolescente". Arato ci guida, con uno sguardo attento alle sfumature, attraverso i luoghi simbolo delle tensioni del paese, come le township di Soweto e di Alexandra. 
Lo fa attraverso la ricerca dei particolari e delle sensazioni, sempre ben amalgamate con interessanti e puntuali riferimenti letterari e cinematografici.
Ma, il suo viaggio non si esaurisce nelle città e nei ghetti sudafricani, dove forse più evidenti sono i turbamenti, ma percorre strade curiose, e forse meno conosciute, come quelle dell'arte magica delle sangoma, che resistono con tenacia alla modernità o come quelle del Market Theatre, palcoscenico della musica e del teatro sudafricano e al tempo stesso  luogo di formazione di nuove e interessanti generazioni musicali.
Il libro di Arato si chiude (alla fine anche una ricchissima bibliografia) con i luoghi della natura, spettacolare a questa latitudine, da quelli più propriamente turistici come il Parco Kruger a quelli meno noti ma, piu' "cocciutamente sudafricani" come la regione del Karoo.

Il pregio del lavoro di Arato, acuto e competente osservatore, è quello di scoprire, in un'unico quadro d'insieme, tutti i nervi della complessa situazione sudafricana. Quei turbamenti, quando non vere e proprie tensioni, anche politiche (interessante in quadro del giovane leader Julius Malema) che ancora inquietano, molto, e di contro le enormi potenzialità e la ricchezza di questa nazione, che come sottolineava Nelson Mandela, sta nel suo popolo. 

La sintesi del lavoro di Franco Arato è ben rappresentato da questo passaggio del suo libro: "Certamente è gia' nata una generazione di persone che sono, colour-blind, cieche ai colori, per le quali cioè il colore (della pelle) non esiste più. Ma quella generazione non ha ancora in mano le redini del paese, nè si sa quando mai le avrà".

Ecco, l'imprevedibile futuro del Sudafrica è nella sua gente, in quell'arcobaleno che ancora stenta a splendere come insieme.

Franco Arato, genovese, nato nel 1960, è professore di Letteratura all'Università di Torino e dal 2009 al 2012 ha insegnato all'Università di Wits a Johannesburg.

Ecco il sito della casa editrice Il Canneto Editore, di Genova.

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lunedì 7 ottobre 2013

Grande Hotel di Beira e il suo declino

La storia del Grande Hotel de Beira è senz'altro singolare e forse emblematica di alcune realtà africane. Negli anni '50 il Mozambico era una colonia portoghese e Beira la sua seconda città per grandezza. Importante porto commerciale (ancora oggi serve i paesi limitrofi senza sbocco al mare come il Malawi, lo Zambia e lo Zimbabwe con cui è collegata da una ferrovia e da un oleodotto). La Companhia de Mocambique, guidata da Artur Brandao, concessionaria per conto del Portogallo del territorio, decise di costruire un lussuoso albergo a Beira.

foto dalla rete
Nel 1954 fu inaugurato, proprio sulla costa, il lussuosissimo Hotel (sicuramente il più lussuoso, al tempo, di tutta l'Africa Orientale, in stile art decò). L'albergo aveva 116 camere finemente arredate, una piscina olimpionica e un enorme giardino sul retro. Era costato 3 volte il budget preventivato.

Solo 9 anni dopo, nel 1963, l'albergo chiuse (troppo alti erano i costi di gestione e fino ad allora aveva attratto soprattutto la classe media bianca del vicino Zimbabwe). Restò chiuso, salvo qualche rispolvero alla fine degli anni '60 in occasione della visita del membri del Congresso americano o nel 1971 in occasione del matrimonio della figlia di un Ministro. 
Inoltre restò aperta la piscina, al pubblico e alla squadra olimpica di nuoto del Mozambico, per alcuni anni.

Già alla fine della guerra di liberazione, l'Hotel divenne il quartier generale degli uomini del Frelimo e successivamente, dopo l'indipendenza (1975), mantenne questo ruolo aggiungendo quello di prigione (nei suoi sotterranei) e di campo profughi per uomini e donne in fuga dalla guerra civile. Per poter sopravvivere si iniziarono a vendere mobili, infissi, piastrelle, sanitari. L'albergo fu completamente spogliato, ma la popolazione all'interno cresceva, fino agli attuali 3000 occupanti.

foto dalla rete
Dopo la fine della guerra civile (1992), l'albergo continuò a popolarsi (i militari mantennero il controllo degli "affitti" fino agli anni 2000, quando divenne proprietà del governo). 

Oggi nell'albergo, oramai ridotto ad uno scheletro, vive una comunità di profughi (e ex tali) che ha anche stabilito una sorta di autogoverno, al fine di limitare le violenze e l'anarchia interna. Vi è un consiglio che decide le questioni comuni, vi è una vigilanza volontaria e vi sono delle regole di convivenza. E' stata organizzata una scuola, un laboratorio di sartoria e perfino un cineforum.
Certo stiamo parlando di una comunità di disperati.

la ex-piscina, foto della rete
L'albergo ha attirato recentemente l'attenzione del mondo intero. Per la sua gestione, per l'impatto fotografico che esso ha, per una certa voglia di raccontare le sorti dei poveri del pianeta. Il fotografo spagnolo Hector Mediaville ne ha ricavato stupende immagini e un documentario nel 2012, la regista belga Lotte Stoops nel 2010 ne ha ricavato uno splendido documentario, mentre il giornalista Sebastian Perez ne ha ricavato una puntata del suo programma "L'arte di arrangiarsi".
Nella rete è possibile trovare numerose immagini.

L'albergo è ufficialmente in demolizione, sebbene nessuno ha ancora trovato una soluzione per i suoi occupanti. Le condizioni strutturali sono molto precarie, così come quelle igieniche.

E' una storia altamente simbolica che racchiude le follie del lusso di un'epoca coloniale e la decadenza che essa ha inevitabilmente prodotto, il dramma della guerra e dei profughi, la tristezza della povertà estrema e della precarietà della vita.
Certo anche quella capacità di arrangiarsi, quello spirito di adattamento anche a situazioni difficili, che in Africa è molto comune e che si declina nella straordinaria allegria dei suoi popoli.

Ecco il link su alcune foto del fotografo Hector Mediaville
Ecco il link con il trailer del documentario di Lotte Stoops

giovedì 3 ottobre 2013

Ora basta! La colpa è nostra.

foto dalla rete
L'ennesima strage di disperati. Oggi a Lampedusa, ieri a Scicli e prima ancora nel Canale di Otranto. Disperati, perchè chiamarli immigrati significa dare loro una dignità, che non hanno. La dignità di chi, come fu per noi italiani, pensa di migliorare la propria vita (molti ci riuscirono) lavorando, magari duramente, ove il lavoro non è un miraggio.
Queste persone no. Molte fuggono dalla guerra, dalla miseria, dalla violenza ben sapendo che dove andranno non vi sarà il paradiso, bensì lo sfruttamento, una miseria diversa e spesso anche la morte. Nonostante tutto mettersi nelle mani di banditi, di criminali senza scrupoli spesso protetti, affrontare un viaggio disumano, essere detenuti in quelli che chiamiamo ironicamente "centri di accoglienza" e finire per essere clandestini è ancora meglio che restare.

foto dalla rete
Non vi è giustificazione alcuna per stare a guardare. Quei morti devono urlare, devono destare le coscienze assopite di troppi di noi, distratti dalle beghe giudiziarie di un politico miliardario, dalle liti per accaparrarsi un posto in Parlamento, dall'ultimo infortunio di un calciatore strapagato o dalle bizzarrie di una show-girl capricciosa.

Le responsabilità di questi morti è tutta nostra.

Nostre sono state le politiche coloniali in questi paesi, che li hanno depredati. Nostri sono stati gli appoggi a dittatori e criminali di ogni sorte, che oltre ad arricchire se stessi, hanno sempre fatto i nostri interessi. Nostre sono state le politiche economiche e monetarie che hanno fatto crescere il debito pubblico oltre ogni controllo. Nostre sono le complicità nell'assassinare le poche menti illuminate che potevano cambiare, veramente, le sorti di quei paesi. Nostri sono i capitali delle multinazionali che sfruttano il sottosuolo, le risorse e gli uomini in quei paesi. Nostre sono le armi che che tengono in piedi sanguinosi conflitti. Nostre sono state le politiche delle sviluppo, che hanno prodotto di tutto fuorchè un miglioramento della vita reale della gente. Nostra è quella Comunità Internazionale, incapace di prevenire o gestire le crisi che continuamente si ripetono. Nostri sono i soldi sporchi del sangue di donne, uomini e bambini versato per soddisfare i nostri capricci. Nostri sono gli uomini che comprano minuti di piacere da giovani prostitute sfruttate dal racket della tratta di essere umani. Nostre sono le politiche sull'immigrazione fatte con i piedi e non con la testa.  Nostre sono le responsabilità quando non ci indignamo con forza a fronte di dichiarazioni razziste e xenofobe.

Queste morti, ha ragione Papa Francesco, sono una vergogna. Una vergogna per tutti noi, sono un pugno allo stomaco, sono il frutto della nostra inazione, del nostro torpore.
Abbiamo permesso per troppi anni che le politiche sull'immigrazione fossero centrate solo sul contenimento. Come se fosse possibile fermare l'acqua con un sacchetto di sabbia. Abbiamo ignorato che la Somalia è da 20 anni senza un governo, che in Etiopia ed Eritrea si muore di fame, che nella Repubblica Democratica del Congo vengono stuprate migliaia di donne al giorno, che in Nigeria a causa del "nostro" petrolio abbiamo distrutto un ecosistema unico al mondo, che in Siria prima ancora che per il gas, la gente moriva per una guerra sanguinosa, che in Libia dopo le bombe serviva dell'altro o che il Sahel non ha più acqua.

foto dalla rete
Provate a chiudere gli occhi. Immaginatevi si essere da giorni in un barcone affollato, come quello della foto, dove perfino respirare è difficile. Immaginate di essere quasi a terra e che qualcuno vi spinga in acqua. Voi non sapete nuotare. Eppure vi spingono, perchè la vostra vita valeva qualcosa solo prima del viaggio.
Questo accade, ogni giorno. Questo accadeva agli schiavi secoli fa, durante la tratta, in più vi erano solo le catene.

Ora immaginate che sulla barca vi siano i vostri figli, i vostri mariti, le vostre mogli e che il colore della pelle non sia nera, ma bianca. Cambierebbe qualcosa?

martedì 1 ottobre 2013

Breast ironing: un'inutile e dannosa pratica

L'Africa è il regno indiscusso dei contrasti. Modernità e tradizioni convivono in spazi molto ristretti. Bellezze straordinarie e orrende nefandezze si alternano come in un gioco perverso. Ricchezza e povertà forniscono immagini controverse. Natura incontaminata e baraccopoli, cultura raffinata e inauditi crimini, amore infinito e odio incomprensibile. Tutto questo è Africa.

Una protesta delle bambine, foto dalla rete
In Camerun, ma non solo, si parla da tempo di un'orrenda pratica che è conosciuta come breast ironing (letteralmente, stiratura del seno). Sebbene la pratica abbia origini antiche, è balzata alla cronaca, grazie al lavoro di contrasto delle associazioni di donne del Camerun.
Si tratta del tentativo di bloccare la crescita del seno in età puberale, attraverso l'uso del calore e della pressione. Con legni o pietre molto calde si tenta di "bruciare e comprimere" la ghiandola mammaria al fine di impedirne la crescita. E' una pratica molto dolorosa, pericolosa a causa di complicanze immediate e postume e spesso inutile.

Premettiamo che tale pratica non ha nulla a che fare con la religione o strane credenze ed è quasi completamente slegata dalle condizioni socio-economiche delle interessate. Una pratica diffusa anche in altri luoghi e in altri tempi, attraverso strette e ossessive fasciature.

I motivi che stanno alla base di tale tortura sono quelli, apparentemente nobili, di proteggere le bambine da un precoce sviluppo (la crescita del seno equivale all'essere pronte a praticare sesso) e quindi da matrimoni e gravidanze precoci e da appetiti sessuali (di vario genere e soprattutto dagli stupri) degli uomini. Rimuovendo questo segno di pubertà le mamme (a praticare il breast ironing sono per il 58% le mamme e per il resto ziee, nonne e sorelle) sono convinte di proteggere le figlie.
La precocità dello sviluppo sessuale delle bambine ha fatto anticipare il breast ironing a bambine anche di 9 anni. Una violenza fatta dalle donne sulle donne.

Come in tutte le cose, gli errori legati a pratiche maldestre, finiscono con peggiorare la situazione. L'eccessivo calore oltre ad ustionare la pelle, rischia di creare ascessi e cisti che creano enormi problemi, tra cui l'effetto contrario (lo sviluppo abnorme del seno).

Naturalmente noi tutti gridiamo, a ragione, all'orrore. Dobbiamo però anche avere il coraggio di valutare un fenomeno che è molto più complesso e che investe la società camerunese (e non solo). Nel gesto estremo delle madri vi è il tentativo di proteggere le giovani figlie da violenze ritenute ancora più grandi. Se da un lato è ingiusto che non vi sia una legislatura che condanna la pratica del breast ironing, dall'altra appare ugualmente ingiusto che non vi sia una normativa sull'età del matrimonio ad impedire che bambine di 10 anni siano ritenute sessualmente mature.


Del resto la storia delle violenze sulle donne, fin dai tempi antichi, è infinita e degna della peggior perversione. Dalle cinture di castità medioevali alla riduzione dei piedi o all'allungamento del collo, dalle mutilazioni genitali alla riduzione del seno. Innumerevoli anche le violenze, spesso autoindotte e apparentemente meno innocue (pensate a chili di silicone aggiunti al seno), anche nel nostro mondo. Paure, malvagità, dubbi canoni estetici e credenze religiose: un mix complesso. Non solo in Africa, dove le mutilazioni genitali femminili rappresentano ancora oggi un stupro silenzioso molto diffuso, ma nel mondo intero. Pratiche che spesso non hanno nessun substrato scientifico e divengono solo un'inutile sofferenza per giovani donne.

Come avevamo già scritto parlando delle mutilazioni genitali femminili, l'eradicazione di tale pratiche è affidata alla donne e alle loro associazioni in loco, che vanno sostenute e affiancate nelle loro lotte e nella diffusione del loro messaggio.

Ecco il sito dell'Associazione RENATA (Reseau national des Associations de tantires), maggiormente impegnata sulla sensibilizzazione contro questa pratica e in genere contro la violenza sessuale.

Ecco una completa scheda della GeED