venerdì 30 agosto 2013

Libri: L'ibisco viola

L'ibisco viola è l'opera prima della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngonzi Adichie (di cui Sancara ha già recensito il suo secondo romanzo, Metà del sole giallo). Pubblicato in Nigeria nel 2003, è stato tradotto e pubblicato nel 2006 dalla collana Fusi Orari della rivista Internazionale. Nel 2012, dopo il successo di Metà del sole giallo è stato pubblicato da Einaudi.

Il libro è di quelli che lasciano il segno. Scritto con grande passione e "colore", è un viaggio nella Nigeria, nella religione, nella famiglia, nell'amore e nell'odio. Insomma un percorso, a volte spensierato e   profumato, e altre volte violento e angoscioso nell'animo umano. 

Ambientato nelle città di Enugu, dove vive la protagonista del libro, l'adolescente Kambili (nel suo percorso è affiancata dal fratello Jaja) e di Nsukka, dove abita la zia, il testo si sviluppa all'interno della famiglia allargata (benestante e colta) di un editore indipendente e fanatico cattolico, che si trova a vivere i difficili momenti dopo un colpo di stato. Da una parte la figura di un padre, Eugene, intellettuale e attivista, che diventa violento in famiglia a causa di un fanatismo religioso eccessivo e dall'altro la società civile nigeriana in forte evoluzione e ricca di contraddizioni.

Un romanzo a tratti forte, che lascia sempre delle strade aperte a diverse possibili soluzioni, in cui il lettore non può che identificarsi in un'atmosfera a volte intensa di emozioni e bellezze, altre volte cupa e malinconica.

E' anche un racconto sulle trasformazioni che una società fortemente tradizionalista ha subito (forse inconsapevolmente) a causa del colonialismo e delle ingerenze (forti) di un'evangelizzazione forzata. Una lotta tra cattolicesimo e tradizione, tra amore e odio nel mentre della trasformazione di una società allo sbando e delle scoperte adolescenziali.

Adichie nei suoi libri dimostra una grande capacità narrativa, che l'hanno fatta emergere come una dei talenti della letteratura nigeriana e africana.


Per la cronaca il colpo di stato, di cui nel testo non si fa mai cenno a nomi e fatti storici specifici (con un'unica eccezione sulla morte del dittatore) è quello avvenuto nel 1993 a opera di Sani Abacha (che morirà nel 1998, in circostanze analoghe a quelle raccontate dal libro).

Chimamanda Ngozi Adichie, di etnia igbo, nata a Abba (Nigeria) nel 1977 ha pubblicato:

- For Love of Biafra (1998, non tradotto)
- L'ibisco viola (2003, Fusi Orari e Einaudi)
- Metà del sole giallo (2006, Einaudi)
- The Thing Around your Neck (2009, non ancora tradotto, storie brevi)
- Americanah (2013, non ancora tradotto)

(ecco il suo sito ufficiale)

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lunedì 19 agosto 2013

La guerra civile egiziana

foto da La Repubblica
I presupposti purtroppo ci sono tutti. In Egitto, a partire dal 14 agosto, è in corso una guerra civile, sanguinosa, i cui sviluppi sono, per ora, ancora densi di incognite e ricchi di interrogativi.
Una rapida occhiata alla storia ed è facile trovare simili situazioni che rapidamente hanno condotto paesi, prima solidi e sotto alcuni aspetti "inattaccabili", in teatri di guerra dove violenza e devastazione hanno trasformato, per sempre, l'esistenza di milioni di individui.

Gli storici e gli osservatori, nonchè i protagonisti, dibatteranno a lungo su come un paese come il Libano, un tempo la "Svizzera del Medio-Oriente", si sia trasformato in pochi giorni in uno dei luogo infrequentabili del pianeta. O su come la Liberia, patria degli schiavi liberati, sia sprofondata in pochi mesi nella più assoluta follia, o su come la Somalia,  luogo di antica civiltà, sia diventato un paese dove, a distanza di oltre 20 anni, non esiste un governo degno di questo nome.
Ma la lista potrebbe proseguire a lungo: la Repubblica Democratica del Congo, il Ruanda, l'Afghanistan, la ex-Jugoslavia, la Siria e la Libia, tanto per citare solo alcune delle guerre civili che hanno devastato (e devastano) il nostro pianeta.

Certo, situazioni apparentemente ben diverse tra loro. 

Gli ingredienti (e quindi le analogie) in Egitto ci sono tutti. Una lunga storia di dittatura (più o meno morbida), dove le opposizioni erano represse e contenute, una manifesta insofferenza delle giovani generazioni, un esercito forte (molto), l'assenza di strutture democratiche e costituzionali solide, un recente colpo di stato, la presenza di gruppi politici estremisti, diversità religiose che spesso sono sfociate in scontri, una struttura economica basata su poche ma grandi poste (turismo e canale di Suez) e una collocazione in un'area geopolitica in grande fermento.

Quello che si legge in questi giorni sui media italiani porta a concludere (come spesso accade in quelle aree geografiche) che si tratti di un tentativo dell'estremismo islamico di trasformare il paese in un "antico califfato", mentre l'esercito, acclamato dal popolo, tenta una difesa estrema.

Ma è proprio così?

Mettiamo alcuni paletti, senza la pretesa di fare un'analisi approfondita, ne tantomeno di essere capaci di rendere chiaro tutto. Con una doverosa premessa: fino a prima del 2011 nessuno (dico nessuno) degli analisti pensava che nel Nord-Africa potesse avvenire quello che impropriamente è stata definita "la primavera araba".

- in Egitto vi è stato, il 3 luglio scorso (2013) un colpo di stato, condotto dall'esercito contro un Presidente legittimamente eletto;

- l'esercito che oggi, secondo molti, tenta di evitare la deriva islamista, è lo stesso che dal 1952 guida l'Egitto, che ha di fatto guidato la transizione dopo la cacciata del "suo" Mubarak, che ha fatto parte del governo dei Fratelli Mussulmani e che detiene la maggioranza del potere economico del Paese;

- i Fratelli Mussulmani, organizzazione politica-religiosa (prima o poi qualcuno impererà che nell'islam la distinzione tra le due cose è praticamente inesistente) nata nel 1929 in chiave anti-coloniale, repressa per molti anni, ha vinto le elezioni (le prime democratiche) del 2012;

- sicuramente l'anno di governo "dei Fratelli Mussulmani" non ha portato in termini di economia e "di vita reale" i benefici (forse impossibili) che molti si aspettavano;

- la società civile egiziana è lacerata e spaccata. Non tutti i mussulmani stanno contro l'esercito e non tutti i laici sono con l'esercito. Molti dei protagonisti della cacciata di Mubarak nel 2011 sono oggi a fianco dell'esercito e della polizia che allora li colpirono pesantemente (vicino al migliaio i morti del 2011). Non dimentichiamo (se ne parla poco) che esiste anche "una terza piazza", composta da quelli che non stanno con l'esercito e nemmeno con i Fratelli Mussulmani;

- le dimissioni (da vice-presidente provvisorio) di un uomo carismatico come El Baradei (da noi liquidate con troppa semplicità) all'inizio della repressione dell'esercito, deve far riflettere, molto;

- le reazioni (timide) internazionali devono indurci a pensare che nello scacchiere egiziano (purtroppo per gli egiziani) si giocano partite più importanti e sicuramente meno nobili;

- le campagne di informazione "taroccate" sono già partite, diffidate da chi ha capito tutto.

Quel che è certo, e che le violenze partite dal 14 agosto, hanno già disseminato odio e vendette (le guerre civili si sviluppano proprio da questi sentimenti). Nessuno è più sicuro e forse non lo sarà per molto. La repressione contro i Fratelli Mussulmani ha già fatto scattare la solidarietà del mondo arabo (di contro il generale Al Sisi, che guida l'esercito, è elogiato in Israele) e sicuramente (purtroppo) scatenerà i gruppi estremisti islamici di tutto il mondo.

Il timore (che sempre più rasenta l'alta probabilità) di una guerra civile egiziana lunga, rischia di far precipitare non solo l'Egitto (l'economia del turismo, in piena stagione, è ferma), in un baratro ancora più profondo.

Vi lascio questa emozionante testimonianza della blogger Yasmine nel suo "Diario della Rivoluzione Egiziana", leggetelo, e soprattutto seguite il suo Blog e altre "fonti diverse", perchè la verità non è proprio come ve la raccontano.

mercoledì 14 agosto 2013

Riserva della Biosfera di Luki

foto dalla rete
Luki è una Riserva della Biosfera del bacino del Congo nel sud-ovest della Repubblica Democratica del Congo. Estesa per 33 mila ettari, dista 400 chilometri da Kinshasa, circa 120 chilometri dall'Oceano Atlantico e solo 20 chilometri dalla città di Boma. Si tratta di un'area di foresta pluviale (lungo il fiume Luki, un affluente del Congo), posta tra i 150 e i 500 metri di altitudine, dove si alternano habitat anche molti differenti tra di loro. Oggi è una delle due aree di foresta primaria rimaste nel bacino del Congo.
Nel 1976 la Riserva (che già era un'area "riservata", ai fini dello sfruttamento delle risorse, durante l'epoca coloniale, intorno al 1937) è stata inserita dall'UNESCO tra le Riserve della Biosfera.
Nell'area vivono circa 7000 persone (mentre nelle immediate vicinanze i residenti superano i 100 mila). All'interno della riserva si pratica agricoltura (si coltiva ad esempio la banana, caffè, cacao) e agroforesteria, mentre restano alti i pericoli di disboscamento dovuto al commercio illegale del legname.
La riserva vede il coinvolgimento nella gestione e nella conservazione del WWF a partire dal 2004, il quale conduce anche programma di agrari soprattutto a favore delle donne. Si ha la consapevolezza che senza un radicale cambio nel quotidiano uso del territorio e delle risorse la foresta è destinata a sparire nell'arco di una generazione. Il valore della riserva non è tanto nella sua grandezza, ma nell'isolamento che ha mantenuto nel corso dei secoli.
Secondo le definizioni dell'UNESCO il core area (riserva integrale) di Luki è di 6800 ettari, il buffer area è di 5200 ettari, mentre la transition area (dove sono previsti insediamenti umani ed economici) è di 20900 ettari.

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martedì 13 agosto 2013

Libri: Un giorno sarai grande

Un giorno sarai grande, autobiografia del Presidente della Liberia e Premio Nobel Per la Pace Ellen Johnson Sirleaf, è sicuramente uno straordinario libro, che permette di conosce, da dentro, la storia della Liberia dell'ultimo secolo. Il libro, scritto nel 2009 è stato pubblicato in Italia solo nel 2012 da Add Editore, ovvero dopo che nel 2011 gli è stato assegnato, assieme a Tawakkul Karman e Leymah Gbowee, il Premio Nobel per la Pace, "per la loro battaglia a favore dei diritti delle donne".

Sarebbe forse più corretto dire che il libro racconta "una" storia della Liberia. La storia vista da una donna senz'altro battagliera, che nonostante le grandi difficoltà che ha dovuto affrontare, ha fatto parte (e fa parte) dell'elite del paese. Quell'elite che, pur provendendo da generazioni di umili origini (indigeni), ha di fatto sostituito la storica elite dei coloni che da sempre aveva governato il paese.
Figlia di un avvocato e deputato della Camera durante la presidenza di William Tubman (1944-1971), la vita di Ellen è stata un susseguirsi di grandi difficoltà e grandi successi. Capace di "rimanere a galla", prima durante l'adolescenza a seguito della malattia del padre e il declino economico della famiglia, poi passando una burrascosa vita familiare con quattro figli e un matrimonio violento, poi durante la presidenza di William Tolbert (1971-1980), poi durante gli anni della dittatura di Samuel Doe (1980-1990), poi la guerra civile (1990-1997) e infine attraverso i bui anni del criminale Charles Taylor (1993-2003).
L'elemento sorprendente della autobiografia della signora Sirleaf è proprio questo: aver contato nel paese, aver avuto strette relazioni con dittatori e signori della guerra, senza subire gravi consequenze (molti dei ministri e dei collaboratori di Tolbet, di cui Ellen faceva parte, ad esempio furono fucilati in spiaggia dagli uomini di Doe) fatto salvo un breve periodo di detenzione.
Certo più volte ha dovuto lasciare il paese, grazie ad una rete di protezione che si era costruita nei sui anni di studio prima, e di lavoro poi, in America. 

Resta un libro da leggere, come un romanzo. Triste perchè ripercorre la storia di un paese tormentato, depredato prima da multinazionali aggressive ( Firestone prima, la Liberian Mining Company e poi la Oriental Timber Company), poi da politici corrotti (che ha generato la nasciat del più grande registro navale del mondo dove battere "bandiere di comodo") e infine da spietati criminali (Doe e Taylor in testa) protetti dai potenti della terra, Stati Uniti in testa.
Il libro della Sirleaf offre molti spunti sulla storia più in generale dell'Africa. Le poche pagine sul genocidio del Ruanda sono un macigno (la Sirleaf fece parte di uno dei primi gruppi di stranieri che entrarono nel Paese e che poi stilò un rapporto) per le accuse alla Comunità internazionale che non ha voluto vedere, agli Stati Uniti e a Kofi Annan ("porterà per sempre una cicatrice grande e profonda").

Scritto bene e raccontato bene, il libro lascia un unico dubbio. Questo continuo sopravvivere a tutto, segno di una "certa adattabilità" o di un fare da "politico navigato", che forse poco si adatta a chi vuole veramente cambiare un paese così martoriato. Resta il fatto che "Mama Ellen" come la chiamano i Liberiani, ha ancora molti consensi in patria e molti appoggi nel mondo.

Dal 2006 (a seguito delle elezioni del novembre 2005 e della rielezione nel 2011) la signora Ellen Johnson Sirleaf guida la Liberia (in un continente dove alle donne è lasciato veramente poco spazio) e gode del pieno appoggio dell'ammistrazione americana e della Banca Mondiale (avevo scritto un post proprio in occasione del'annuncio del Nobel per la Pace a pochi giorni dalle elezioni in Liberia).

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lunedì 12 agosto 2013

Campi profughi

Le crisi umanitarie si susseguono nel nostro pianeta con un ritmo impressionante. Non passa anno che in una o più zone del mondo non si scateni una situazione tale da indurre popolazioni intere ad abbandonare le loro case, le loro terre e i loro affetti e fuggire, lontano.
Oggi Siria, Centrafrica, Repubblica Democratica del Congo, Mali, Libia e Tunisia ieri Afghanistan, Azeibaijan, Etiopia, Costa d'Avorio, Bosnia, Georgia, Somalia, Iraq, Libano, Burundi, Ruanda, Liberia e Sierra Leone e prima ancora Cambogia, Angola, Vietnam, Sahara Occidentale, Colombia, Kosovo, Palestina  e Yemen. Insomma le crisi sembrano non finire mai e, una volta iniziate, raramente si concludono.

foto dal sito Aliceforchildren
Ne sanno qualcosa i quasi 200 mila Saharawi che vivono nei campi profughi di Tindourf in Algeria dagli anni '70, oppure i 4 milioni di rifugiati interni della Colombia, o gli oltre un milione e mezzo di afgani che vivono in Pakistan o il popolo palestinese profugo da generazioni.

L'ultimo rapporto dell'UNHCR (l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) parla chiaro. Sono oltre 38,5 milioni i rifugiati del pianeta e negli ultimi 10 anni sono aumentati.

Un esercito di disperati che vivono lontano dalla propria casa, in campi allestiti dalle Nazioni Unite o dalle ONG, completamente assistiti (e spesso questo crea una situazione migliore che per molti villaggi non troppo distanti) senza talora nessuna speranza di poter rientrare nelle loro case. Sono quasi 18 milioni di rifugiati interni (cioè che vivono lontano da casa, ma all'interno del proprio paese) e 10,5 milioni quelli che invece vivono in un altro paese.

Numeri impressionanti, che debbono far inorridire tutti noi. Scorrendo l'elenco dei paesi con maggior numero di rifugiati scopriamo come veramente le crisi non si chiudono mai. Al primo posto l'Afghanistan con 2,5 milioni di rifugiati che, oramai da decenni, vivono lontano (1,6 milioni in Pakistan), poi la Somalia con 1,1 milioni (un paese che da venti anni non ha un governo e vive dimenticato da tutti), oltre 750 mila dall' Iraq, altri 570 mila nel Sudan e 500 mila dalla Repubblica Democratica del Congo.

foto dalla rete
Sono invece quasi 4 milioni i colombiani che vivono, pur all'interno del paese lontano da casa a causa delle storiche lotte tra i guerriglieri delle FARC e l'esercito governativo (naturalmente in tutti questi anni il commercio della cocaina ha arricchito tutti, tranne chi è scappato), oltre 2,5 milioni i congolesi sfuggiti dalle guerre nelle regione del Kivu e dislocati altrove nel paese. Oltre 2 milioni di Siriani hanno recentemente lasciato la loro casa, così come quasi 2 milioni di Sudanesi, 1,3 milioni di Iracheni e 1,1 milioni di Somali.

Molti di loro non hanno avuto nemmeno il tempo di raccogliere le proprie cose, altri hanno lasciato alle spalle famiglie decimante, altri ancora hanno subito violenze inaudite e altri ancora hanno fatto cose atroci. E' un'umanità che pochi conoscono, perchè è meglio non parlarne. Ne sanno qualcosa i volontari che quotidianamente operano nei campi profughi.

A Dadaab in Kenya, a Yarmouk in Siria, a Tindourf in Algeria, a Kobe in Etiopia a Gihente nella Repubblica Democratica del Congo, a Zaatari in Giordania la vita è completamente assistita. Le violenze e i suprusi non si contano.
Bambini che nascono, crescono e spesso muoiono in questi luoghi che, nonostante tutto, sono sempre provvisori. La speranza un giorno di rientrare nella propria casa, passa solo con la morte.

La questione vera è che spesso, anche una volta risolta la crisi, raramente si creano le condizioni per un rientro in patria. Vi è sempre qualcosa o qualcuno che lo impedisce. Ancora più drammatico è pensare che nella maggior parte dei casi le crisi si sarebbero potute evitare e che spesso i paesi che gestisco il "dopo" sono anche quelli che hanno avuto grandi responsabilità nel "prima".

Ecco perchè la polemica (su cui anche Sancara era intervenuto) relativa alla realizzazione di un reality show, "The Mission", che la Rai, in collaborazione con l'ONG Intersos e la UNHCR, sta preparando per l'autunno, è divampata in modo forte in questi ultimi giorni (si possono seguire tutti gli interventi sulla pagina Facebook di African Voices).

Un conto è la gestione quotidiana della difficile vita nei campi (di cui UNCHR e ONG, sono esperti assolutamente insostituibili) un'altra è la possibilità di intevenire sulle cause delle crisi, sulla loro prevenzione e sulla tempistica della chiusura delle crisi medesime. Senza una precisa e corretta informazione (talora fortemente critica verso la comunità internazionale) vi è il pericolo di far passare il concetto che le crisi umanitarie sono inevitabili e che l'unico modo per intervenire (mettendo in pace anche la propria coscienza) sia quella della raccolta fondi (non fraintendete, cosa sicuramente utile per queste emergenze).
Questo tipo di televisione, con la presenza di qualche personaggio famoso e un gruppo di una ventina tra tecnici, operatori e cameraman, condita anche da qualche modo poco corretto di ottenere i permessi alle riprese,rischia di far peggio.

Bisogna rompere il silenzio, raccontare le cose come stanno, mettere alle strette chi poteva intervenire (e ancora può farlo) preferendo invece restare a guardare, avere il coraggio di denunciare i colpevoli (perchè sempre le crisi hanno nomi, cognomi e cause ben precise e non sono una cosa da accettare con rassegnazione) anche quando hanno la giacca e cravatta, affermando il principio che campi profughi sono emergenze e non soluzioni per la vita.


Ecco l'ultimo report dell'UNHCR - Global Trends 2012

lunedì 5 agosto 2013

Lo spettacolo dei rifugiati

campo in Uganda, foto dalla rete
Da tempo, nel mondo degli addetti ai lavori, è nata una forte polemica,  in relazione all'annunciato nuovo reality show, prodotto da Rai Uno, in collaborazione con l'Alto Commissariato della Nazioni Unite sui Rifugiati (UNHCR) e l'organizzazione non governativa Intersos, chiamato "The Mission". Stando alle notizie, il reality (la cui prima puntata andrà in onda il 27 novembre prossimo) porterà una coppia di VIP (si parla di Al Bano, Filippo Magnini, Elisabetta Canalis) a lavorare, fianco a fianco, con i volontari nei campi profughi del mondo (Sudan, Congo, Giordania e Libano, questi sono i siti di cui si è parlato).

La polemica è subito scattata perchè il mondo della cooperazione e del volontariato è fortemente contrario a questa inutile spettacolarizzazione della povertà. Di contro, UNHCR e Intersos assicurano che gli operatori vigileranno sul rispetto della sofferenza e delle storie personali dei rifugiati e che lo scopo del reality è quello di far conoscere queste situazioni che il pubblico medio italiano ignora.

foto dalla rete
Ora, appare evidente che se la maggior parte degli italiani ignora perfino l'esistenza dei campi profughi (alcuni in essere da oltre 30 anni), dove si stima vi siano oltre 30 milioni di esseri umani, la colpa è di chi avrebbe il compito di informare e non lo fa.
Se solo il 4% dei servizi giornalistici della RAI (ma vale anche per le altre emittenti) si occupa di questi temi, la colpa non è certo degli ultimi tra gli ultimi che non vogliono farsi riprendere.

Pensare che gli stessi che per decenni hanno trascurato questi fatti, si trasformino improvvisamente in paladini della corretta informazione e dell'aiuto umanitario, mi sembra alquanto improbabile.

Avete mai visto un servizio su questi temi in prima serata? Tutto viene rigorosamente trasmesso passata la mezzanotte, forse per non disturbare troppa la digestione dei telespettatori.

Il vantaggio per gli abitanti dei campi profughi quale sarà? I produttori sostengono che il denaro versato dai telespettatatori sarà consegnato ai responsabili del campo.
Il reality show tenterà quindi, come sempre, di smuovere le solite corde, quelle cioè che attraverso un sms, una telefonata o una carta di credito è possibile, per qualche giorno, mettere l'anima a riparo.

C'è da chiedersi anche quale sarà il vantaggio dei produttori e dei VIP. Nulla si fa per nulla, soprattutto in quel mondo. Allora l'immancabile pausa pubblicitaria (dopo aver fatto vedere coloro che non hanno nulla e mangiano forse una volta al giorno, mostreranno l'ultimo modello di smarthphone e la nuova confezione di merendine per la scuola), pagherà tutte le spese di produzione (generalmente non proprio economiche), il cachet dei protagonisti e dei conduttori.
Infine ci sarebbe da chiedersi cosa ci guadagnano l'UNHCR e Intersos, che pure questi luoghi, e questi temi, li conoscono. 

Foto Cristina Francesconi
Vi sono profughi che vivono in condizioni precarie da decenni (sicuramente sostenuti - loro fortuna -dalle agenzie internazionali e dalle ONG). Quello di cui hanno bisogno è di porre fine alla loro assurda e miserabile situazione e far ritorno nei loro paesi. In molti casi le organizzazioni internazionali, gli stati e la politica potrebbero agire, ma non lo fanno. Gli interessi economici internazionali, la logica delle strategie della geopolitica e molte distrazioni, fanno sì che questi ultimi siano sempre sacrificati.

Il compito di una corretta informazione dovrebbe essere quello di martellare ogni giorno sulle questioni irrisolte di questo pianeta, sulla necessità di porre fine all'ingiusta sofferenza di intere generazioni che, in questo caso, hanno avuto l'unica colpa di nascere in paesi dove la vita umana non valeva nulla mentre il petrolio, il coltan, l'oro, i diamanti o l'uranio molto.
 Insomma di far sì che nessuno possa dire non sapevo o peggio ho già dato (la moneta)

Ecco comunque, ed ad ogni buon conto, un estratto dalla Carta di Roma  una sorta di codice deontologico per i giornalisti.

c. Tutelare i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti che scelgono di parlare con i giornalisti, adottando quelle accortezze in merito all’identità ed all’immagine che non consentano l’identificazione della persona, onde evitare di esporla a ritorsioni contro la stessa e i familiari, tanto da parte di autorità del paese di origine, che di entità non statali o di organizzazioni criminali. Inoltre, va tenuto presente che chi proviene da contesti socioculturali diversi, nei quali il ruolo dei mezzi di informazione è limitato e circoscritto, può non conoscere le dinamiche mediatiche e non essere quindi in grado di valutare tutte le conseguenze dell’esposizione attraverso i media;


Ecco i link ai post di Sancara sui rifugiati, per chi ha voglia.