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venerdì 7 settembre 2018

La Cina in Africa

Ha destato grande interesse, e discussione, l'annuncio recente del Presidente Xi Jinping, di un nuovo e massiccio investimento cinese in Africa. Nel corso del terzo Forum della Cooperazione Cino-Africana, dove - udite udite - erano presenti i capi di stato o di governo di 53 dei 54 stati africani. Mancava solo lo Swaziland, che recentemente ha riadottato il nome Regno di e-Swatini, poiché è ancora l'unico ad avere relazioni diplomatiche con Taiwan, come imposto dai paesi europei ex-colonizzatori.
Qualcuno dirà certo, erano tutti li solo per ricevere soldi. In effetti nessuno (nemmeno la Banca Monetaria e il Fondo Monetario), nemmeno ai tempi delle grandi elargizioni di denaro senza nessuna garanzia di restituzione, era riuscito a  trovare un così ampio consenso.
Che la Cina da decenni (a partire dagli anni '80, per la precisione) abbia investito in Africa non è un mistero. Un investimento che è cresciuto in modo esponenziale, grazie anche alla storica (e se volete discutibile) posizione della diplomazia cinese di non ingerenza negli affari interni.
Il risultato è che già a partire dal 2014 la Cina è il primo partner commerciale dell'Africa. Africa che a detta degli analisti, oltre ad essere una miniera a cielo aperto, è l'unico grande mercato per il futuro.
I nuovi 60 miliardi di dollari messi sul piatto dalla Cina (cifra analoga a quella investita nel 2015) - differenziati tra linea di credito, aiuti e prestiti a zero interessi (è bene ricordare che quando il il Fondo Monetario negli anni '70 elargì prestiti a fiumi ai paesi africani, il problema maggiore furono poi gli interessi sul debito - potete vedere questo post di Sancara), fondi per lo sviluppo e per i progetti di finanza (investimenti di privati con partecipazione pubblica) e infrastrutture.
E' chiaro che la Cina non è la Caritas! I cinesi non sborsano nemmeno uno yuan senza sperare in un guadagno!
Le aziende cinesi hanno aperto cantieri ovunque in Africa per costruire rotaie, strade, dighe, stadi, edifici e altro. Sono stati costruiti quasi 6000 chilometri di ferrovie, oltre 4500 chilometri di autostrade, 9 porti, 14 aeroporti, 34 centrali elettriche, oltre un migliaio di piccole centrali idroelettriche e 100 zone industriali.
Quest'ultimo aspetto (naturalmente legato alle infrastrutture) è quello determinante per il futuro.
Recentemente uno studio effettuato dalla Harvard University (su cui è stato pubblicato un libro) dedicato agli investimenti cinesi in Africa oltre ad evidenziare la produzione africana (ad esempio camion, condizionatori, frigoriferi e televisori) legata agli investimenti cinesi ipotizza un futuro in cui l'Africa comincia a fabbricare prodotti complessi e formare, anche grazie ai cinesi, esperiti in ambito della tecnologia, diventando la fabbrica mondiale del futuro. Fantascienza? Vedremo.
Intanto da parte Occidentale si registra solo irritazione (ed invidia). Le critiche, apparentemente sensate, fanno leva sul neo-colonialismo cinese (che detto da chi possedeva tutta l'Africa, fa almeno sorridere), sui rapporti con feroci dittatori (l'Africa è anche fatta di giovani e fragili democrazie e comunque, molti dei dittatori passati e futuri sono stati messi lì proprio da quelli che criticano) e sul fatto che l'Africa è ancora un luogo "dove tribù si affrontano mortalmente tra di loro" (che sinceramente rappresenta un immagine dell'Africa quanto mai lontana dalla realtà).
Insomma, come ha avuto modo di scrivere già quasi 10 anni fa, l'economista zambiana Dambisa Moyo nel suo La carità che uccide, una aspra critica al sistema degli aiuti, "Nessuno può negare che la presenza della Cina in Africa sia motivata dal petrolio, dall'oro, dal rame e quant'altro è nascosto nel sottosuolo, ma dire che l'africano medio non ne trae alcun vantaggio è una falsità, e i critici lo sanno!"

Ecco che allora l'irritazione occidentale (Stati Uniti e paesi ex-coloni in testa) suona perlomeno sinistra. In un momento storico in cui l'Europa sembra vedere l'Africa più come un problema che come una risorsa, l'intervento cinese pone ancora una volta l'accento sulla scarsa lungimiranza della piccola politica europea.