giovedì 29 maggio 2014

Congo e adozioni

In questi giorni i media raccontano della felice chiusura della vicenda che ha coinvolto 31 bambini della Repubblica Democratica del Congo, e 24 famiglie adottive italiane, che da mesi teneva in apprensione coloro i quali erano coinvolti in questa, triste, storia.
Non voglio accodarmi al modo con cui la stampa italiana affronta la vicenda. Dai sospetti sulla presenza, più propagandistico che altro, di un Ministro sull'aereo che ha portato "nella nuova casa" i bambini, alle speculazioni su come sono state svolte le trattative e agli aspetti umani, seppur importanti, della faccenda.

foto dalla rete di un orfanotrofio in Congo

Vorrei provare a pensarla in un altro modo. Nel 2013 in Italia sono stati adottati 2835 bambini, di 56 diverse nazioni, da 2291 famiglie, che mediamente dopo 4 anni e 25.000 euro di spese hanno coronato il loro sogno. I numeri dicono che per una coppia che riesce ad ottenere l'adozione, ve ne sono quattro che non ce la fanno (ma tempo e denaro non vengono restituiti).

Premetto che la questione, in generale, dell'adozione è delicata. Da una parte una coppia che non ha figli e non può averli (esistono, ma sono piccoli numeri, coppia già con figli biologici). Una situazione delicata, che intacca livelli di esperienze e vissuti a volte drammatici e su cui sono state scritte fiumi di parole. Coppie spesso disposte a quasi tutto, e non per cattiveria, pur raggiungere l'obiettivo.
Dall'altra i bambini in adozione. Un mondo di cui pochi hanno percezione. Fatto quasi sempre di dolore, di morte, di violenze, di privazioni e di sfruttamento, prima, durante e dopo la nascita. Ogni storia è diversa e ognuno trasporta un carico di emozioni per molti inimmaginabili.
Tra queste due componenti, si interpongono tutti coloro i quali si occupano di adozioni. Gli stati (attraverso leggi, commissioni, tribunali e ogni altra cosa destinata a tutelare in primis i bambini), le associazioni di varia matrice che dall'Italia accolgono le richieste e o direttamente o attraverso altre organizzazioni, hanno, scusate la brutalità "la materia prima", ovvero i bambini da adottare. Alcune con un nobile e etico spirito di aiuto, altre con seri e elevati principi, altre ancora solo "un pò facilone" e altre ancora ambigue e tutt'altro che serie.
Nel mezzo un'insieme di personaggi e organismi, che mediano e spesso sfruttano, la dolorosa situazione. Faccendieri, funzionari corrotti, gestori di orfanotrofi che di fatto vendono e comprano merce umana, donne che vendono i propri figli (magari per permettere ad altri di vivere). Insomma un insieme di malaffare per un business stimato intorno ai 160 milioni di euro all'anno.

Fin qua la storia delle adozioni internazionali, che accanto a persone serie e competenti, vede un sottobosco ambiguo e pericoloso. 

Dobbiamo essere onesti, le adozioni internazionali "sono nate" dalla difficoltà di adottare (spesso a ragione) bambini nel proprio paese (spesso nell'ambiente si è detto che era più semplice "comprare un bambino" all'estero) e da una sempre minore disponibilità di bambini adottabili. Il mondo, è in particolare i paesi poveri, hanno, di contro, una disponibilità pressochè infinita.  

Nella Repubblica Democratica del Congo la situazione dei bambini è drammatica. Povertà infinita (a dispetto di un sottosuolo ricchissimo e dagli esperti definito "uno scandalo geologico"), guerre che si susseguono da decenni (sempre a causa delle risorse che vengono sfruttate da altri), stupri che sono divenuti armi di distruzione e volti ad annientare intere comunità  e governi e funzionari corrotti creano situazioni di abbandono e di sfruttamento, di illegalità e assenza di protezioni e di diritti, che colpiscono in modo principale i bambini. L'UNICEF stima in 4 milioni i bambini abbandonati.

foto dalla rete
E' in questo contesto che si inserisce la vicenda dei bambini congolesi giunti in Italia. Ancora una volta la nostra (intesa come Umanità) incapacità di affrontare le questioni alle origini assieme ad enormi interessi economici in gioco, ci portano a gioire, legittimamente, per 31 bambini, che cresceranno in Italia amati e coccolati, dimenticando le centinaia di migliaia che ogni giorno accrescono quella massa di disperati che oramai di umano hanno ben poco.
Soprattutto ignorando le cause e le responsabilità di questi disastri e senza interrogarsi sull'effetto che queste fortunate migrazioni avranno sulle comunità locali e sul futuro di interi villaggi.

Non intervenendo sulle ragioni di un numero così elevato di bambini abbandonati, appagheremo forse il bisogno di genitorialità di alcune coppie di nostri concittadini ma, lasceremo inalterato un mondo destinato prima o poi ad implodere.
Bisogna creare le condizioni perchè le donne vedove non debbano abbandonare i figli, perchè le donne non siano stuprate (si parla di 500 mila stupri all'anno) e costrette ad abbandonare i figli, frutto di quell'ignobile atto, per essere accettate nelle comunità, perchè la povertà non costringa ad abbandonare i figli o peggio a venderli. Questi sono i bambini che noi adottiamo.
Mi sarebbe piaciuto che si fosse parlato anche di questo, in questi giorni.

martedì 27 maggio 2014

Djenne, la città di fango

Djenne è un'antica città del Mali, distante circa 130 chilometri da Mopti, fondata nel 300 avanti Cristo nella piana alluvionale del fiume Bani, costruita interamente con mattoni di fango, da cui il nome. Considerata una delle più antiche città sub-sahariane, ebbe un'importanza strategica nella regione, divenendo presto un centro di commercio (soprattutto di oro e sale) e successivamente di cultura islamica, in particolare dopo lo spostamento del suo sito, pochi decenni dopo l'anno 1000. Nonostante la sua posizione non fu mai parte dell'Impero del Mali e solo nel 1453 cadde sotto l'Impero Songhai. Fu poi più volte conquistata e passò di mano in mano fino all'avvento dei francesi, giunti nel 1893, con cui iniziò il suo declino e perse via via di importanza.
Tra le straordinarie bellezze della città (il cui sito durante il periodo di piena del fiume diventa un'isola)  sono costituite da edifici di architettura islamica, tra cui vi è la Grande Moschea, che fu ricostruita nel 1907, sul precedente edificio, costruito nel 1200, e distrutto nel 1830.
La Moschea, capace di ospitare oltre 1000 pellegrini, è un'edificio a pianta quadrata di circa 75 metri, alta oltre 20 metri e sorretta da oltre 100 colonne. E' costruite con la tecnica tradizionale chiamata appunto djenne che usa palle di terra cruda ancora bagnata che funge allo stesso tempo da mattone e da legante. Ogni anno, dopo la stagione delle piogge, l'edificio necessita di una manutenzione atta a consolidare le pareti di fango. 
Con scavi effettuati a partire dal 1970 da archeologi americani, sono stati invece scoperti i resti dell'antica città.
Nel 1988 l'antica città di Djenne fu inserita dall'UNESCO nella lista dei Patrimoni dell'Umanità.

operazioni di manutenzione, foto dalla rete
Ancora oggi davanti alla moschea si svolge un mercato settimanale che attrae in città venditori e acquirenti di tutta la regione.

A seguito del golpe avvenuto in Mali il 22 marzo 2012 e delle successive evoluzioni, l'area del Mali ha subito una forte e distruttiva trasformazione, che hanno portato nel gennaio 2013 a temere per la distruzione del patrimonio culturale del Mali e in particolare a Timbuctu nell'area dell'Azawad. I siti patrimonio dell'Umanità di Timbuctu e della Tomba di Askia sono stati nel 2013 dichiarati siti in pericolo e per questo sottoposti a speciali tutele. Anche per il sito della città di Djenne era stato ipotizzata l'iscrizione tra i patrimoni in pericolo, ma poi l'UNESCO non diede seguito a tale ipotesi.

Vi segnalo il blog Djenne Djenno, scritto da Sophie, una svedese che gestisce un piccolo (e grazioso) hotel a Djenne e che commenta la situazione politica, e non solo, di quell'area del Mali in grande movimento.

Vai alla pagina di Sancara sui Patrimoni dell'Umanità in Africa.

giovedì 22 maggio 2014

Agostinho Neto (1922-1979), il poeta militante



Noi dell’Africa immensa al di là del tradimento degli uomini
attraverso  foreste maestose invincibili attraverso il fluire della vita
ansiosa vèemente copiosa nei fiumi ruggenti per il suono armonioso di marimbe in sordina
per gli sguardi gioventù delle folle folle di braccia di ansia di speranza
dell’Africa immensa sotto l’artiglio sanguinanti di dolore e speranza di amarezza e di forza
sanguinando sulla terra sventrata dal sangue delle zappe
sanguinando nel sudore del lavoro forzato del cotone
sanguinando fame ignoranza disperazione morte
nelle ferite sul dorso nero del bambino della madre dell’onestà

sanguinanti e germoglianti ....


Presidente Angola (1975-1979)
Poeta e politico

Antonio Agostinho Neto, è stato un poeta e successivamente un politico angolano. E' stato sicuramente l'uomo, che più di altri, ha guidato l'Angola all'indipendenza. Oggi è considerato un eroe nazionale in Angola. Nato il 17 settembre 1922 nella provincia di Bengo, figlio di un pastore metodista e insegnante e di una madre maestra elementare, studiò a Luanda. Durante il lavoro come volontario nel servizio sanitario viene a contatto con le dure e misere condizioni degli abitanti di Luanda e sicuramente questa esperienza, oltre a formarne la sua coscienza politica e poetica, lo indirizza a studiare Medicina prima a Coimbra e a Lisbona. Proprio a Lisbona venne a contatto con altri esponenti della lotta-anticoloniale attraverso la Casa dello Studente (incontra in particolare Amilcar Cabral, Mario Pinto de Andrade, Eduardo Mondlane e Marcelino Dos Santos, tanto per citarne alcuni). Per questo motivo fu arrestato la prima volta nel 1952 dalla polizia Pide e ancora nel 1955 quando oramai è diventato un leader studentesco. Resta in carcere oltre due anni e dove scrive poesie e ottiene la solidarietà degli intellettuali francesi (da Sartre a Aragon) Si laurea in medicina nel 1958 (secondo alcuni è stato il primo medico angolano).
Nel 1956 è tra i fondatori dell'MPLA (Movimento Popolare di Liberazione dell'Angola), di cui dal 1962 fu leader. 
L'8 giugno 1960 fu arrestato nuovamente e detenuto a Capo Verde, da dove fuggì recandosi in Marocco. Da lì all'odierna Kinshasa, dove diventa presidente dell'MPLA.
Neto, si reca nel 1962 negli Stati Uniti, dove cerca di trovare appoggio presso l'amministrazione Kennedy alla lotta contro i portoghesi, ma gli americani (già coinvolti nell'estrazione petrolifera in Angola) preferiscono appoggiare il movimento anti-comunista, l'FNLA di Roberto Holden (successivamente si legheranno per decenni l'UNITA, che nacque nel 1964 da una scissione guidata da Jonas Savimbi in seno al FNLA e che guidò la lunga guerra civile contro l'MPLA).
Solo nel 1965 Neto incontra prima Che Guevara e successivamente Fidel Castro, da cui ottiene aiuti e cooperazione, e con cui condivide idee e pensieri.


Nel 1973, durante un viaggio in Bulgaria, conosce Mihaela Marinova, da cui avrà una figlia. 

All'indipendenza dell'Angola (11 novembre 1975) Agostinho Neto divenne il Presidente della neonata repubblica di Angola, ma subito dovette affrontare una sanguinosa guerra civile che si protrarrà fino ai nostri giorni (2002).

Nel 1977 sfugge ad un attentato.

Il 10 settembre 1979 Agostinho Neto muore (non senza generare dei sospetti) a Mosca durante un intervento chirurgico per un cancro al pancreas. Aveva da poco compiuto 57 anni.

Le sue opera poetiche, che risalgono soprattutto al periodo 1948-1960, ovvero prima del forte impegno politico, sono state anche tradotte in italiano e pubblicate nel 2001, con il titolo Speranza Sacra dalle Edizioni Lavoro. Il suo lavoro sembra essere un continuo esortare il suo popolo a rivendicare diritti negati per secoli. 
Neto ha poi trasferito questa rivendicazione e questa carica di rivalsa sociale e antropologica nella sua attività politica che gli hanno permesso di guidare il popolo angolano all'indipendenza, nonostanze le interferenze esterne. Lo scoppio della guerra civile (e la sua morte) gli hanno poi impedito di trasformare le sue idee e il suo forte impegno in qualcosa di realmente utile per il suo popolo angolano. Alla sua morte gli successe l'ingegnere Josè Antonio Dos Santos, già Ministro degli Esteri, che ancora oggi guida il paese.

Per saperne di più:
- Il discorso di Neto il giorno dell'indipendenza dell'Angola (11 novembre 1975)
- Un'analisi del suo pensiero politico e poetico

Libri in italiano:
- Speranza Sacra, Edizioni Lavoro, 2001
- Africana, Feltrinelli, 1999
- Agostinho Neto: una vita senza tregua 1922-1979, Tuga Edizioni, 2015

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martedì 20 maggio 2014

Libia: ritorno al passato

Siamo onesti, la partita che oggi si gioca in Libia è quella del controllo delle grandi riserve petrolifere del Paese. La Libia, stando agli esperti, detiene la più grande riserva di petrolio provata dell'Africa (circa 49 miliardi di barili) e al tempo stesso la meno sfruttata. Decenni di embargo al regine di Gheddafi hanno reso la partita del petrolio strategica per l'economia mondiale. La possibilità di sfruttare le risorse petrolifere è nelle mani delle grandi multinazionali del petrolio: quelle americane, quelle europee e quelle cinesi, le uniche capaci di farlo.
Da quale governo controllerà il paese dipende chi sfrutterà quelle risorse.

Certo all'interno si inseriscono vecchi rancori, vecchie lotte tra clan e come sempre, quando vi è da nascondere qualcosa, il pericolo dell'estremismo islamico.

Gli americani (meglio le lobby del petrolio nord-americane) cercano di accreditarsi al controllo delle risorse attraverso un ambiguo personaggio, quel Khalifa Haftar, che dopo averci provato nel febbraio scorso, in questi giorni tiene sotto scacco l'incerto governo libico, con l'operazione denominata "Dignità".

Haftar era un militare (oggi un generale) che assieme a Gheddafi partecipò al colpo di stato del 1969 e in tale veste guidò, a partire dal 1978, le truppe libiche nella guerra contro il Ciad. Venne catturato e fu "ufficialmente" dimesso da Gheddafi. Fu in seguito "liberato" da una misteriosa operazione condotta dagli Stati Uniti, che lo portarono prima in Ciad e poi in Zaire, a guidare un gruppo di opposizione al rais libico. Dopo qualche anno volò verso gli Stati Uniti dove restò, apparentemente in esilio (in realtà secondo molti al servizio della CIA), fino al 2011. Nel marzo 2011, rientrò per dare man forte alla Rivoluzione contro Gheddafi e da allora ha avuto il compito di riorganizzare l'esercito (in realtà un esercito parallelo) ed essere pronto a prendere il potere.

Oggi Haftar guida la forza militare più armata del paese (sono stati i suoi uomini, con carri armati, ad assediare il Parlamento) e il loro intento dichiarato è quello di fermare "le milizie islamiche". Ed è per questa ragione che molti, Stati Uniti in testa, chiedono all'Occidente (e all'Europa in particolare) di schierarsi apertamente con lui per bloccare "l'avanzata islamica". E' da sottolineare che in Libia erano previste elezioni anticipate per il 15 agosto (Haftar ha chiesto di sospendere il processo elettorale).

Naturalmente in gioco vi sono molte questioni, alcune delle quali erano ampiamente prevedibili dopo che nel 2011 i paesi occidentali (Francie e Gran Bretagna in testa) contribuirono, militarmente, alla caduta di Gheddafi, salvo poi abbandonare (una volta ripristinate le estrazioni di gas e petrolio e il loro invio verso l'Europa) la Libia al suo destino.

In gioco, oltre alle risorse, vi è l'estremismo islamico, talora sventolato come spauracchio per convincere gli indecisi ad intervenire, vi è il dramma dell'immigrazione (la stragrande maggioranza di disperati provengono dalle coste libiche) anch'essa usata come "arma di convincimento" verso i più restii, vi sono gli interessi e le ingerenze dei paesi confinanti (Egitto e Tunisia, in particolare) e infine le lotte di potere (fuori da qualsiasi logica religiosa) che da sempre (anche in era Gheddafi) hanno caratterizzato la geografica della Libia.

In questo quadro, nel caos che regna sovrano, è evidente che, senza un intervento chiaro delle Nazioni Unite (ma saranno poi capaci?) la guerra civile libica è destinata a protrarsi nel tempo, oppure a richiedere un intervento unilaterale nella nuova guerra al terrorismo americana e favorire così le multinazionali del petrolio americane.

Gli americani, intanto, scaldano i motori.

lunedì 19 maggio 2014

Popoli d'Africa: Toposa

I Toposa (o Akara) sono un gruppo etnico, di circa 800 mila unità,  che vivono nella regione di Greater Kapoeta, lungo il fiume Loyooro, nel Sud Sudan. Secondo gli storici provengono dall'Abissinia e sono passati, nella loro migrazione per il nord dell'Uganda, per giungere verso l'inizio nel 1800 nell'attuale area.
Tradizionalmente i Toposa sono degli allevatori nomadi di bovini, capre, pecore, cammelli e asini da cui ricavano latte, sangue e cuoio, ma nel passato furono coinvolti anche nel commercio dell'avorio. Oggi sono anche cercatori di oro.  Solo le donne si dedicano all'agricoltura coltivando principalmente sorgo. Negli ultimi tempi sono soggetti ad una lenta, ma continua, modernizzazione che li stanno allontanando dalle loro tradizioni.
Parlano una lingua del ceppo nilotico molto simile alla lingua parlata dai Turkana a cui si legano per alcuni modi di vivere, ma con cui sono in continui scontri armati.
Contrariamente ad altri gruppi etnici non hanno una chiara organizzazione sociale e politica, ma un grande rispetto per gli anziani e per i capi villaggio. Molte decisioni vengono raggiunte da assemblee di soli uomini. Anche i loro credo religiosi sono essenziali. Credono in un essere supremo (chiamato Nakwuge) e in degli degli antenati a cui far riferimento o affidarsi ad ogni evenienza della vita. Le loro tradizioni si tramandano per via orale attraverso danze, musiche e canzoni. Alcuni di essi si sono convertiti recentemente al cattolicesimo.

I Toposa hanno un grande rispetto per i figli, per cui non esistono nella loro struttura sociale bambini orfani. Infatti, in assenza del padre, il figlio viene adottato dai vicini, così come i figli delle "ragazze-madri".

Sono poligamici e utilizzano molto, ai fini estetici, la scarificazione.

Dopo essere stati a malapena sfiorati dal primo conflitto sudanese, durante la seconda guerra sudanese (quella che dal 1983 giunse fino agli accordi di pace del 2005) i Toposa ebbero un approccio molto pragmatico con le alleanze. Dopo essere stati oggetto di attacco da parte dei ribelli dello SPLA, furono poi con loro contro il governo sudanese. Di contro, le forze armate del Sudan, a volte sfruttando la storica rivalità con i Dinka, tentarono, a volte con successo, di allearsi con i Toposa. Negli anni '90 i Toposa furono armati da entrambe le parti in conflitto.

Oggi i Toposa sono abbastanza marginalizzati nel nuovo paese (Sud Sudan), vivono in aree semi-desertiche e aride, isolati, e lontani dalle decisioni politiche.

Ecco un approfondimento, con alcune stupende immagini, dal blog Trip Down Memory Lane

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giovedì 15 maggio 2014

Linea dura con i terroristi in Nigeria

Stamane, in maniera del tutto fortuita, ho avuto modo di ascoltare e interloquire con il Ministro degli Interni della Nigeria, Abba Moro, in visita a Venezia (e a Treviso), ospitato dall'organizzazione umanitaria I Care di Treviso.
Moro, sconosciuto ai più fino a due giorni fa quando, a nome del governo della Nigeria, ha rifiutato di negoziare con i terroristi dell'organizzazione Boko Haram, che ancora detiene le oltre 200 ragazze rapite oramai un mese fa.

Il Ministro Moro, a Venezia nell'ufficio del Vicesindaco Simionato

Moro ha confermato che la decisione del governo è quella di non trattare con i terroristi. Dopo aver dato ordini all'esercito di "scovare le ragazze e di fare cessare le attività di Boko Haram" il ministro conferma che uomini dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dal Kenya sono già sul campo per assistere il governo e l'esercito nella caccia a Boko Haram.

Egli ricostruisce la storia di Boko Haram in questo modo. "All'inizio pensavamo fossero un gruppo di "ragazzacci" fanatici islamici, che colpivano nelle città con piccole azioni. Li abbiamo relegati fuori dai centri urbani e spinti verso il nord. Poi, hanno iniziato a ricevere aiuti dall'esterno, si sono armati e hanno cominciato a colpire con più insistenza e a spot. Questa volta, colpendo le ragazze, hanno superato il segno". 

Una ricostruzione forse semplice, ma non del tutto inverosimile.

Il ministro tiene però a precisare che la stampa occidentale esagera con le "brutte notizie" dalla Nigeria che resta un paese sicuro, e dove gli investitori privati sono benvenuti, certo dove è presente del terrorismo. Del resto, conclude il Ministro, "anche da voi è stato ucciso mio fratello" (un gioco di sul suo cognome e quello di Aldo Moro).

A margine il Ministro ha anche affermato che sono state semplificate le procedure di visto per l'entrata in Nigeria. Oggi è possibile ottenere il visto in aeroporto e nei porti.

Moro stanco dal viaggio, si è presentato con grande semplicità. Saluti, strette di mano, un cappello che non si è mai tolto. Accompagnato da un'assistente e da una traduttrice (in realtà una nigeriana che da tempo vive nel Veneto). Informale quando ha chiesto un bicchiere di vino, ma allo stesso tempo pungente e fermo con lo sguardo mentre parlava con i sue due connazionali. 

Il ministro sarà nel Veneto fino a martedì.


venerdì 9 maggio 2014

Cefalofo di Jentink, a dieci anni dall'estinzione

Il gidi-gidi, il nome krio con cui è più noto il Cefalofo di Jentink (Cephalophus jentinki), è un animale raro (si stimano esistano oramai solo 2000 esemplari), che vive nelle fitte foreste primarie dell'Africa Occidentale (in particolare in Sierra Leone, Liberia e Costa d'Avorio), ritenuto dagli esperti dell'IUCN (l'organismo mondiale che si occupa di conservazione animale) come un animale in pericolo di estinzione.
Fino al 2008 era stata ritenuta una specie vulnerabile, ma il rapido declino del numero degli esemplari, dovuto essenzialmente alla perdita di habitat e alla caccia ai fini alimentari, fa oggi ritenere la possibile estinzione della specie nei prossimi 10-12 anni.

I Cefalofi, sono delle piccole antilopi africane (secondo alcuni studiosi le più primitivi) appartenenti alla sottofamiglia dei Bovini chiamata Cefalofini, che hanno circa 18 specie divise in 3 generi.

questo è il suo areale
Tra le loro caratteristiche vi è quella di vivere in solitaria (a volte a coppie) e di essere estremamente riservati, muovendosi soprattutto di notte, rimanendo in ambienti impenetrabili e vivendo di frutti, bacche e radici. In particolare il Cefalofo di Jentink, la cui colorazione lo rende caratteristico, per quasi 50 anni non è stato avvistato.

Il loro ambiente - foresta primaria impenetrabile - è oramai affidato ai parchi naturali, ed in particolare il Parco nazionale Tai e il Parco nazionale Sapo.

Scheda Lista Rossa IUCN
Alcune foto dal sito Arkive
Ecco una scheda dettagliata dal sito Ultimateungulate.com

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lunedì 5 maggio 2014

Bring Back Our Girls

Con questo slogan, Bring Back Our Girls, le madri (e i padri) delle circa 300 ragazze rapite in Nigeria da settimane protestano, chiedendo l'intervento del governo e della comunità internazionale. La notte tra il 14 e il 15 aprile, un gruppo armato, vestiti dal militari dell'esercito regolare, sequestra un numero imprecisato di ragazze, tra i 15 e 18 anni, dal dormitorio scolastico della città di Chibok. Le caricano su di un camion e partono. Alcune ragazze durante una sosta riescono a fuggire.
foto dalla rete
Indiziati sono il gruppo estremista islamico di Boko Haram (letteralmente "l'educazione occidentale è falsa"), che dal 2010 (sebbene è nato tra il 2001 e il 2002) contribuisce, con attentati e violenze, a fomentare l'odio tra gruppi religiosi ed etnici in Nigeria.
L'ipotesi più probabile è che le ragazze siano state "sequestrate" per essere usate a modi schiave (sessuali e non) dagli stessi guerriglieri. Altre ipotesi vanno dalla vendita ai fini matrimoniali al di fuori della Nigeria fino alla tratta della prostituzione verso l'Europa.

Le accuse dei parenti vanno al governo Nigeriano, che ha prima dato per risolto il caso, poi ha ammesso che alcune ragazze erano ancora nelle mani di Boko Haram, fino all'ammissione di non sapere dove rintracciare, pare 234, ragazze.

I fatti, come spesso accade in Africa, sono coperti da mistero e non sempre raccontati correttamente. Si parla di cifre (pochi euro) per cui sono state vendute le ragazze oppure di scelta degli estremisti di colpire le studentesse per rafforzare il loro credo per cui le donne "sono esseri inferiori" che devono essere a disposizione degli uomini e non studiare.

Non sarebbe la prima volta che gruppi di guerriglieri, di qualsiasi colore o credo, rapiscono donne per farne oggetto dei loro appetiti sessuali. La storia, fin dall'antichità, è piena di questi ignobili gesti, giustificati dalla vita in continuo spostamento e in fuga degli uomini di guerra. In Africa i racconti in Sierra Leone, in Uganda, in Liberia come in Angola o nell'ex-Zaire, sono intrisi del sangue versato da giovani donne.


E' di oggi la notizia che la giovane attivista pakistana Malala, presa di mira dai talebani, diventata il simbolo della lotta delle donne e delle bambine islamiche e candidata a Premio Nobel per la Pace lo scorso anno, ha lanciato una campagna di sensibilizzazione su Twitter chiamata appunto "BrigBackOurGirls".

Una sensibilizzazione necessaria per stimolare le autorità della Nigeria a non interrompere le ricerche e a non lasciare nulla di intentato perchè le giovani possano riabbracciare i loro cari. Una sensibilizzazione che deve coinvolgere tutti noi, perchè episodi di questo tipo non siano nè tollerati nè sottovalutati mai, e ovunque.