venerdì 29 novembre 2013

The Mission, il teatrino della falsità

Una vignetta di Mauro Biani
Un merito sicuramente il programma The Mission (una sorta di reality show, ambientato nei campi profughi, prodotto dalla RAI in collaborazione con l'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite e l'Organizzazione Non Governativa italiana Intersos) lo ha, ancora prima di andare in onda (è previsto il 4 e il 12 dicembre): far riflettere tutti, in modo critico, sul mondo della cooperazione internazionale.
Una riflessione amara (Sancara aveva già affrontato questo tema in agosto quando le polemiche cominciarono), perchè pone seriamente l'interrogativo sullo stesso senso dell'operato umanitario e del ruolo dell'informazione.
Stupisce che la massima agenzia internazionale che si occupano di rifugiati e , ancor più, una grande Organizzazione Non Governativa italiana difendano, a volte anche oltre il difendibile, un'operazione che è osteggiata, criticata e mal vista dalla quasi totalità del mondo del volontariato umanitario, dalle associazioni, dai media che si occupano di Africa,  e non solo, e da molti comuni mortali. 

Non si tratta, come qualcuno vuol far passare di una "censura preventiva" (sebbene, a seguito delle critiche la prima puntata non è mai andata in onda ed il palinsesto della trasmissione è stato molto cambiato - oggi guai a chiamarlo reality), bensì di una critica culturale, relativa ad un prodotto che sfrutta la sofferenza altrui, valorizza il ruolo di "cosiddetti VIP", spettacolarizza condizioni di vita estrema, rende i veri protagonisti delle semplici comparse, al solo fine di raccogliere fondi (per carità, necessari) da privati cittadini che in questo modo tombano, in modo definitivo, la loro coscienza.

Così come non ci si venga a dire che un programma come questo serve "a far conoscere la situazione (quando non la semplice esistenza) dei campi profughi". Temi che sono stati sempre taciuti dall'informazione nella più completa assenza d'intervento da parte delle grandi, e potenti, organizzazioni internazionali. Chi dovrebbe rendere edotti i telespettatori sulla situazione: l'attricetta di turno, un cantante di altri tempio o il figlio di una casa reale che non esiste più? La RAI da un lato produce questo "teatrino della falsità" e dall'altra taglia, uno dei pochi canali di informazione (in onda sempre in orari da sonnambuli), serio e reale, come la trasmissione "C'era una volta", del giornalista Silvestro Montanaro (nel più assoluto silenzio da parte di chi dice , oggi, che lo scopo del reality è informare).

La sensazione che molti hanno è che The Mission sia funzionale all'industria umanitaria. Un colossale business mondiale, che dati alla mano, non solo ha fallito nella maggioranza dei programmi di sviluppo, ma è stato assolutamente incapace (quando non dannoso) nei tentativi di redimere le cause che hanno portato (è continuano a portare) alla nascita delle crisi umanitarie.
La comunità internazionale (gli Stati, i governi, noi in definitiva) investono miliardi in quello che qualcuno da tempo definisce la "carità che uccide", mentre i funzionari delle agenzie umanitarie guadagnano (alcune agenzie spendono in "amministrazione" il 70% del loro budget) cifre da capogiro che in un solo giorno coprono il fabbisogno di un profugo per un anno intero e forse più. 

No, mi dispiace, non ci convincete.

Non ci sembra questa la strada. Questa operazione odora di vecchio, di stantio. Del vecchio modo caritatevole di vedere la realtà, di pensare a noi come esseri superiori capaci di portare pace e benessere pressochè ovunque. Odora di quel modo che da decenni non si interessa del perchè delle cose, ma che attorno ai problemi costruisce le necessità. Necessità che tengono in piedi un sistema che, paradossalmente, ha bisogno che nulla cambi.
Puzza anche della sconfitta dell'informazione. 

Per approfondire African Voices (il portale di informazione guidato da Marco Pugliese)
La pagina facebook di Africa Report, curata dal giornalista Fulvio Beltrami
Gli interventi di Silvestro Montanaro sul sito C'era una volta non deve morire
Il blog Buongiorno Africa di Raffaele Mastro




mercoledì 27 novembre 2013

Hosho, il sonaglio degli Shona

L'Hosho è un particolare tipo di strumento a percussione originario della comunità degli Shona in Zimbabwe. Si tratta di una piccola zucca con all'interno semi di hota (Canna indica). La zucca viene bollita in acqua e sale, svuotata e lasciata asciugare al sole.
E' un tipico strumento (in genere si una a coppie) di accompagnamento, che nella cultura Shona equivale ad armonizzarsi con la M'bira, il "pianoforte a pollice" costituendo quasi un unicum strumentale. Il suono dell'hosho determina il ritmo sia per la mbira che per i danzatori, divenendo quindi essenziale in tutte le cerimonie rituali e più in generale nella musica. 





La costruzione dello strumento inizia con la semina della zucca (i cui semi sono stati selezionati), la sua cura (spesso l'impollinazione avviene in modo manuale), la raccolta nel momento giusto (la zucca è verde, poi seccandosi diventa gialla-marrone) e infine la ricerca della sonorità giusta.

Vai alla pagina di Sancara sugli Strumenti musicali africani

martedì 26 novembre 2013

Cinema: Echi da un regno oscuro

Un grande maestro del cinema tedesco, Werner Herzog, ha firmato un film-documentario su Jean Bedel Bokassa, dittatore e anima nera della Repubblica Centrafricana (governò con il pugno di ferro dal 1966 al 1979), uscito nel 1990 e intitolato Echi da un regno oscuro. l film si basa sul lavoro del giornalista inglese Michael Goldsmith (una serie di interviste a personaggi legati alla figura di Bokassa) e da una serie di immagini di repertorio. Il film fu montato quando Bokassa era agli arresti a Bangui, dopo aver tentato nel 1986 di riprendete il potere. Herzog aveva anche previsto un'intervista a Bokassa, ma la troupe fu bloccata a Bangui. Lo stesso Goldsmith era stato arrestato e torturato nelle carceri del Centrafrica perchè accusato di spionaggio. Il film non è mai uscito in Italia, fino al 2010 quando fu rilasciata una versione in DVD con sottotitoli in italiano.
Il film è da una parte una delle rare e dettagliate ricostruzioni storiche sulla dittatura di Bokassa, accusato di cannibalismo e che nel 1977 si fece incoronare Imperatore in una sfarzosa cerimonia costata metà del bilancio statale della nazione, dall'altra è una riflessione sul potere e sulle aberrazioni che esso produce. 
E' sicuramente un capolavoro del genere storico-documentaristico, capace di indignare, di far riflettere, di destare sentimenti forti e contrastanti e perfino di far sorridere. 
Una ricerca di narrare le vicende, con lo spirito di chi cerca la verità e la insegue in tutte le sue angolazioni, cosciente di creare imbarazzo nel pubblico.



La metafora nella scena finale, dello scimpanzè che fuma dietro le sbarre dello zoo decadente, racchiude la l'essenza di questo film e con essa una tristezza che ci accompagnerà a lungo.

Werner Herzog, regista, scrittore, sceneggiatore e attore tedesco, nato a Monaco nel 1942 è autore di una lunga serie di film e documentari, ispirati a temi e soggetti spesso controversi. Storico è stato il suo legame con l'amico Klaus Kinski, con cui, ad un certo punto, ha rotto in maniera definitiva. Tra i suoi film Aguirre, furore di Dio (1971), L'enigma di Kasper Hauser (1974), Cuore di vetro (1976), Nosferatu, il principe della notte (1978), Fitzcarraldo (1982) e L'alba della libertà (2006).
Alla fine degli anni '60 Herzog compie un viaggio, di alcuni anni, in Africa, dalla quale esperienza ricava tre film, tra cui Fata Morgana (1970), un film di "fantascienza" originariamente sulle società in via di estinzione. 

Vai alla pagina di Sancara sui Film sull'Africa

mercoledì 20 novembre 2013

Grande Zimbabwe, la Stonehenge africana

Grande Zimbabwe è il nome attribuito alle rovine di una antica città, nello odierno Zimbabwe
Nel 1986 questo straordinario monumento nazionale dello Zimbabwe è stato inserito tra i Patrimoni dell'Umanità dall'UNESCO.
Controverse sono le origini e ancor più i motivi dell'abbandono di tale città. Gli esploratori portoghesi, già nel 1531, la descrissero come una città in rovina e azzardarono l'ipotesi che si trattasse del leggendario regno della Regina di Saba. Per secoli però le rovine furono dimenticate. Solo nel 1867, durante una battuta di caccia, la città fu "ritrovata". Fu poi il geografo tedesco Karl Mauch ad avvalorare la tesi della città della regina di Saba. Infine, fu Cecil Rhodes (tra coloro che maggiormente sfruttarono le risorse africane a proprio vantaggio e a cui in suo "onore" il paese fu denominato Rhodesia) ad effettuare gli scavi e a continuare ad avvallare la tesi del Regno della Regina di Saba. Il principio da cui partiva Rhodes era semplice e in linea con il pensiero dominante dell'epoca: "gli africani non potevano aver costruito una tale civiltà".
La datazione storica delle rovine, dei manufatti e degli oggetti inizia dal VII secolo, sebbene si ritiene che gran parte degli edifici siano stati costruiti tra l'XI e il XV secolo.
Oggi le rovine occupano una superficie complessiva di 7 chilometri quadrati e si trovano su di un altopiano, tra i fiumi Zambesi e Limpopo, ad un'altitudine di oltre 1000 metri. Sono costituite da bastioni, una torre conica ben conservata, alcuni templi e costruzioni minori in pietra a secco. In particolare ottimamente conservato è una cinta muraria (imba huru), alta 10 metri e lunga 250 metri, che si ritiene proteggesse la residenza reale.
Tra gli scavi furono trovate ceramiche cinesi e persiane, monete arabe e altri oggetti che descrivevano la ricchezza della città (alcune stime dicono che poteva ospitare 20 mila persone) e della sua potenza (il commercio con la costa era di oro e ferro, di cui l'area è ricca). Tra gli oggetti ritrovati vi erano 8 statue, in steatite, raffiguranti un rapace (oggi conosciuto come l'ucccello dello Zimbabwe, presente anche nella bandiera del paese). Le statue, portate da Rhodes in Sudafrica, furono per metà restituite nel 1981 (altre 4 sono ancora nella casa-museo di Rhodes a Città del Capo).


L'alone di mistero generato attorno alla tesi del Regno di Saba (la ricchissima regina biblica che visita re Salomone), grazie anche alle ricchezze minerarie del paese (nella Bibbia la regina regalava oro) assieme alla supposta "incapacità" degli africani di costruire una civiltà "complessa", generarono un forte dibattito, culturale e razziale, attorno alla città e all'Africa pre-coloniale.

Studi archeologici successivi dimostrarono che ha costruire la città furono popoli di origine africana (bantu), quasi sicuramente Shona, che costruirono un regno che a partire dal VII secolo e fino al 1500 (nel suo apogeo fu denominato Impero di Monomotapa), fu una vera e propria potenza economica del sud dell'Africa.
Rimangono molti punti oscuri sull'abbandono della città, che avvenne secondo recenti studi per carestia e forse per una grave epidemia.

Vai alla pagina di Sancara sui Patrimoni dell'Umanità in Africa

lunedì 18 novembre 2013

Popoli d'Africa: Fang

I Fang (o Fan) sono un gruppo etnico che vive in Camerun, Gabon (dove costituiscono la prima etnia) e Guinea Equatoriale. Secondo gli etnografi appartengono ad un più vasto gruppo, composto da una ventina di etnie, denominato Beti-Pahuin. Giunsero nell'attuale area geografica intorno al XVIII secolo, provenienti dal Nord-Est (dall'attuale Nigeria), e qui si "mescolarono" (anche con altre migrazioni) alle popolazioni locali. Abili cacciatori e soprattutto guerrieri, erano temuti per la loro aggressività e sospettati di praticare (almeno fino al XVII secolo) l'antropofagia. Parlano la lingua Fang e secondo alcuni studi sono un numero vicino ad 1 milione e 100 mila. Hanno una società priva di capi (nella lingua non esiste nemmeno una parola adatta a definire tale funzione) e la gestione delle funzioni di leader è affidata al più capace (e quindi più influente) discendente della famiglia che ha fondato il villaggio. Vivono in piccoli villaggi, ai margini della foresta, distanti l'uno dall'altro. Sono poligamici.


Coltivano principalmente manioca, mais, banane e palme, sebbene oggi molti sono coinvolti nelle piantagioni di cacao e caffè introdotte dai coloni.
Tra gli animali cacciati ai fini alimentari dai Fang vi è anche un tipo di rana (la rana golia, Conraua Goliah), che può giungere ai tre chili, oggi a rischio estinzione.

La loro religione, il sincretismo Bwitri, incentrato sulla figura di una divinità chiamata Mebe'e (è un monoteismo, con una forte presenza di riti legati agli spiriti degli antenati) culto comune in molte altre etnie dell'Africa Occidentale, fu intaccato dall'impatto con i coloni (tedeschi e spagnoli prima e poi francesi), che spinsero il gruppo verso il cristianesimo a partire dalla metà del 1900.
Tra le loro tradizioni e riti vi è quello di conservare cranio e ossa dei defunti (cosa che ha generato il sospetto di cannibalismo) poichè ritengono che nello scheletro si conservano le forze e le energie del morto.

Sono abili artigiani, le loro sculture di legno (maschere e figure antropomorfiche) sono origini e uniche per la perfezione dell'intaglio e la ricchezza della lavorazione.

Per chi vuole approfondire ecco uno studio dell'Università di Lione sulla lingua e la cultura Fang

Ecco alcune opere in legno degli artisti Fang

Vai alla pagina di Sancara sui Popoli d'Africa

mercoledì 13 novembre 2013

Armi per tutti

Qualche giorno fa, Papa Francesco chiedeva ai fedeli, e al mondo, "tante guerre sono fatte per risolvere problemi o per vendere armi?". 


foto dalla rete
Una domanda che trova una facile risposta guardando i dati del commercio internazionale di armi: nel 2011 il fatturato complessivo è stato di 411,1 miliardi di dollari (non sono contabilizzati i dati della Cina). L'incremento è solo del 1% rispetto dal 2010, ma ben del 60% rispetto al 2002! Avete capito bene, dal 2002 al 2011, anni in cui tutti i commerci hanno subito gli effetti della crisi del 2008, il fatturato del commercio di armi è aumentato del 60%.

Parliamo di commerci legali (il traffico d'armi, ovvero quello illegale, pur non avendo una contabilità ufficiale, ammonta a diversi miliardi di dollari ma segue strade parallele), quelli che lo Stockholm International Peace Intituite da anni monitorizza con molta cura.

A detenere il controllo delle vendita di armi sono gli Stati Uniti (30% del mercato), seguiti da Russia (26%), Germania, Francia, Cina, Regno Unito, Spagna, Italia, Ucraina e Israele.
Di contro ad acquistare armi sono nell'ordine India, Cina, Pakistan, Corea del Sud, Algeria, Australia, Stati Uniti, Uzbekistan e Arabia Saudita.

Vi è da segnalare, per quanto riguarda il continente africano, che il mercato legale è passato dal 4% di quello totale mondiale nel periodo 2003-2007 al 9% nel periodo 2008-2012. Ma, i dati non devono ingannare, perchè molti sono i paesi africani sotto embargo d'armi e tutti i conflitti non sono tra stati, ma tra gruppi (movimenti, guerriglie, estremismi) che attingono esclusivamente dal mercato illegale.
Vi è anche una forte produzione interna di armi, capeggiata dal Sudafrica che ospita ben 700 aziende produttrici di giocattoli di morte.

Questi almeno sono i flussi ufficiali del mercato delle armi. Il confine tra l'area legale e quella illegale è spesso flebile. Armi acquistate (o prodotte) legalmente possono, all'occorrenza, diventare clandestine e rifornire paesi sotto embargo (erano una ventina lo scorso anno), guerriglie, gruppi terroristici e estremistici. Il business è colossale.

Le maggiori aziende mondiali nella vendita di armi sono nell'ordine la Loockeed Martin (USA), la Boeing (USA), la BAE Systems (UK), la General Dynamics (USA), la Raytheon (USA), la Northron Grumman (USA), il consorzio europeo EADS, la Finmeccanica (Italia), la BEA Systems USA e la United Technologic (USA). 

Il mercato italiano è saldamente (almeno per i grandi livelli) nelle mani della Finmeccanica (la difesa era il 58% del suo fatturato), che è per il 30% statale, anche attraverso le sue "controllate" come la Agusta Westland, la Alenia, Oto Melara e la Selex Galileo. Altri produttori d'armi sono la Fincantieri e la Avio, oltre ai "famosi" produttori di armi leggere (come Beretta).

Domani partirà per una missione di presentazione delle "eccellenze italiane" la portaerei Cavour (accompagnata dal lanciamissili Bergamini e dalla nave logistica Etna), che in 5 mesi di viaggio, toccherà 13 porti africani (Algeri, Casablanca, Dakar, Tema, Lagos, Pointe-Noire, Luanda, Cape Town, Durban, Maputo, Antseranana, Mombasa e Gibuti) e 7 del golfo-persico.
foto dalla rete
Tra queste eccellenze spiccano le armi pesanti del gruppo Finmeccanica, quelle leggere di Beretta assieme ai dolci della Ferrero, ai motoscafi del Gruppo Ferretti e ai pneumatici della Pirelli. Insomma un viaggio del "made in Italy", una fiera itinerante finanziata in parte dallo Stato Italiano e che toccherà i paesi più sensibili al tema delle armi: quelli in guerra o finanziatori occulti dei conflitti nel mondo.



La polemica, comprensibilmente, si è subito innescata

Allora, Santo Padre, con tutto il rispetto: Le sembra una domanda da fare? Un uomo grande e potente come lei, ancora si chiede se sia l'enorme fatturato delle armi a tenere in piedi i conflitti nel mondo?

per approfondire:
il sito  dell'OPAL (Ossevatorio Permannte sulle Armi leggere) di Brescia
il sito della rete Disarmo (www.disarmo.org)

martedì 12 novembre 2013

Kabwe, la collina dei metalli

foto dalla rete
Dopo aver parlato del petrolio che ha devastato il Delta del Niger in Nigeria e della discarica e-waste di Agbogbloshie in Ghana, Sancara affronta il tema della terza area inquinata in Africa, inserita nella liste delle dieci località più inquinate del nostro pianeta (vedi il sito del Blacksmith Institute). Si tratta della collina di  Kabwe-ka Mukuba nello Zambia.
Un tempo chiamata Broken Hill, Kabwe è nota fin dal 1902 quando furono trovati i primi giacimenti di piombo e zinco. La miniera, che occupa una superficie di circa 2,5 chilometri quadrati, si trova a circa un chilometro dalla città omonima di Kabwe, che oggi conta 300 mila abitanti.
Per oltre 90 anni, dal 1902 al 1994, quando è stata ufficialmente dismessa (perchè considerata anti-economica), la collina di Kabwe ha fornito grandi quantità (si contano quasi 3 milioni di tonnelate di materiale) di piombo e zinco, oltre che di cadmio, manganese, argento e titanio. Inutile dire che nessuno si è mai posto il problema dell'inquinamento che questa estrazione comportava. Le piogge trscinavano i resti degli scavi e della lavorazione grezza direttamente nelle falde idriche e nei fiumi.
Dal 1906 fu fatta arrivare anche la ferrovia (se desiderate, vi segnalo questo post di Sancara sui treni in Africa) per favorire il trasporto dei minerali verso la città mineraria di Ndola. Nel 1921, durante l'estrazione, furono anche rinvenuti (un cranio fu trovato da un minatore svizzero) dei resti di ominidi che oggi sono conosciuti come Homo rhodesiensis (allora lo Zambia si chiamava Rhodesia), datati tra i 150 e i 300 mila anni fa. Le miniere furono nazionalizzate nel 1970 e affidate alla compagnia mineraria dello Zambia (chiamata Zambia Consolidated Copper Mines, ZCCM).

foto dalla rete
Dopo la chiusura della miniera (3 giugno 1994), uomini, donne e bambini hanno continuato a scavare, a mani nude e senza alcuna protezioni, a vendere a prezzi ridicoli, i minerali e i metalli (un quarto di dollaro per 25 chili di zinco erano i prezzi pagati non molti anni fa) e a morire.
Naturalmente le miniere, che sono tutt'altro che esaurite e sono oggetto di grandi attenzioni. Il gruppo minerario Berkeley Mineral Resources (che attraverso la controllata Enviro, le ha comprate nel 2008) ha annunciato l'intenzione di riaprirle entro fine anno.

L'area è fortemente inquinata. A oltre 20 chilometri di distanza l'acqua è ancora piena di metalli. I bambini di Kabwe hanno dei livelli di piombo nel sangue 10-20 volte superiori a quelli massimi consentiti negli Stati Uniti. I casi di intossicazione da piombo (saturnismo) sebbene molto frequenti (causano grave anemia, vomito, insufficienza renale e edema cerebrale) non vengono diagnosticati perchè gli ospedali, della zona, nonostante l'evidenza non dispongono nemmeno dei kit diagnostici.
Sono stati avviati molti progetti per il recupero ambientale e per la salvaguardia della salute degli abitanti, ma i risultati sono irrisori

lunedì 11 novembre 2013

Riserva della Biosfera Lufira

La riserva della biosfera di Lufira (o Vallèe de la Lufira) si trova nel sud-est, nella provincia mineraria del Katanga, della Repubblica Democratica del Congo. Il centro abitato più vicino è la città di Likasi. Si tratta si una foresta tropicale di circa 15 mila ettari lungo il fiume omonimo (tributario del Lualaba che è, a sua volta, uno dei rami sorgivi del fiume Congo). Si tratta della prima foresta di Brachystegia (genere di piante che comprende oltre 8000 specie), più nota con il termine swahili miombo, ad essere designata Riserva della Biosfera nel 1982
foto dalla rete
La riserva comprende molte altre specie vegetali ed è un grande esempio di biodiversità. La riserva si sviluppa tra i 700 e i 1100 metri di altitudine. Nel 1926 sul fiume Lufira fu costruita una diga che determinò la nascita di un bacino artificiale (oggi Lago di Lufira o Tshangalele) che diventato una importante zona di protezione degli uccelli.
Secondo le classificazioni del programma Man and Biosphere Programme voluto dall'UNESCO, la riserva comprende un'area centrale (core) di 2800 ettari, considerata riserva integrale, un'area mediana (buffer), di 5100 ettari, dove sono previsti insediamenti umani e protettivi compatibili con il sistema ambiantale e infine un'area marginale (transizione), di 6800 ettari, dove sono contemplate attività economiche più intense.
Nella riserva di Lufira vivono  circa 15 mila persone che praticano essenzialmente agricoltura, caccia e pesca. Negli ultimi anni l'ambiente è fortemente a rischio a causa del taglio indiscriminato di legna da ardere purtroppo anche nella zona di riserva integrale (core) oltre che per gli incendi finalizzati alla creazione di aree di pascolo.

Vai alla pagina di Sancara sulle Riserve della Biosfera in Africa

giovedì 7 novembre 2013

Agbogbloshie, la discarica e-waste dell'orrore

Periodicamente vengono stilate da varie organizzazioni le liste sui luoghi più inquinati del pianeta Terra. Aree ove, grazie all'intervento scellerato dell'uomo, si sono create situazioni tali che rendono la vita difficile, pericolosa e rischiosa. Sono, allo stesso tempo, aree densamente popolate dagli uomini. Un paradosso.
Tra queste aree marcescenti del pianeta, "spiccano" anche tre siti africani.
Il Delta del Niger, in Nigeria, immerso nel petrolio estratto dalle multinazionali, su cui Sancara aveva dedicato il post La devastazione del Delta del Niger
Il secondo sito è la "discarica dell'hi-tech" di Agbogbloshie in Ghana, il terzo sono le miniere di piombo di Kabwe in Zambia.

foto di Michael Ciaglo
La storia di Agbogbloshie, area sub-urbana di Accra, dove vivono oltre 40.000 persone, riguarda tutti noi. Infatti in quel luogo giungono gli scarti tecnologici del nostro mondo. Computer, monitor, televisori, telefoni, play-station e qualsiasi altro materiale elettronico uscito dalle nostre case, spesso semplicemente perchè "superato". Si stima che solo il 20-25% delle vecchie apparecchiature elettroniche vengono smaltite legalmente (ricordiamoci che lo smaltimento si paga nell'atto di acquisto), il resto giunge clandestinamente in Ghana, in Nigeria, in India e in Cina, tanto per citare i luoghi di maggior interesse per questi prodotti.

Accatastati questi prodotti vengono disassemblati e ogni cosa funzionante viene recuperata (hard disk, memorie e altro), mentre il resto viene bruciato per eliminare la plastica e ricavarne materie prime (soprattutto rame. alluminio, mercurio e ferro).
foto dalla rete
E' ovvio che non parliamo di un'asettica discarica, con attrezzature tecnologiche all'avanguardia e sistemi di filtraggio dell'aria. No, è una discarica a cielo aperto, dove uomini schiavi (molti sono bambini) rovistano, mani nude, tra cumuli di ferraglia, dove gli incendi della plastica sprigionano liberamente nell'aria gas di ogni tipo e dove l'ammasso informe del "resto" (nulla è biodegradabile) finisce direttamente nell'acqua della laguna di Korle (la stessa usata per gli usi domestici).
Già da tempo, per l'alto tasso di criminalità e per le condizioni di vita estrema la discarica è chiamata Sodoma e Gomorra. Già nel 2000 Greenpeace aveva denunciato questo orrore, senza grandi risposte.

foto dalla rete
E' una storia triste che inizia negli anni '80, quando alla periferia di Accra vengono alloggiati i profughi che scappano dalla guerra o dalla miseria. Ben presto l'area si trasforma in una delle tante bidonville che attanagliano le metropoli di mezzo mondo. Alla fine degli anni '90 giungono in Ghana computer dismessi dagli Stati Uniti e dall'Europa. Vengono "donati" con molta enfasi per favorire lo sviluppo africano (ancora oggi questa truffaldina scusa è usata). Gli africani li accolgono con entusiasmo (costano molto meno, anche dieci volte, meno). Da lì il passo è breve. Criminalità (nostra e loro), corruzione politica (nostra e loro) e la presenza di "carne da macello" (solo loro) fanno diventare Agbogbloshie il "paradiso" dell'e-waste. 

E' inutile aggiungere che le materie prime, pagate meno che zero, ritornano quasi per magia, e completamente "pulite", nelle stesse industrie che producono le attrezzature elettroniche. Il costo ambientale e umano è un semplice effetto collaterale della nostra voracità di tecnologia.

Immagini di questo luogo della miseria possono essere viste dal sito di Michael Ciaglo, oppure da quello del fotografo sudafricano Pieter Hugo, che ha curato anche una mostra intitolata Permanent Error. Altre sono disponibili nella rete.

Ecco anche un blog con materiali video su Agbogbloshie

Potete approfondire il tema anche dal sito-progetto I-garbage

mercoledì 6 novembre 2013

I coccodrilli africani

Il coccodrillo (Crocodilia), inteso come ordine di rettili, è un animale presente in tutti i continenti del pianeta, ad eccezione dell'Europa. Tre sono le grandi famiglie di coccodrilli: Crocodilidi  (Coccodrillo e Osteolaemo), Alligatoridi (Alligatore e Caimano) e Gavialidi (Gaviale). 
Indipendentemente dalla grandezza (che varia dal metro ai sette metri) e dal peso (dai 20 ai 1000 chilogrammi), i coccodrilli vengono unanimamente definiti dei "fossili viventi" poichè le loro caratteristiche sono rimaste inalterate fin dal Cretaceo superiore (circa 90 milioni di anni fa) quando comparvero sulla Terra.
Appare evidente la sua antica struttura e incontrarlo, non solo nel suo ambiente preferito (l'acqua), ma anche sulla terra (è velocissimo), non è mai un piacevole avvenimento. E' ritenuto l'animale più pericoloso per l'uomo in Africa.

foto dalla rete
In Africa oggi vivono quattro specie di coccodrilli. Il più diffuso e conosciuto  è il Coccodrillo del Nilo (Crocodylus niloticus), una specie che può raggiungere i 6 metri e pesare oltre 1200 chilogrammi. Il suo areale copre quasi l'intera Africa con l'eccezione del Sahara. Oggi è ritenuto dall'IUCN (l'Ente mondiale di conservazione animale) a basso rischio estinzione (fino al 1990 era ritenuta una specie vulnerabile). Questa trasformazione è dovuta in gran parte alle leggi che proibiscono il commercio di pelli e alla nascita di allevamenti di coccodrilli (per la pelle e per la carne) che hanno allentato la pressione sulla popolazione libera.

areale del Coccodrillo del Nilo (wikipedia)
La seconda specie è il "piccolo" Osteolemo o Coccodrillo Nano Africano (Osteolaemus tetraspis). Chiamato così (nano)) perchè non supera i 2 metri. Vive solo nell'Africa Centro-Occidentale. E' una specie ritenuta vulnerabile dell'IUCN.

Le ultime due specie di coccodrilli africani sono molto meno conosciute, Il primo è il Coccodrillo Catafratto o a muso stretto (Crocodylus cataphractus), che abita la zona più tropicale dell'areale del Coccodrillo del Nilo. Esso è ancora poco studiato al punto tale che l'IUCN non ne classifica ancora il suo grado di conservazione. L'impressione degli studiosi è che la popolazione sia in diminuzione costante.
Il Coccodrillo del deserto (Crocodylus suchus), che per alcuni è una sottospecie del Coccodrillo del Nilo (è molto simile ad esso), vive, oramai in pochi esemplari, nelle zone d'acqua desertiche. Non è inserito nella lista dell'IUCN.

foto dalla rete
Il coccodrillo, capace di rimanere immobile al sole o in attesa della sua preda, in grado di rimanere immerso anche un'ora in acqua, apparentemente dai movimenti lenti e appesantiti, è al contrario velocissimo e di una rapidità straordinaria. La sua forza è proprio la sorpresa e la rapidità d'azione. Una volta afferrata la preda (un coccodrillo mangia senza problemi una zebra adulta) questa non ha scampo. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare di un predatore feroce, la femmina ha una cura affettuosa nei confronti dei piccoli (il coccodrillo da adulto può raggiungere anche 4000 volta le dimensioni alla nascita) che protegge nei primi quattro mesi di vita.

Sui coccodrilli ho uno stupendo ricordo: gli occhi, di decine di essi, illuminati dalla luna nel parco di Niokolo Koba. Un'immagine straordinaria, intensa e sinistra, sembravano tante piccole torce, immobili, disposte con geometrica ricerca. Una foto mia scattata, ma incise, per sempre nei ricordi. Un'immagine che solo molti anni dopo ho rivisto, su di reportage di National Geographic. 

Ecco la scheda della lista rossa dell'IUCN del Coccodrillo del Nilo e le immagini da Arkive
Ecco la scheda della lista rossa dell'IUCN dell'Osteolemo e le immagini di Arkive
Ecco la scheda (incompleta) della lusta rossa dell'IUCN del Coccodrillo Catafratto e le immagini di Arkive

Vai alla pagina di Sancara sugli Animali d'Africa

lunedì 4 novembre 2013

Morire per informare

La storia del giornalismo è intrisa di fatti luttuosi. Molte donne e uomini hanno sacrificato la propria vita, a volte consapevoli del pericolo che correvano, altre volte ignari di andare incontro alla morte. A volte perché scrivevano cose che non era bene sapere, altre volte perché il solo essere in alcuni luoghi non era ben visto infine, qualche volta, per una semplice fatalità. 

Lo scorso anno Sancara aveva pubblicato questo post (Quando informare è pericoloso), in cui faceva il punto della strage - perchè di questo si tratta - di giornalisti nel mondo ed in Africa in particolare.
Lo scorso anno furono complessivamente 132 i giornalisti uccisi nel mondo. Quest'anno si è già a 91, di cui 18 in Africa.

L'ultimo episodio è di due giorni fa, quando la giornalista francese Ghislaine Dupont e il cameramen francese Claude Verlon, di Radio France International, sono stati freddati vicino Kidal nel nord-est del Mali.
Una vicenda che a noi italiani ha fatto subito tornare in mente la triste vicenda del 20 marzo 1994 quando in Somalia furono uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Ghislaine e Claude stavano facendo, da mesi, un reportage in Mali per seguire la situazione nella regione dell'Azawad (che da decenni reclama l'indipendenza), a seguito delle elezioni di questa estate, vinte dall'ex Primo Ministro Boubacar Keita. Avevano da poco finito un'intervista a Ambe'ry Ag Rissa, un tuareg a capo del Movimento di Liberazione dell'Azaward, quando sono stati rapiti e, fatto molto insolito, immediatamente giustiziati.

La situazione del Mali è complessa (vedi questo post), dal golpe del 22 marzo 2012, il paese è in preda ad un "caos guidato". Le elezioni di luglio-agosto scorsi, organizzate secondo molti in modo frettoloso, avevano lo scopo di tranquillizzare i finanziatori internazionali (liberando così centinai di milioni di dollari di aiuti umanitari bloccati a seguito della guerra civile). Nel nord si sono inizialmente lasciati isolati i movimenti separatisti spingendoli nella mani dei movimenti islamisti radicali, salvo poi riconquistare il terreno con l'aiuto del contingente francese. Dal gennaio del 2013 infatti la Francia ha lanciato, nella quasi totale indifferenza, l'operazione Serval, inviando una massiccia forza aerea (e non solo) sul campo. Il risultato è stato che da un lato si sono garantite le elezioni e dall'altro si è ristretta la zona del conflitto al solo nord. Gli interessi in gioco sono però altri e gli impegni non sempre vengono rispettati.

L'anomalia di questo sequestro lampo (così raccontano le testimonianze) è proprio nella sua rapida risoluzione con l'omicidio (in genere i sequestri degli "occidentali" sono legati a richieste di riscatto e si risolvono con trattative sotterranee e spesso non mai rese pubbliche). Gli analisti sposano due ipotesi: una cambio radicale di strategia dei gruppi armati (?) o di promesse non mantenute dai francesi a seguito dei sequestri precedenti.

Quel che è certo è che Ghislaine e Claude hanno perso la vita fecendo il loro lavoro, tentando di far passare quel poco (molto poco) di informazioni che giungono da quei luoghi dimenticati.