martedì 30 maggio 2017

Perfino il Papa rinuncia ad andare in Sud Sudan

E' di questi giorni la notizia che un uomo coraggioso, come è Papa Francesco, è stato costretto a rinunciare al suo viaggio nel Sud Sudan. La sicurezza nel paese è oramai ai minimi e neppure la promessa del Papa ("andrò comunque") e la presenza di oltre 4 milioni di cristiani (un terzo circa della popolazione, il resto a scanso di equivoci, sono animisti) ha impedito ai servizi di sicurezza (del Vaticano e di Gran Bretagna) di dare il via libera al viaggio a Juba. Troopo pericoloso perfino per un Papa che aveva l'intenzione di sfidare il mondo (e forse sarebbe stato un grande atto).
La situazione del paese, la più giovane nazione africana, nata il 9 luglio di soli 6 anni fa (2011), è al collasso.
Oltre 5,5 milioni di persone che soffrono la fame (di cui 890.000 a rischio vita), quasi 4 milioni di profughi, di cui 1,8 milioni nei paesi vicini (Etiopia, Uganda e Kenya) e oltre 2 milioni di sfollati interni. Quasi tre milioni di persone (che diventeranno 4 a fine anno) la cui vita dipendono esclusivamente dal cibo distribuito dal WFP.
Tra di essi, inutile dirlo, moltissimi bambini. Giunti ad essere quasi 1 milione. Bambini in fuga costituiscono la maggiore preoccupazione delle organizzazioni umanitarie.
Una catastrofe che - solo perchè lontana da noi e perchè solo in minima (ma veramente minima) parte lambisce il nostro paese - passa quasi inosservata.

Dall'inizio del conflitto, iniziato alla fine del 2013, e accentuatosi nel corso del 2016, la situazione peggiore di giorno in giorno, mentre senza soluzione di continuità, i pozzi di petrolio continuano ad estrarre l'oro nero.

Si, perchè la questione è che il Sud Sudan, è potenzialmente un paese ricco.

Il conflitto, che ha origini etniche e non solo, vede contrapporsi l'esercito del Presidente Salva Kiir , un dinka che era stato il vice di John Garang fino alla sua morte (avvenuta nel 2005) e le milizie del vice-presidente Riek Machar di etnia nuer, destituito lo scorso luglio.
Un conflitto che, come purtroppo avviene in queste aree, finisce con colpire molto di più i civili che incidere in un senso o nell'altro sulle parti in conflitto. Nel mezzo, le organizzazioni umanitari e gli operatori umanitari (già 80 le vittime tra loro), spesso bloccati per non far arrivare gli aiuti a queste o quelle popolazioni.
Mentre la situazione sembra non avere soluzione, su altri tavoli, si discute di questioni diverse. E' in gioco la costruzione della nuova capitale del paese, che dovrebbe sostituire Juba. Si tratta di Ramiciel, ed è un'impresa da oltre 10 miliardi di dollari, che coinvolgono aziende cinesi, malesi, coreane e russe. Insomma, dei profughi non importa nulla, dei cittadini ancor meno e gli stessi paesi che pagano gli aiuti umanitari, sfruttano attraverso le loro imprese, i denari per la ricostruzione per la nuova costruzione. Il cinismo dell'umanità.

Per una trattazione dettagliata delle origini e delle complessità del conflitto interno vi rimando a questo articolo di Daniela Franceschi


 

lunedì 15 maggio 2017

Amadou Balakè, una voce burkinabè

Amadou Balakè (nato Amadou Traorè) è stato uno dei pochi (per ora) musicisti del Burkina Faso la cui fama ha varcato i confini nazionali inserendosi nella scena musicale internazionale. Il suo stile ha saputo miscelare elementi della tradizione africana (delle etnie Dioula e Mossi) e ritmi provenienti dai Caraibi.
Nato l'8 marzo 1944 nel nord del Burkina Faso (a Ouahigouya) nel 1952 assieme ai fratelli e alla madre, rimasta vedova, si trasferisce a Ouagadougou, dove frequenta la scuola coranica. Non impara a leggere, preferendo le percussioni allo studio.
Ragazzino, si trasferisce a Mopti (in Mali) dove svolge il suo apprendistato come autista. Diventa manovratore nei cantieri edili e infine, nel 1961, rientrato a Ouagadougou, diviene uno dei primi taxisti del paese.
Nel mentre, frequenta i bar  dove suonano le orchestre ed inizia ad esibirsi come cantante e percussionista.
Negli anni '60 gira i pesi dell'Africa Occidentale: è a Bamako in Mali come chitarrista  al Grand Hotel, ad Abidjan in Costa d'Avorio dove suona con l'orchestra cubana e infine in Guinea dove forse si svolge la sua vera formazione musicale.



Nel 1968 rientra in Burkina Faso ormai molto conosciuto nel panorama musicale africano ed è il momento in cui gli viene dato il nome d'arte Balakè, da un brano omonimo (scritto con la doppia, Ballakè) dei Bembeya Jazz (un gruppo guineano alla moda a quel tempo). La canzone, vero suo cavallo di battaglia, racconta di un giovane ragazzo ucciso durante la guerra d'indipendenza  e della sua fidanzata che si suicida dopo la sua morte.
Balakè resta per gran parte degli anni '70 in Burkina Faso dando vita a molti gruppi musicali che restano attivi nella capitale e che fondono ritmi afrocubani con l'afrobeat e il rhythm'n'blues. Molte delle produzione di quegli anni sono state riscoperte e valorizzate dopo la su morte.
Nel 1976 incide il suo primo album ad Accra (Ghana), poi il secondo nel 1978 a Lagos (Nigeria) intitolato Taximan (in ricordo del suo lavoro giovanile) e poi il terzo, sempre nel 1978, a Abidjan (Costa d'Avorio).

Nel 1979 Balakè è a New York assieme al cantante gambiano (ma senegalese di adozione) Laba Sosseh, dove registra due album (Vol.3 e Amadou Balakè a New York)  avvalendosi della collaborazione di molti musicisti (tra cui il pianista Alfredo Rodriguez). L'esperienza americana lo proietta nella musica internazionale.

Proprio grazie all'esperienza a New York e alle collaborazioni in chiave afro-cubana che anni dopo, varcata la soglia del muovo millennio, grazie al produttore Ibrahima Sylla, nascerà (2001) il gruppo Africando che vedrà Amadou Balakè tra i cantanti.

Dopo aver vissuto fino alla metà degli anni '80, tra New York, Parigi e Abidjan, Balakè è rientrato in Burkina Faso dove ha continuato ad esibirsi fino all'anno prima della sua scomparsa, avvenuta a Ouagadougou il 27 agosto 2014.
Nel 2013, in modo quasi profetico incide il suo ultimo album, chiamato In Conclusion che sarà pubblicato postumo nel 2015.

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lunedì 8 maggio 2017

Rana Golia, una gigante del suo genere

La Rana Golia (Conraua goliath) è la rana (più correttamente un anuro, ovvero quella grande famiglia che comprende rane, rospi e raganelle) più grande del mondo. Può giungere a pesare 3 chilogrammi ed ad essere lunga, a zampe estese, vicino agli 80 centimetri. Insomma nulla a che fare con il più grande dei nostri rospi.
Le rane golia vivono lunghi i fiumi in acque melmose e oramai in due soli paesi dell'Africa Occidentale: il Camerun (nel sud-ovest) e la Guinea Equatoriale (nel Parco del Monte Alen). E' una specie che, stando all'IUCN è inserita nella lista rossa delle specie a rischio  ed è classificata come EN, ovvero come destinata all'estinzione (fino al 1996 era definita come una specie vulnerabile). Si ritiene che gli esemplari si dimezzano ogni tre generazioni (ovvero 15 anni) a causa della perdita dell'habitat (a causa del disboscamento e della deviazione dei fiumi) e della caccia (la rana golia viene mangiata e, stando alle testimonianze è una vera prelibatezza!). Vi è anche un'altra causa che contribuisce alla decimazione della popolazione delle rane golia ed è l'esportazione verso gli Stati Uniti per uso domestico (anche in Africa i bambini le trattano come degli animali di casa) dove poi vengono utilizzate nelle competizioni di salto delle rane (il governo della Guinea ha posto il limite a 300 esemplari l'anno per le esportazioni).
Sono animali notturni (quando cacciano e si cibano di insetti, ma anche di piccoli animali e perfino di piccoli mammiferi) e contrariamente ad altre specie di rane sono prive di sacche vocali, quindi non emettono suoni (vengono anche chiamate rane mute). Le femmine depongono centinaia di uova, sebbene poi le dimensioni dei girini risultano essere simili a quelli delle rane comuni.



 

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