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domenica 19 aprile 2015

Non chiudete Dadaab

Per molti il nome Dadaab evoca solo qualcosa di vagamente lontano, perfino esotico. Per altri Dadaab è un luogo di lavoro o di intervento e per altri ancora, molti, è solo un luogo di speranza.
Dadaab è il più grande campo profughi esistente al mondo. Oggi ospita un numero di rifugiati vicino ai 600 mila (sebbene quelli registrati sono poco più che 350 mila). Nato nel 1991 a seguito dello scoppio della guerra civile in Somalia (si trova a circa 100 chilometri dal confine somalo) era originariamente destinato ad accogliere a 90 mila profughi. In realtà si tratta di tre distinti campi (Ifo, Dagahaley e Hagadera), poi diventati cinque, che crescendo sono oramai un'unica grande città di rifugiati.
L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), che da allora e assieme prima all'ONG americana  CARE e oggi a quella tedesca GTZ, gestisce il campo lancia l'appello contro la chiusura dell'enorme campo. Assieme a loro una serie di altre agenzie e organizzazioni che forniscono assistenza al campo su elementi specifici: sanità, istruzione e logistica.

Dabaad si trova infatti nel distretto di Garissa, dove recentemente (2 aprile) è avvenuta la strage all'Università omonima. Il governo del Kenya, forse per ragioni più populiste che altro (solo nel 2013 il governo aveva firmato un accordo sui campi), ha chiesto all'UNHCR di chiudere il campo entro tre mesi, trasferendo tutti i profughi in Somalia.

Inutile dire che in Somalia, da dove vengono tutti i profughi (i primi dei quali arrivati nel 1991) la situazione è tutt'altro che pacifica. L'Alto Commissariato sostiene, a ragione, che non vi sono le condizioni minime di sicurezze per il rimpatrio dei rifugiati e per gli operatori umanitari.

Il campo di Dadaab ospita oramai - secondo le stime degli operatori - quasi 10 mila persone di terza generazione, ovvero figli nati nel campo da genitori che a loro volta erano nati nel campo.
Il campo è a una fragile città - in zona semi-arida - completamente assistita. In esso sono emerse tutte le contraddizioni possibili di una convivenza forzata e al tempo stesso si sono attivate una serie di virtuose iniziative che vanno dalla presenza di 19 scuole (ancora insufficienti), alla pratica dello sport, alle arti e perfino alla pubblicazione di un notiziario.

Dal sito Dadaab Stories possibile conoscere ogni cosa del campo con una ricca galleria fotografica, dati, iniziative e documentari. Insomma, prima di giudicare e di decidere la vostra posizione, dedicate qualche minuto a conoscere questo campo (uno dei tanti che accolgono gli oltre 40 milioni di rifugiati nel mondo). 

Vivere nei campi non è mai una scelta. Stiamo parlando di persone che in poche ore hanno abbandonato la loro casa, le loro cose, i loro affetti e spesso tutto quello che in una vita avevano messo insieme, per non morire e per sempre. Molti di loro, se anche dovessero tornare indietro, non troveranno nulla di quello che avevano lasciato. 

Noi non possiamo stare in silenzio. Sgomberare un campo profughi, senza che vi siano soluzioni alternative valide o le condizioni per un rimpatrio assistito, significa abbandonare centinaia di migliaia di persone incolpevoli alla loro sorte. Significa disattendere le norme internazionali di tutela dei rifugiati e dei profughi. Significa ignorare i principi, fondanti delle nostre democrazie, di solidarietà umana. Significa dar vinta la partita a chi nel caos vive e trae enormi vantaggi.

Non dobbiamo permetterlo

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