Pagine

domenica 24 maggio 2015

Libri sull'Africa: L'impostore

L'impostore è un libro del sudafricano Damon Galgut, scritto nel 2008, e pubblicato in Italia da Guanda nel 2009. E' un testo che si legge in modo decisamente scorrevole, sebbene non costituisca la miglior cosa scritta ad Galgut. Il libro resta fino alla fine in un sospeso di ottime intuizioni senza mai decollare nel modo più pieno che il lettore si aspetta.

Il romanzo, che a tratti può sembrare un thriller, ambientato nel Sudafrica post-apartheid, gioca ogni suo elemento nei contrasti, a partire da quello del colore della pelle dei protagonisti, passando tra quello degli ambienti e fino a quello tra legalità e illegalità, tra verità e menzogna. Una menzogna che accompagna, come appunto nel titolo, ogni personaggio, che non è mai veramente quello che dichiara o sembra essere.
E' anche un viaggio nel Sudafrica moderno, tra affari e corruzione, tra segreti e dissapori antichi. 
Ma forse, la giusta chiave di lettura è proprio in un'apparente realtà , che non è mai così come si pensa, probabilmente come il Sudafrica di oggi, che vive ancora nella sua pienezza le contraddizioni e i limiti di una storia che non vuole, e forse non può, essere dimenticata.

E' interessante notare alcune scelte, forse non felicissime, sulla traduzione in italiano. Dal nome della protagonista femminile Baby, che diviene Bimba in italiano e soprattutto del protagonista il cui nomignolo Nappy, viene tradotto in un improbabile Pannolino!


Damon Galgut, sudafricano bianco di Pretoria, è nato nel 1963 ed appartiene alla generazione di scrittori emersa dopo la fine dell'apartheid (il suo esordio letterario è negli anni '80, ma il suo successo è datato 1991). Il suo libro più noto è sicuramente Il buon dottore, pubblicato nel 2003 e scritto quasi interamente a Goa in India. Scrive anche per il teatro.

Vai alla pagina di Sancara su Libri sull'Africa

giovedì 21 maggio 2015

Land Grabbing nel documentario di Alfredo Bini

Si chiama Land Grabbing o Land to Investors? il breve documentario (sono circa 15 minuti) prodotto dal giornalista free-lance Alfredo Bini su di un tema, quello del "furto di terra" di grande attualità in periodo di Expo, il cui motto è "sfamare il pianeta".
Bini indaga in particolare sul fenomeno in Etiopia, che rappresenta uno dei luoghi del pianeta ove il tema si presenta in modo più significativo. I motivi sono molteplici: un territorio ampio, con vasti altopiani e abbondanti corsi d'acqua, terre nominalmente incoltivate, una vicinanza strategica ai paesi della Penisola Araba (che sono i maggiori acquirenti), una diffusa povertà (l'Etiopia è tra i 15 paesi più poveri del pianeta) e una corruzione molto alta. Tutti questi fattori determinano una situazione ottimale affinchè pezzi di territorio, si parla di oltre 3,5 milioni di ettari, ovvero l'equivalente della Guinea Bissau o della Moldavia o del Belgio (con una buona aggiunta). 

Il governo etiope si giustifica, come al solito, con la necessità di far quadrare i conti statali. Conti di un paese tra i più poveri del mondo, che continua a spendere una parte importante del proprio Pil in armi e che ha quasi il 40% della popolazione (gli etiopi sono circa 95 milioni) che vive con meno di 1 dollaro e un quarto al giorno.
Naturalmente non è affatto vero che le terre sono vuote. Sono territori occupati da pastori nomadi che si vedono così sbarrare la strada verso i pascoli e la loro stessa vita. Perchè una delle bellezze dell'Etiopia è proprio la sua ricca storia (unico paese a non essere colonizzato, se si esclude la brevissima parentesi italiana durante il secondo conflitto mondiale) e la sua complessa architettura sociale fatta di popoli, culture e religioni diverse. Proprio le tribù nomadi o semi-nomadi degli altopiani costituiscono una ricchezza antropologica e culturale di primaria importanza per l'intera umanità (che non dimentichiamolo ha avuto la sua origine proprio in queste terre).

Sulla protezione dei popoli nomadi e sul pericolo che essi corrono vi rimando a Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, che da oltre mezzo secolo segue con attenzione questi temi e che anche recentemente ha lanciato l'ennesimo allarme.

In sostanza si può affermare che il land grabbing non aiuta le popolazioni locali (la totalità del prodotto è destinato ad esportazione), inoltre a causa dello sfruttamento lavorativo (nelle aree di produzione non vi sono regole), dell'utilizzo massivo delle risorse idriche danneggia lo stesso paese che vende o affitta le terre. Infine, privando le popolazioni nomadi dei loghi di pascoli e spesso di residenza stagionale, mette a repentaglio la sopravvivenza stesse di questi popoli.

Quando si parla di questi temi dobbiamo però essere realisti. Si prevede che per sfamare circa 9,5 miliardi di persone nel 2050, vi sarà bisogno di un aumento della produzione agricola tra il 70 e il 100 per cento di quella attuale. I potenti (i ricchi) del pianeta si stanno accaparrando la loro sopravvivenza per il futuro.



lunedì 11 maggio 2015

Olio di palma e Africa

La questione dell'olio di palma è diventato un tema di grande attualità. In particolare dal dicembre 2014 quando l'Unione Europea ha obbligato i produttori ad indicarlo (prima si parlava genericamente di grassi vegetali) sulle etichette. Si parla della sua pericolosità per l'ambiente e per l'uomo. Non è mia intenzione avventurarmi in una discussione relativa agli effetti degli olii vegetali saturi non idrogenati (tale è l'olio di palma) sulla salute umana oppure sulla distruzione delle foreste del pianeta per far posto alle piantagioni di palma da olio.
Mi limiterò invece al alcune, semplici, questioni storiche che coinvolgono l'Africa.
In primo luogo bisogna dire che la pianta da cui si ricava la quasi totalità dell'olio di palma è originaria dell'Africa. In particolare la Elaeis guinnensis esisteva ed era poi coltivata in tutto l'arco di costa che dal Senegal arriva fino all'Angola (passando appunto per il golfo di Guinea, da cui il nome botanico). In tutta l'Africa Occidentale l'olio di palma è usato per scopi alimentari da secoli. In alcune zone è chiamato dendè. Si tratta di un olio alimentare (e non solo) facilmente ottenibile per spremitura dei semi (che ne contengono circa il 40-50% del loro peso), economico, saporito e che si presta anche alla cottura. E' un olio di colore rosso che allo stato grezzo e a temperatura ambiente è quasi solido.
Proprio dall'Africa Occidentale gli inglesi esportarono l'olio in Europa, ma non per l'uso alimentare, bensì per quello di lubrificante meccanico e successivamente per utilizzarlo nella cosmesi (saponi). La storia dell'olio di palma ha sempre visto un suo uso in ambienti molto differenti tra loro da quello alimentare a quello cosmetico, da quello industriale e quello dei carburanti. Proprio ieri un amico mi raccontava di una nave che aveva scaricato metà del suo contenuto in olio di palma in un porto dell'Adriatico per una nota azienda produttrice di cioccolata e poche ore dopo, in un altro, porto l'altra metà del carico per farlo diventare biodiesel.

Fu proprio alla fine del 1800 (esattamente nel 1848) che gli olandesi e successivamente gli inglesi (nel 1910) esportarono la palma da olio africana nell'attuale Indonesia e in Malesia. Oggi Indonesia e Malesia con circa 53 milioni di tonnellate (33 in Indonesia) di olio di palma prodotto (circa l'84% della produzione mondiale) sono i leader esportatori di questo prezioso olio. Dietro di loro Thailandia, Colombia e Nigeria. In Africa in particolare, aumentono le produzioni in Costa d'Avorio, Uganda e Camerun (dove sono iniziati i problemi relativo alla deforestazione).
L'Indonesia dal 2000 al 2013 ha triplicato le aree di coltivazione della palma da olio, distruggendo l'equivalente in foresta.

Il motivo di tanta popolarità dell'olio di palma è presto detto. Costa poco. Il basso costo (circa 4 volte meno il costo per ettaro rispetto a qualsiasi altro olio vegetale) e la quasi totale meccanizzazione della lavorazione, lo rendono un prodotto estremamente competitivo. La palma è una pianta che vive circa 50 anni e già dopo 2 anni e mezzo arriva a produrre. La sua massima produzione è tra i 20 e i 30 anni di vita.

Poichè è del tutto evidente che delle foreste del pianeta a pochi importa (purtroppo) si è visto che nella nostra società, sotto alcuni versi malata, funziona maggiormente lo spauracchio dannosità per la salute. L'olio si palma si comporta da un punto di vista alimentare più similmente ai grassi di origine animale (quello delle carni o del latte). Se qualcosa dunque cambierà nell'utilizzo massiccio dell'olio di palma lo si dovrà più alla paura del colesterolo che alla salvaguardia dell'ambiente, delle foreste e dei suoi abitanti!