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mercoledì 22 marzo 2017

Il Papa, la Chiesa e il Ruanda

A molti forse è passata inosservata la notizia per cui Papa Francesco, in un recente incontro con il Presidente del Ruanda, Paul Kagame, ha chiesto scusa per la complicità (quando non per la partecipazione diretta) della Chiesa Cattolica nell'ultimo grande genocidio del secolo scorso. Nel 1994, quando in pochi mesi, furono massacrati quasi un milione di persone, la complicità di religiosi cattolici in Ruanda è risultata evidente. L'implorazione al perdono (parole usate dal Papa) per il tradimento della missione evangelica non è solo un atto di coraggio del Papa ma, costituisce una ricucitura di un rapporto (già lo scarso anno il Papa riconobbe le colpe della Chiesa), quello tra la Santa Sede e il Ruanda, che rischiava di ostacolare il nuovo e difficile cammino del paese.
Naturalmente - premesso che non vi è giustificazione alcuna per dei crimini che sono di enorme gravità - la ragione storica della collaborazione tra la Chiesa e la classe dirigente Hutu ha radici che si concentrano nello stretto legame tra il Movimento Nazionale Repubblicano e ad esempio l'arcivescovo Vincent Nsengiyumva che per quasi quindici anni fu Presidente del Comitato Centrale del Partito. Un partito che non aveva mai nascosto la politica discriminatoria nei confronti dei Tutsi. Per la cronaca Nsengiyumva fu costretto nel 1990 a lasciare il partito obbligato, tardivamente, dal Vaticano. Infine fu ucciso sul finire dei giorni del genocidio da militati del RUF (Fronte Patriottico Ruandese) che accusandolo di aver contribuito alla morte di loro familiari, lo giustiziarono.
I processi e le testimonianze di quei terribili 100 giorni in Ruanda hanno dimostrato senza ombra di dubbio le colpe tremende della Chiesa (a tal proposito vi invito a leggere questo articolo di Fulvio Beltrami sull'Indro). Preti e suore coinvolti direttamente nella mattanza, istigatori di crimini tra i più inconfessabili e traditori della fiducia che la popolazione in preda al panico riponevano nella chiesa e nei suoi emissari.
Il ricordo di quello che accadde, ad esempio, il 14 agosto 1994 presso la Chiesa di Ntarama non lascia scampo a possibili giustificazioni e al tempo stesso rappresenta un film dell'orrore di cui pochi, fuori dal Ruanda, hanno voglia di parlare. Quel giorno ammassati nella chiesa vi erano 5000 persone, moltissimi bambini e tante donne. Si erano rifugiati lì perchè credevano di essere al riparo.  
Furono gli stessi sacerdoti a "vendere" la carne da macello ai carnefici. I bambini furono uccisi sbattendogli la testa sui muri perimetrali, ad altri furono riservati i macete, i bastoni e perfino i crocefissi, a molte donne lo stupro prima del machete e solo a pochi fortunati le armi da fuoco. La mattanza si concluse con quasi 5.000 morti. Oggi la chiesa ospita un memoriale dove sono anche conservati, come monito, i teschi, alcuni con le fratture dei machete, di molti dei morti.

Non vi è dubbio che la scelta di Papa Francesco sia stata coraggiosa, come altre che (e lo dico da laico) stanno accompagnabdo il suo Ponteficio. Il coraggio che i suoi predecessori non avevano avuto addossando le colpe ai singoli e non alla Chiesa ruandese. Così come fu evidente la protezione (e successivamente i tentativi di far assolvere) di padre Seromba dalla condanna del Tribunale Internazionale. Speriamo sia il segno dei tempi che cambiano.

Se la Chiesa ha fatto il suo passo, ancora molto resta da fare da parte della Comunità Internazionale, che pur non avendo responsabilità diretta sui massacri ha un'enorme responsabilità di esser, come ha avuto modo di dire e scriivere Silvana Arbia (Procuratore del tribuinale internazionale), "rimasta a guardare".
 

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