martedì 16 gennaio 2024

Il 16 gennaio 2006, Ellen Johnson Sirleaf è la prima donna Capo di Stato in Africa

Il 16 gennaio 2006 quando Ellen Johnson Sirleaf assunse i poteri di Presidente e Capo dello Stato in Liberia, fu decisamente una data storica per l'Africa e per il nostro Mondo. Si trattava infatti della prima donna della storia ad essere Capo dello Stato in un Paese africano


La Johnson-Sirleaf, economista e imprenditrice, è nata nel 1938 a Monrovia, la capitale della Liberia ed è stata Presidente dal 2006 al 2018.

Nel 2011 ha vinto, assieme a Tawakkul Karman e Leymah Gbowee, il Premio Nobel per la Pace "per la battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne e dei loro diritti".

Una delle prime azioni di governo di Ellen Johnson è stata quella, nel 2007, di rendere obbligatoria e gratuita l'educazione primaria per ogni bambino della Liberia.

La Johnson è stata protagonista privilegiata di una delle più sanguinose guerre civili (e forse la meno raccontata e conosciuta), quella che ha visto protagonista il criminale (condannato dalla Corte Internazionale a 50 anni di reclusione per crimini contro l'umanità), Charles Taylor che dal 1989 al 1997 insanguinò il Paese.

Per conoscere meglio la storia di Ellen Johnson Sirleaf, consiglio la lettura di "Un giorno sarai grande", scritto da lei e pubblicato nel 2012 da Add Editore, dedicato a "alla memoria delle innumerevoli donne il cui impegno e sacrificio non sarà mai riconosciuto, ma che  con le loro battaglie private e silenziose, hanno contribuito a lasciare un'impronta profonda e silenziosa nel mondo".

martedì 25 aprile 2023

Tunisia sull'orlo del collasso

La Tunisia è il Paese africano più vicino all'Italia. Circa 140 chilometri per giungere in Sicilia (senza contare Pantelleria che è ancora più vicina), circa 170 chilometri per giungere in Sardegna. E' evidente che questa vicinanza geografica pone la Tunisia come un partner commerciale importante e strategico. Il gasdotto Transmed, costruito tra il 1978 e il 1983 e dedicato ad Enrico Mattei, collega appunto l'Algeria, attraverso la Tunisia, a Mazara del Vallo. Quest'ultima caratteristica, all'interno della crisi russo-ucraina e della necessità di sostituire il gas russo con quello proveniente dall'Algeria, pone la Tunisia al centro delle questioni geopolitiche attuali. Inoltre oggi le rotte migratorie verso l'Europa passano dalle coste tunisine.

La Tunisia è anche uno splendido Paese, sede di cultura storica mediterranea, di arte, di bellezza. E'stato un Paese turistico la cui industria è stata completamente azzerata dalle scelte politiche e poi dal Covid.

La Tunisia è oggi al limite del collasso. La situazione politica e quella economica, sono al limite di un punto di rottura e il rischio guerra civile appare del tutto che remoto e secondo molto osservatori inevitabile.


La Tunisia, nel 2011, era stata la protagonista e in qualche modo la scintilla che aveva dato il via, attraverso la cosiddetta "rivolta del pane" a quella che è universalmente nota come "primavera araba". Oggi a distanza di oltre 12 anni la situazione tunisina è giunta al capolinea. In questi anni si sono succeduti sei Presidenti, nove Primi Ministri e undici governi, segno di una instabilità politica estrema. Kais Saied, l'attuale Presidente in carica dal 23 ottobre 2019, giurista, costituzionalista e docente universitario, è stato eletto grazie alla sua indipendenza e sobrietà. Nel 2021, con con una svolta autoritaria, esautora il Parlamento, impone una Costituzione (2022) che accentra il potere sul Presidente e avvicina la Tunisia al mondo islamico. Ha sciolto il Consiglio Superiore della Magistratura istituendo tribunali militari. Ha escluso i partiti politici dal Parlamento (quello attuale è stato votato nel 2022 dal 12% della popolazione). Ha iniziato a perseguitare oppositori e giornalisti.

La crisi economica che ne è derivata (alcuni generi alimentari di primaria importanza sono aumentati anche del 25%) ha reso ancor più povera la popolazione e indotto gran parte delle multinazionali a lasciare il Paese ed andare nel più stabile Marocco.

Recentemente (il 21 febbraio 2023) Saied ha incolpato i migranti subsahariani che "hanno invaso il Paese" e che "minacciano l'integrità araba e islamica" ordinando di fatto una massiccia espulsione di Maliani, Senegalesi, Ivoriani e Guineiani (solo nei primi mesi del 2023 ne sono sbarcati oltre 18.000 in Italia, nello stesso periodo del 2022 erano stati 1.800). Il razzismo viscerale dell'Africa araba contro l'Africa Nera è cosa nota a tutti (e dovrebbe far riflettere i governi europei quando fanno accordi con governi o presunti tali del Maghreb - l'ultimo proprio con la Tunisia da parte del governo italiano). Inoltre in una recente inchiesta il 65% dei tunisini ha dichiarato di voler andar via dal Paese (il 90% sono giovani sotto i 30 anni).


Infine, a mettere la ciliegina sulla torta, ci pensano, come sempre, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale che bloccano un prestito alla Tunisia di 1,9 miliardi dollari, condizionandolo alle riforme economiche. Riforme, che come oramai da ricetta collaudata, che ha generato solo ingiustizie e tensioni, prevede taglio della spesa pubblica (in particolare dei sussidi, della scuola, della sanità e innalzamento dell'età pensionabile) e privatizzazioni. Insomma il copione già ampiamente visto in Africa Subsahariana (e in altri luoghi del Pianeta) si ripete con imbarazzate similitudine.

Ma, la cosa più preoccupante, è che si ripete anche l'altro copione. Così come con la Libia non si è potuto mai interrompere il flusso di gas proveniente da quel Paese (arricchendo così milizie, para-milizie, sciacalli e presunti leader), così come l'indipendenza energetica dalla Russia non è a breve possibile, così sarà in Tunisia, dove a dispetto di quello che accadrà (molti analisti come detto prevedono il peggior scenario possibile), il gas continuerà ad arrivare a Mazara del Vallo! "Show must go on" cantava Freddy Mercury e parafrasando uno dei più reali politici italiani di questo secolo, Chetto Laqualunque, "intu 'o culo ai disgraziati".


*Le fotografie sono tratta dalla rete Internet



domenica 23 aprile 2023

Il Sudan (ri)sprofonda nel caos

Il Sudan non è mai stato un luogo tranquillo dell'Africa. Da ancor prima della sua indipendenza, avvenuta il 1 gennaio 1956 (da un'amministrazione congiunta tra Gran Bretagna ed Egitto), il Paese è stato sconvolto da sanguinose guerre civili, da rivalità religiose, da interessi economici contrastanti, da colpi di stato, da dittature, da carestie, da violenze inaudite e da, più o meno consensuali, divisioni territoriali.



Due guerre civili (1955-1972 e 1983-1998), una serie di colpi di stato, tra cui quello del 30 giugno 1989 che porta al potere il colonnello Omar Al Bashir (destituito dal furore popolare dopo 30 anni di scellerata dittatura l'11 aprile 2019), il referendum del gennaio 2011 che ha portato,  alla nascita del Sud Sudan (il 9 luglio 2011), il 54° Stato africano, l'ospitalità data dal 1991 al 1996 al terrorista saudita Bin Laden e il conflitto del Darfur (in realtà un vero è proprio genocidio) che dal 2003 al 2020 ha restituito al mondo l'immagine di una delle più grandi, e ignorate, crisi umanitarie del Pianeta. Tutti questi elementi, se approfonditi, portano ad affermare, senza esitazione che siamo difronte ad una delle aree più calde del nostro mondo.

Eppure, quando nel 2019 fu destituito dopo 4 mesi di proteste popolari Omar Al Bashir, accusato e con un mandato d'arresto fin dal 2008 dalla Corte Internazionale per crimini contro l'umanità, sembrava essersi acceso uno spiraglio di luce nel Paese. Gli anni di governo democratico, con tutti le sue difficoltà, avevano iniziato a dare piccolissimi - ma veramente importanti - segnali. Abolita la pena di morte per omosessualità, rese illegali le mutilazioni genitali femminili, rimosso l'obbligo del velo, resa illegale la fustigazione pubblica per le donne e cancellato il divieto di consumo di alcolici per i non mussulmani.

Il 25 ottobre 2021, un colpo di stato messo in atto da due ex fidi militari di Al Bashir, pone fine ad ogni possibile democratizzazione del Paese. Il generale Abdel Fattah al-Burhan si pone alla guida del Paese assieme al suo vice Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemedti (conosciuto per essere stato uno dei carnefici del Darfur e per aver combattuto con il suo esercito,  il Rapid Support Forces - RSF come mercenario nella guerra dello Yemen e in Libia).


La luna di miele tra i due uomini forti del Paese è durata veramente poco. Già nell'ottobre 2022 Dagalo ha dichiarato fallito il golpe del 2021. L'African Development Bank ha stimato l'inflazione del Paese al 246% mentre crescono le proteste delle popolazione le cui condizioni economiche sono, se è possibile, peggiorate. Inondazioni nel Sud e crisi alimentare (provocata anche dalla guerra in Ucraina) hanno finito con mettere letteralmente in ginocchio gran parte dei 40 milioni di abitanti del Sudan.

Infatti nel giugno 2022, il Centre for Advanced Defence Studies (C4ADS) ha pubblicato un Report, Breaking the Bank in cui si evidenzia come in Sudan esista un vero e proprio Stato parallelo (deep state) che controlla l'economia del Paese dove con molta chiarezza si evince che oltre 400 entità (tra aziende e società finanziarie del Paese) sono controllate dall'elite militare, ed in particolar modo proprio da vice-presidente Degalo (considerato uno degli uomini più ricchi del Paese), rendendo evidente la scelta del governo militare di mantenere lo status-quo. In particolare l'estrazione del petrolio e soprattutto dell'oro, sono il punto di maggior concentrazione degli interessi economici.

Insomma, ad essere onesti, niente di nuovo anche in altre zone del Pianeta. Si governa ponendo grande attenzione in primo luogo ai propri interessi.

Da alcune settimane i due pretendenti al potere sono usciti allo scoperto e si sono apertamente sfidati in un conflitto armato, sfruttando anche apparenti divisioni nel computo delle alleanze: Al-Burhan vicino sempre di più ai movimenti islamici integralisti e all'Egitto di al-Sisi e Dagalo che cerca di accreditarsi con gli Stati Uniti attraverso movimenti filantropici. Entrambi vantano legami con la Russia.

Pace e stabilità, così come le conquiste democratiche, si allontanano velocemente per gli oltre 40 milioni di sudanesi, che ancora una volta vedono allontanarsi le opportunità di sviluppo, in un Paese ricco di risorse in mano ad una cricca di militari e faccendieri. Il rischio di una nuova e sanguinosa guerra civile è alle porte. Quello del Sudan rischia di diventare l'ennesimo conflitto nel mondo, capace di creare nuove e preoccupanti crisi umanitarie.

sabato 2 ottobre 2021

Una speranza che arriva dall'Africa

Abbiamo distrutto il nostro Pianeta. Su questo credo sia molto difficile sostenere il contrario. Gli effetti sulla vita quotidiana, che alcuni decenni fa, sembravano a lunga scadenza, probabilmente consegnati irresponsabilmente alle future generazioni, sono oggi evidenti e minacciano seriamente la vita di milioni di individui.

Potremmo discutere a lungo, sulle responsabilità, politiche, economiche e scientifiche che hanno prodotto questo disastro ma, al netto di assolvere (pochi) e condannare (molti) non ci porterebbe molto lontano. Hanno ragione le giovani generazioni, il tempo del blah blah, è finito.

Tra gli attivisti che oggi stanno provando ad incidere sulle scelte che si faranno, oggi, non tra un secolo, vi è una giovanissima ragazza ugandese, Vanessa Nakate.

Vanessa, 25 anni a breve, è nata a Kampala, figlia di politico locale, si è laureata in Economia Aziendale alla Mekerere University Business School di Kampala (Università pubblica ugandese) ha abbracciato le cause dell'ambientalismo e dei Fridays For Future nel 2019. Quest'ultimo fatto e la lenta sua ascesa tra i giovani leaders mondiali del movimento dovrebbe farci comprendere la forza e l'universalità di questo movimento, da molti rilegato, con la solita supponenza dei "grandi", a gioco di ragazzini.

E il suo inizio è stato quello che oramai ci siamo abituati a vedere. Scesa in strada una domenica, davanti al Parlamento ugandese, assieme ai suoi fratelli, con dei cartelli inneggianti l'ambiente, quasi in solitudine, in breve tempo dopo aver partecipato a tutti i Fridays for Future, ha fondato Fridays for Future Africa.

L'Africa, come lei stessa ha affermato, "è responsabile solo del 3% delle emissioni di anidride carbonica, ma subisce molto di più le conseguenze".

In poco tempo la sua voce e la conseguente ascesa nel movimento, attivano molti giovani africani, da troppo tempo lasciati ai margini delle decisioni e fino oggi incapaci di far sentire il proprio peso (in Africa, ricordiamolo, vi sono le nazioni con il più alto numero di giovani e giovanissimi).

Ma Vanessa ha saputo imporsi anche grazie alla sua determinazione. Per lei giovane, africana e nera, le difficoltà sono molte di più. E quanto a gennaio 2021, durante il World Economic Forum di Davos, le agenzie di stanza tagliarono il suo volto dalla foto delle cinque attiviste (oltre a lei, le svedesi Greta Thunberg e Isabelle Axelsson, la tedesca Luisa Naubauer e la svizzera Loukina Tille), non si è persa d'animo e grazie ai social (Facebook e Twitter) ha saputo reagire e attaccare a suo modo al motto "Now is the time to listen the the Africa voices!". L'offesa non era verso di lei, ma verso tutto il continente! Grande Vanessa!


Non ci sono dubbi, il futuro del nostro Pianeta è nelle loro mani. Lo scetticismo rispetto ai potenti della Terra è assolutamente condivisibile e sottoscrivibile in ogni parte. Oltre 40 anni di costosissime conferenze, di obiettivi puntualmente disattesi di e idee per il futuro, senza intervenire minimamente alla radice delle cause che stanno alla base del disastro, non possono essere più tollerare. Permettere che le grandi nazioni, ad esempio, possano acquistare dai Paesi poveri le loro quote di emissione di gas nell'ambiente (in modo da non intervenire sui processi produttivi dei ricchi), è qualcosa che grida vendetta da qualsiasi parte lo si osservi! E' il frutto del fallimento di una generazione (la nostra e quella prima di noi) che ha pensato esclusivamente a propri interessi, consegnando al futuro, un mondo dove vivere (naturalmente, per ora, non nella nostra parte) è diventato sempre più difficile se non impossibile.

Ascoltando Vanessa, leggendo i suoi interventi, osservando la passione e l'amore per un'intero continente, non può che tornarmi alla mente, le analoghe passioni di tanti leaders africani del passato, tra cui colui al quale ho dedicato questo blog, Thomas Sankara, il cui pensiero era sempre dedicato al suo popolo, alla sua Africa. A loro fu tappata la bocca sul nascere e per sempre. Oggi tenteranno in tutti i modi, sicuramente con altri mezzi, di fare altrettanto. 



martedì 17 agosto 2021

Due nuovi siti Patrimonio dell'Umanità in Africa

Si è recentemente concluso in Cina l'annuale Assemblea (la 44° per la precisione) del Comitato per i Siti Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO. Quest'anno (lo scorso anno il meeting era stato sospeso a causa della pandemia), sono state analizzate le proposte di iscrizione del 2020 e del 2021.

Quest'anno sono stati inscritti complessivamente (2020-2021) 34 nuovi siti. Di cui 29 culturali e 5 naturali. Inoltre sono state fatte delle modifiche territoriali importanti a 4 siti già presenti della lista (in genere estensioni del territorio protetto).

Complessivamente  - a partire dalla storica sottoscrizione della Convenzione (1972) e della prima lista (1978)- sono 1234 i siti Patrimonio dell'Umanità nel Mondo, appartenenti a 167 Paesi.

L'Africa - rappresentata con 147 siti in 35 Paesi - ha visto due nuove iscrizioni (una nell'area culturale e l'altra nell'area naturalistica) alla lista. 

Essi sono:

- Le moschee in stile sudanese del nord della Costa d'Avorio - ovvero 8 strutture risalenti al XIV Secolo nella città di Djennè, quando era parte dell'Impero del Mali. Rappresentano un'importante testimonianza della rotta commerciale trans-sahariana.



- Il Parco Naturale di Ivindo nel Gabon - un'area di circa 300 mila ettari, diventato Parco nel 2002 e  caratterizzato da foresta pluviale, fiumi (l'omonimo) e lagune, che ospita specie in pericolo, tra cui coccodrilli, elefanti, gorilla.





Gli approfondimenti sui Patrimoni dell'Umanità africani sono disponibili nella pagina dedicata di Sancara.


mercoledì 21 luglio 2021

Capo Delgado, il disastro ancora prima di iniziare

Commentando i fatti che portarono il 4 ottobre 1992 alla storica firma degli accordi di pace in Mozambico nel 2011, a quasi 20 anni dall'accordo mediato a Roma dalla Comunità di Sant'Egidio, ebbi modo di scrivere come "l'assenza di risorse interne da sfruttare (contrariamente all'Angola) e con cui continuare a pagarsi la guerra, ha favorito la distensione e la pace. Una pace indicata spesso come modello che ha consentito una stabilità politica e che fanno oggi, del Mozambico, un Paese povero, ma in costante crescita.

Oggi, 10 anni dopo, quelle parole hanno un valore diverso.

immagine tratta dalla rete
Nell'estremo nord-est del Mozambico, in una provincia chiamata Capo Delgado (che il 25 settembre 1964 fu la base di partenza del Frelimo per la guerra contro i portoghesi), al confine con la Tanzania, nel 2010 e nel 2013 sono stati scoperti grandi giacimenti di gas naturale e per il Paese sono iniziati i problemi. Si tratta di oltre 5 mila miliardi di metri cubi di gas, tra le prime dieci riserve del mondo. Quella che alcuni storici chiamano la "maledizione delle materie prime" si è abbattuta pesantemente sul Mozambico e sulla sua popolazione. Una popolazione composta principalmente da agricoltori, pescatori e qualche minatore (perchè nell'area vi sono anche dei giacimenti di pietre preziose e minerali, soprattutto rubini e grafite), da sempre economicamente arretrata. 

I progetti per estrazione (si parla di un affare da 150 miliardi di euro, ovvero otto volte il PIL dell'intero Paese, con un investimento di 20) sono affidati principalmente alla francese Total (in compagnia anche con l'italiana ENI e l'americana Exxon). Il debito pubblico creato dallo stato mozambicano per sostenere l'estrazione, i danni ambientali annunciati (su questo si vedano i rapporti di Friends of teh Earth) e l'effetto devastante sulle popolazioni hanno, in pochi anni, generato violenze e conflitti che, ancora prima dell'inizio delle estrazioni vere e proprie (previste tra il 2022 e il 2023), hanno finito per destabilizzare il Paese.

A partire dal 2017 è in corso un'insurrezione armata determinata dalla marginalizzazione socio-economica e dall'esclusione della comunità locale che si è vista lentamente sfilare qualsiasi beneficio dallo sfruttamento delle risorse e che ha visto l'immediata infiltrazione da parte di forze di movimenti jihadisti (sia locali che internazionali) che hanno cavalcato il malcontento popolare e fomentato la rivolta. Certo le responsabilità non sono solo all'esterno.

Le popolazioni locali - in realtà intere comunità - utilizzavano i terreni statali per la loro economia di sussistenza. Sono state letteralmente sfrattate con la forza dallo Stato per concedere i terreni a società private per la ricerca dei rubini. Gli attivisti sostengono che il governo abbiano venduto le ricchezze agli stranieri e escludendo le popolazioni locali e questo, ancor più dell'islamismo radicale, è la causa principale degli scontri. Il reclutamento di molti giovani alla causa radicale è solo il frutto di scellerate scelte del governo mozambicano.

Certo è, che dall'ottobre 2017 sono oltre 2000 le vittime e soprattutto quasi un milione gli sfollati interni, tra cui quasi 400 mila bambini, costretti a fuggire a causa degli scontri che vedono i militari del governo (assistiti da Portogallo, del Ruanda e degli Stati Uniti e con l'arrivo massiccio di mercenari) difendere le multinazionali del petrolio contro gli attacchi dei gruppi armati, tutto a discapito della popolazione.

La presenza ruandese è il frutto dell'intervento diretto della Francia a difesa della propria multinazionale Total, che alla presenza del Presidente Macron ha fatto siglare ai due Paesi un "memorandum di intesa" con lo scopo di proteggere i siti più che la popolazione!

I "ribelli" controllano alcune città tra cui Mocimboa de Praia e minacciano Muenda e Palma con continui attacchi. Le operazioni militari hanno costretto la Total a ridurre gli effettivi dalla base operativa posta ad Afungi e rallentare il progetto. Inoltre - poiché il business è grande e non si vuole perdere - minacciano di trasferire parte delle attività in territorio tanzaniano. 

Come sempre le questioni, lì dove lo Stato è assente e le popolazioni abbandonate al loro destino, sono più complesse. Poco si parla del fatto che centinaia di chilometri di costa abbandonate e incontrollate erano diventate negli anni anche luogo di transito di ogni sorta di illegalità proveniente dall'Oriente (eroina, persone, fauna selvatica, legname e preziosi). Al punto tale che alcuni osservatori internazionali sostengono che l'intervento delle milizie islamiche sia più teso a mantenere una zona franca per i traffici illegali che qualsiasi altra ipotesi.

Ancora una volta assistiamo al ripetersi di situazioni che, anche grazie ad una buona dose di disinformazione e strategie occulte organizzate dai governi (non solo africani, sia chiaro) incanalano questi fenomeni su strade diverse dalla realtà. Lentamente essi producono quesi disastri che oramai il mondo ci consegna ai nostri occhi quotidianamente.

Dietro scelte politiche discutibili e a questioni economiche di privilegio, si vogliono mettere in luce vantaggi per le popolazioni inesistenti. Gli interessi delle multinazionali - economici e per nulla curanti dei luoghi in cui intervengono - vengono difesi dagli Stati stranieri (magari con l'aiuto di qualche complice locale) sbandierando, oggi, il terrore dell'islamismo radicale. In funzione di questo presunto pericolo si giustifica ogni sorta di ingerenza e di intervento teso, naturalmente, a proteggere le popolazioni. Affermazione che trova sempre in qualche modo il consenso.

Non volendo (o non potendo per superiori ragioni economiche) vedere il nemico per quello che è, si tollerano situazioni di anarchia che - attraverso l'illegalità - arricchiscono criminali del mondo intero. Siano le droghe, siano le armi, siano gli esseri umani, sia il gas o il petrolio o qualsiasi altra "merce" il business continua. Che sia in Libia, che sia in Somalia, che sia in Ucraina, che sia in Afghanistan o in Iraq, non importa. Lo show deve continuare e soprattutto l'illusione di voler combattere i criminali deve sempre essere presente.

Nel mezzo le popolazioni civili pagano un prezzo altissimo e, volendo essere spregiudicati, necessitano dell'assistenza delle organizzazioni internazionali - pubbliche e private - costringendo i governi del mondo a spendere importanti somme di denaro e alimentando il grande teatro della carità mondiale. Perfino l'intervento umanitario è (spesso) inconsapevolmente coinvolto in questo circo che non lascia scampo a chi, contrariamente a noi, ha avuto la sfortuna di nascere in quei luoghi.

Per la cronaca, proprio di fronte alla costa di Capo Delgado, si trova l'arcipelago delle Quirimbas, una trentina di isole ritenute, per la qualità delle acque, per la ricchezza della fauna e per lo stato ancora incontaminato, un paradiso in terra, diventate nel 2002 una riserva naturale. 


Ringrazio l'amico Helton Dias per le chiacchierate sul suo Paese che mi hanno aiutato a comprendere meglio la complessità.


Le immagini sono tutte tratte dalla rete



mercoledì 24 febbraio 2021

La Repubblica Democratica del Congo, per meglio comprendere

Quella che oggi conosciamo come Repubblica Democratica del Congo, balzata improvvisamente alle cronache per l'omicidio del nostro Ambasciatore (assieme al carabiniere di scorta e all'autista) si chiamava un tempo Zaire e prima ancora Congo Belga. In realtà prima di essere una colonia belga lo Stato Libero del Congo fu una proprietà, diretta e privata, di re Leopoldo II di Belgio. Leopoldo fu definito da uno storico britannico come "un Attila in vesti moderne". Governò il paese, tra il 1885 e il 1908, (quanto un anno prima di morire dovette cedere il Congo alla corona) nel terrore, reprimendo la popolazione locale nel peggiore dei modi. Il Paese fu depredato di quei beni che allora facevano la ricchezza : l'avorio e il caucciù. La mancanza totale del rispetto delle tradizioni, le violenza e lo sprezzo per la vita "nera" furono il centro della politica di Leopoldo.

Si deve a lui, e ai suoi uomini, quella pratica, poi tristemente adottata in ogni parte del continente, di amputare le mani con il macete a chi non lavorava o si ribellava. Così come erano diffuse ogni sorta di violenza, soprattutto nei confronti delle donne e la pratica della schiavitù. Sempre secondo gli storici trovarono la morte nei 20 anni di terrore un numero molto vicino ai 10 milioni di congolesi su una popolazione di 25 milioni. Leopoldo fu costretto a cedere la colonia proprio per le accuse di atrocità internazionali. Nonostante i numeri quello del Congo non è mai stato considerato un genocidio.
L'attuale capitale, Kinshasa, fino al 1966 e dalla sua fondazione avvenuta nel 1881 portava il nome di Leopoldville (a dimostrazione del fatto che il Belgio mai si dissociò dagli orrendi crimini avvenuti in quel Paese).
Il Belgio resse la colonia per altri 50 anni, dal 1908 al 1960. Anni in cui Leopoldville diventò una città culturalmente molto attiva (competeva con la sua "dirimpettaia", Brezzaville, separate dal fiume Congo, il titolo di capitale africana della rumba). Anni in cui tra le due guerre, fu fortemente potenziata l'attività estrattiva nel Paese. Dalle miniere di uranio di Shinkolobwe proveniva il minerale usato per le bombe di Hiroschima e Nagasaki. Il Paese è ritenuto uno scandalo geologico, nel suo sottosuolo si trova di tutto: oro, diamanti, smeraldi, petrolio, uranio, manganese, cobalto, rame e tantalio. Insomma tutto quello che il nostro Pianeta ha bisogno per ogni sorte di tecnologia.

Negli anni '50 emerse un giovane leader, Patrick Lumumba, visionario e panafricanista. Un leader che poteva cambiare, se gli fosse stato concesso, le sorti dell'intero continente. Portò il Paese all'indipendenza il 30 giugno 1960
Ma si trattava di un'indipendenza effimera. Le potenti compagnie minerarie sarebbero restate saldamente nelle mani dei Belgi e quando solo pochi giorni dopo Lumumba nazionalizzò l'esercito ed era pronto a nazionalizzare le risorse, lo Stato minerario del Katanga (con l'aiuto dei parà del Belgio e di mercenari da ogni parte del mondo, Italia compresa) dichiarò la secessione. La storia si sintetizza in poco: Lumumba venne ucciso dai belgi con il benestare della CIA nel gennaio 1961, una sanguinosa guerra civile si combattè tra il 1960 e il 1963 (l'intervento delle Nazioni Unite costerà la vita al Segretario Generale Hammarskjold) e a guidare il Paese giunse nel 1965 Joseph Desirè Mobuto (poi divenuto Mubutu Sese Seko), uomo gradito all' Occidente e agli Americani, baluardo anti-comunista in Africa che regnò (dal 1972 si auto-incoronò Imperatore) e uomo delle tangenti (generose delle compagnie minerarie americane, francesi, sudafricane e belghe) tanto che nel 1984 il suo patrimonio era stimato in 5 miliardi di dollari (alla sua morte le banche svizzere avevano i forzieri pieni dei suoi soldi - solo 8 milioni di franchi furono confiscati alla sua famiglia). Morì nel 1997 in Marocco pochi mesi dopo essere stato deposto da Laurent Desirè Kabila - storico rivale che Che Guevara quando assieme ad alcuni militari cubani era giunto in Zaire per addestrare i congolesi alla rivoluzione aveva definito "un arrivista senza ideali".
Nel frattempo la situazione era - se possibile - ancor più degenerata. A seguito del genocidio del Ruanda del 1994, il confine tra i due Paesi (zona dove è stato ucciso l'ambasciatore italiano con il suo carabiniere di scorta e l'autista) si riversarono prima i profughi in fuga dalla carneficina e poi gli stessi carnefici.
Kabila fu poi ucciso nel 2001 lasciando il paese al figlio Joseph che ne è stato Presidente fino al 2019.


Dall'inizio degli anni '90 ad oggi la Repubblica Democratica del Congo è teatro di una guerra senza soluzioni. Si parla di oltre 160 diversi gruppi armati, disposti a tutto, che mettono a ferro e fuoco l'intero Paese. Uomini che si arricchiscono sfruttando fino alla morte bambini, uomini e donne (i bambini vengono legati a testa in giù nei piccoli pozzi estrattivi e costretti a scavare a mano, spesso vengono tirati su già morti) e che usano lo stupro come arma di guerra (si parla di 500 mila stupri all'anno) ed è contemporaneamente un modo per imporre il terrore e per sottolineare il fatto che la vita, qui, non conta nulla. Armati fino ai denti (spesso gli scambi di minerali avvengono in cambio di armi di ogni genere). Mentre in questo inferno tutto è possibile, le estrazioni dei suoi minerali dal sottosuolo continua con grande continuità, assicurando il fabbisogno dei Paesi ricchi, che in cambio chiudono entrambi gli occhi.



Di Sancara su tutte queste vicende potete leggere:

Articoli:

Personaggi:
- Patrick Lumumba

Date storiche:
- 17 gennaio 1961 - Assassinato Patrick Lumumba
- 18 settembre 1961 - La morte di Dag Hammarskjold
- 30 ottobre 1974 - The Rumble of Jungle
- 6 aprile 1994 - Scoppia l'inferno in Ruanda

Libri e film:







lunedì 22 febbraio 2021

Nella Repubblica Democratica del Congo, non tutti i morti valgono uguali

Purtroppo si parla della Repubblica Democratica del Congo (un tempo conosciuto come Zaire) solo quando la cronica ci restituisce l'omicidio di nostri connazionali. Desta ancora più perplessità (e personalmente profonda indignazione) lo stupore della politica e della nostra comunità. Da quasi tre decenni nella Repubblica Democratica del Congo ed in particolare la zona del Kivu si combatte quella che molti definiscono la "Guerra Mondiale Africana". Siamo in una terra che per ricchezza del sottosuolo veniva definita uno scandalo geologico. In virtù della nostra necessità di attingere a quelle preziose risorse, utili per le nostre economia, abbiamo tollerato tutto. Oltre 5 milioni di morti a partire dal 1994 - quando a complicare una situazione già ai limiti - si riversano nell'area milioni di profughi provenienti dal Ruanda e dopo di loro i carnefici di quell'orrenda e ignobile pagina della storia.  in questa terra martoriata e dimenticata. Donne stuprate come arma di guerra da mostri umani, gli stessi che favoriscono quando non sono i diretti venditori la vendita di tutto quello di cui abbiamo bisogno. Nel Kivu si combatte senza sosta, a riflettori spenti.

Spenti per il mondo intero, per le telecamere e per le penne dei grandi media, non certamente per quali come Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci e Mustapha Milambo (nella foto), che non si sono voltati dall'altra parte e svolgevano, con grande impegno la loro opera in quei contesti, mettendo, come purtroppo è successo perfino la loro vita in gioco. 

Ancora una volta dobbiamo essere onesti. Quello che succede nel Kivu ha delle precise responsabilità e non può continuare a lasciare indifferenti. Del resto nel nostro Pianeta le situazioni di guerra franca, ignorate e dimenticate, crescono. Somalia, Siria, Libia, Yemen, Iraq, Congo e Afghanistan, tanto per citare quelle situazioni più note e conosciute, sono diventate, per differenti ragioni, croniche malattie del nostro mondo sempre più fragile e ingiusto.

Ancora una volta il sacrificio di questi uomini accenderà i riflettori sulle cause e sulle dinamiche si queste situazioni per poi lentamente, così come è sempre avvenuto, spegnersi per tornare in quell'oblio, molto comodo all'economia mondiale. 

I denari sporchi (insanguinati si chiamavano una volta) raccolti in questi luoghi alimentano quell'enorme traffico di illegalità che cresce nel Mondo e che sempre più chiaramente tende ad alimentare il caso, dove la legge del più forte e la paura dominano.