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sabato 19 novembre 2016

Mitumba, storie di magliette e di jeans. Una carità che rischia di far male

Mitumba in swahili significa "abiti usati" ma, in Africa Orientale, oramai significa mercato degli abiti usati.  In tutta l'Africa il mercato degli abiti usati diventa di giorno in giorno più florido. Il 90% degli abiti giungano dall'Europa e dall'America. In Africa, se da un lato è vero che molti vestono di abiti usati - soprattutto quelli che rappresentano la moda occidentale - è altrettanto vero che raramente gli abiti usati sono africani. Gli abiti si passano di fratello in fratello, fino all'esaurimento.
Allora la storia di questi indumenti incomincia nei contenitori che sono sparsi in tutta Europa e che raccolgono gli abiti usati. Questi contenitori - nati con lo scopo caritatevole - sono oggi diventati un luogo di contesa (a volte anche violenta). Qualche anno fa il quotidiano svizzero Tages Anziger ha accusato in modo diretto due dei principali collettori di indumenti usati (Texaid e Tell Tex) di essere complici di una competizione commerciale basata sull'inganno. A scanso di equivoci sono Aziende e non cooperative o associazioni caritatevoli.
La questione è che spesso gli enti raccoglitori (cooperative e non-profit) vendono i capi raccolti al chilo (dai 30 ai 50 centesimi al chilo) e poi ne perdono il controllo. Alla fine il prezzo al chilo può arrivate a 6 euro. I dati Italiani dicono che nel 2013 sono stati raccolti 111.000 tonnellate di vestiti usati. Ed è proprio in questa fase che si inseriscono le organizzazioni criminali (italiane e recentemente quelle nigeriane) Già nel 2014 la Direzione Antimafia Nazionale scriveva che "buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti". Del resto in tutte le inchieste da Mafia Capitale a quella della Terra dei Fuochi il business a dei vestiti usati sembra esserci sempre.
Se è vero che l'alternativa per evitare l'infiltrazione criminale è quella (come sempre!) di controllare interamente la filiera, dalla raccolta alla distribuzione in loco, come ad esempio fa, soprattutto per il Mozambico, Humana Italia, è altrettanto vero che si pone un altro problema.
Infatti, la Comunità dell'Africa dell'Est (EAC) sostiene che "il tessile, la lavorazione del pollame e la produzione automobilistica sono i settori che vanno incentivati per lo sviluppo industriale e per la creazione di posti di lavoro della regione. Per farlo, sostiene l'EAC, è necessario eliminare l'importazione dall'estero di merci e prodotti usati". L'EAC ritiene sia necessario bandire le importazioni entro tre anni.
Si stima che la produzione tessile dell'Africa Orientale sopperisce per solo il 10% al fabbisogno della popolazione.
Insomma, sia che le organizzazioni criminali si infiltrino nel commercio sia che si controlli la filiera della distribuzione, il rischio che l'azione caritatevole che molti fanno, portando i vestiti usati nei raccoglitori sparsi per strada, si trasformi in un boomerang è alta.
Se per l'Africa Orientale è maturo il tempo di una riflessione su questo commercio, in Africa Occidentale la questione sembra diversa e sembra essere nelle mani della mafia nigeriana.
Oggi la maggioranza delle spedizioni vanno proprio verso l'Occidente Africano, dove il mercato sembra crescere di giorno in giorno.

Come spesso accade le buone intenzioni iniziali finiscono per danneggiare non solo l'azione stessa ma, rischiano di incidere fortemente sul futuro di intere popolazioni.

Già tempo fa  (nel 2005) l'economista italo-americana Pietra Rivoli aveva pubblicato "Viaggi di una T-shirt nell'economia globale", edito dalla Apogeo, in cui raccontava il florido mercato - e le sue distorsioni - degli abiti usati.

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