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lunedì 11 dicembre 2017

Attacco ai caschi blu. Quali sono gli interessi in gioco?

La regione del Kivu a molti dice poco a nulla. E', per molti, una remota zona dell'Africa dove la legge non conta e dove il valore degli uomini, a ancor meno delle donne, è simile allo zero.
Un luogo nel nostro pianeta dalla lussureggiante vegetazione, dove le montagne scendono verso la pianura e attraverso morbide terrazze naturali guardano il lago omonimo ricco di numerose isole. Il clima è l'ideale per l'agricoltura e per gli allevamenti  e il sottosuolo è ricco di minerali di ogni genere (oro, argento, stagno, tantalio, tungsteno, zinco) Sulla carta un luogo che dovrebbe essere un paradiso in terra. Dovrebbe. 
In realtà si tratta di una delle versioni più vicine all'inferno che l'uomo conosca.
A partire dagli anni '90, oramai da oltre due decenni, la regione è teatro di una dei più devastati e dimenticati conflitti del pianeta.

Dal 2000 la Nazioni Unite sono nella Repubblica Democratica del Congo con una missione di pace chiamata MONUSCO (fino al 2010 MONUC), ovvero UN Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo voluta dalla risoluzione 1291 del novembre 1999. Una missione costata fino ad oggi 8,74 miliardi di dollari e che ha visto passare oltre 95 mila soldati (in media tra i 15 e i 18 mila persone impegnate) di vari paesi. Un impegno nel tentativo di stabilizzare una Regione che invece si infiamma giorno dopo giorno e dove, proprio i caschi blu, sono osservatori di cose che forse qualcuno vorrebbe non far vedere.

L'attacco del 7 dicembre vicino a Beni (Nord Kivu) che ha visto morire 15 caschi blu, tutti tanzaniani, (oltre 53 i feriti) è il più grave degli ultimi anni (bisogna tornare al 5 giugno 1993 quando a Mogadiscio vennero uccisi 24 caschi blu pakistani) avvenuti contro personale dell'ONU. Nel passato più volte gli uomini con il casco blu sono stati oggetti di violenza. Solo in Africa oltre 1300 persone hanno perso la vita nelle 29 missioni che a partire dal 1948 sono state organizzate nel continente nero. Di queste 121 erano nella missione MONUSCO.

La situazione nel Kivu è drammatica. Solo negli ultimi 6 mesi , stando a Human Rights Watch, sono oltre 500 i civili uccisi, oltre 1000 quelli rapiti per riscatto e almeno 11 gli stupri di massa. Quest'ultimo dato è quello che più fa inorridire. Lo stupro come arma di guerra (non si sa per ognuno delle 11 azioni quante donne siano state coinvolte) è diventato per i carnefici delle guerriglie (sono oltre 120 i gruppi armati) un fatto "normale".
La novità di quest'attacco, apparso a tutti come ben organizzato e preparato da tempo, è quella che a farlo sembra sia stato un gruppo ugandese (AFD - Alleanza delle Forze Democratiche) di matrice islamica che colpisce in un'area dove gli islamici sono praticamente assenti. Che dietro ci possa essere la lunga mano di chi ha interessi nel ricco sottosuolo del Kivu, sembra scontato.
Allora è spontanea la domanda: chi finanzia questi gruppi e quali sono gli interessi in gioco?




mercoledì 19 agosto 2015

In memoria di Ishara Birindiwa

Della morte del giovane Easter Ishara Birindiwa, avvenuta nella notte tra il 7 e l'8 agosto scorso, in pochissimi hanno dato notizia. La sua fine, e ancor più la sua vita, non risvegliano le nostre attenzioni proiettate in altre faccende.
Eppure Ishara, 21enne della Repubblica Democratica del Congo, svolgeva un ruolo essenziale per la salvaguardia del nostro pianeta. Era uno dei (pochi) Rangers del Parco Nazionale del Virunga, il più vecchio parco nazionale africano, ed il suo compito era quella di porteggere i circa 700 gorilla di montagna dai bracconieri e dai miliziani di ogni genere.
E' morto nella notte, durante un attacco, nella sua postazione di guardia, nel settore nord del Parco. Un gruppo di miliziani Mai Mai uno dei tanti gruppi paramilitari che infestano il nord Kivu e che si è reso protagonista dei peggiori crimini contro le donne, usando lo stupro come arma di guerra. Solo l'arriva dei rinforzi, a prima mattina, ha permesso ai Rangers di avere la meglio contro le verie bestie del parco.
Ishara ha difeso la sua postazione, il suo lavoro, i suoi amati gorilla e naturalmente la sua vita, perchè fin dal giorno in cui finì con successo, era il 2013, il corso per Rangers credeva fortemente in quello che faceva. Perchè lo faceva con grande passione.

Ishara non sarà ricordato da nessuno. Nessuno lo ringrazierà per il suo sacrificio. Non diventerà un eroe. Nessuno restituirà il suo amore per i primati e per la conservazione di un ambiente che solo quando sarà stato distrutto, rimpiageremo.

Noi tutti forse una riflessione possiamo farla.  Era il 1985 quando la primatologa americana Dian Fossey fu uccisa nel confinante Parco in Ruanda, sempre per difendere i gorilla. A 30 anni da quella tragica morte, sembra che nulla sia cambiato, se non il fatto che i morti fanno meno rumore.

lunedì 2 marzo 2015

Libri sull'Africa: Congo

Il libro pubblicato nel 2010 (in Italia nel novembre 2014) dall'archeologo e giornalista belga fiammingo David Van Reybrouck (nato nel 1971) è un'opera monumentale, scritta con il dettaglio del ricercatore e con l'eleganza dello scrittore. E' un libro che parla del "fiume Congo", inteso come elemento geografico che, a partire dalla preistoria e fino ai giorni nostri, è stato protagonista delle vicende che hanno accompagnato quell'area, immensa e ricca,  dell'Africa centrale.
Pubblicato da Feltrinelli (traduzione di Franco Paris), con le sue oltre 600 pagine, rappresenta una lettura impegnativa, ma al tempo stesso piacevole ed avvincente. 
L'enorme merito di Van Reybrouck è quello di rendere la storia di quel luogo un romanzo di quelli che si leggono aspettando di sapere quello che succederà nella pagina dopo. Sono due millenni di storia (sebbene poi il racconto vero inizia dalla fine del 1800, ovvero quando divenne una proprietà privata del re belga Leopoldo) che attraverso interviste, riferimenti geografici, l'archeologia e  lo studio sei tanti protagonisti permette di scoprire un paese e più in generale un continente. Ci aiuta a comprendere molti degli elementi che ancora oggi sono in grado di spiegare quello accade in quel luogo (a noi remoto) che in altra epoca fu denominato uno "scandalo geologico" per le sue immense ricchezze minerarie e non solo. 
Il libro è il frutto di un minuzioso lavoro di ricerca (sulle fonti e sul campo) durato quasi 10 anni. L'impegno di Van Raybrouck è stato quello di far parlare quante più persone riusciva a trovare, congolesi, che raccontassero la loro esperienza e quella dei loro padri o madri (sono oltre 500 le persone che hanno raccontato qualcosa di significativo). In altri termini si è trattato di rivedere la storia di questo tormentato paese (oggi Congo e Repubblica Democratica del Congo) con gli occhi di chi ci vive o ci ha vissuto. Una storia non scritta dai coloni, dagli esploratori o dai ricercatori europei (come finora è   quasi sempre avvenuta, a partire da Joseph Conrad) ma, dalle mille anime che hanno accompagnato la crescita, talora disordinata e violenta, di questo paese.

Ma, il Congo che oggi noi conosciamo, quasi esclusivamente per le violenze e la guerra civile, è stato anche un paese che in più occasioni ha tentato e provato la strada della modernità e del rinnovamento. E' stato luogo di vere e proprie avanguardie culturali, già a partire dagli anni '30, (aiutato anche dalla successiva nascita della prima Università nel 1954) che hanno prodotto, ad esempio, veri e propri generi musicali come la rumba congolese o il soukous.

E' stato, bisogna dirlo, un paese depredato prima dai coloni e poi dalle multinazionali (con il benestare delle classi politiche che lo hanno amministrato). I prodotti della suo sottosuolo sono ancora oggi oggetto di sfruttamento, intenso.
Ecco, il lavoro di David Van Reybrouck (che qualcuno ha definito un capolavoro) ci aiuta a capire e a comprende le ragioni dell'intenso degrado che hanno subito i congolesi (ma forse più in generale gli africani), nella speranza che contribuisca a far conoscere meglio, e più seriamente, gli uomini e le donne del continente africano.

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martedì 25 febbraio 2014

Gentlemen of Bacongo

da Gentlemen of Bacongo, di Daniele Tamagni
Nonostante le guerre, nonostante le gravi difficoltà che il continente africano ha attraversato e attraversa, i suoi popoli trovano sempre una ragione e un motivo per sorridere e, perchè no, per stupire. Non sorprende quindi che nelle capitali di due paesi, uno dei quali da decenni in guerra, ci si possa imbattere in scene come quelle documentate, nel 2010, dal fotografo italiano freelance Daniele Tamagni. Tamagni ha immortalato magnificamente i dandy congolesi (riuniti nell'associazione SAPE - Societè des Ambianceurs et des Personnes Elegantes e per questo chiamati Sapeurs) che mettono insieme l'eleganza coloniale della fine '800 con la stravaganza, la giocosità e la trasgressione tipicamente africana.
Kinshasa e Brezzaville, rispettivamente capitale della Repubblica Democratica del Congo e della Repubblica del Congo, tra loro separate dal fiume Congo, hanno sempre ospitato, fin dalla loro fondazione che risale alla fine del 1800, avanguardie culturali e politiche. A partire dagli '30 si svilupparono esperienze musicali straordinarie e la rumba congolese e poi il soukous arricchivano le notti congolesi. Contemporaneamente si sviluppò un parte importante del pensiero politico anticoloniale che portò all'indipendenza del paese nel 1960. Musicisti e politici congolesi esportarono poi il loro genio e le loro idee in Europa e soprattutto a Parigi (in particolare, oggi, nel quartiere di Chateau Rouge).

I Sapeurs non sono, come si potrebbe credere, un gruppo di snob della borghesia africana. Sono cittadini che fanno i lavori più umili per potersi pagare gli abiti delle grandi firme europee, attratti da uno stile di vita che sfiora la religione. Molti di loro sono pagati per partecipare a feste,  a ricevimenti e ad intrattenimenti di vario genere. Il loro stile impeccabile, dove nulla è lasciato al caso, intriso di regole rigide, affascina  e appassiona il popolo congolese. Uno stile in grande contrasto con la realtà metropolitana congolese e che Tamagni ha saputo valorizzare e rendere ancora più evidente.

L'attuale club dei sapeurs, trae le sue origini da Andrè Grenard Matsoua, attivista politico congolese, morto in carcere nel 1942, che nel 1922 fu il "primo grande sapeurs", quando rientrò dalla Francia elegantemente vestito. A lui si deve un movimento di emancipazione, l'Amicale balali, che includeva elementi religiosi legati al cristianesimo di culto millenaristico.

Gli scatti di Daniele Tamagni hanno prodotto un libro e un mostra.  

venerdì 14 febbraio 2014

Popoli d'Africa: Kongo

I Kongo o Bakongo sono un gruppo etnico bantu dell'Angola (area nord-ovest), del Congo e della Repubblica Democratica del Congo. Vivono lungo la costa atlantica dove sembra siano giunti a partire dal XIII secolo, dalle foci del fiume Congo, durante una delle grandi migrazioni bantu. Parlano la lingua KiKongo e sono stimati essere oggi circa 10,2 milioni di individui. La parola Kongo significa cacciatore. Essi sono anche agricoltori e ottimi lavoratori del ferro, del legno e della ceramica.

Nel XIV secolo costituirono alcuni regni (Congo e Loango, i più importanti) che si dissolsero solo nel XVIII secolo, tre secoli dopo l'arrivo dei portoghesi (i quali introdussero il cristianesimo), soprattutto per dissidi interni.
In particolare il regno Kongo (1395-1914), il cui sovrano Nzinga Mbemba si convertì al cristianesimo (sebbene pratiche legate ai riti tradizionali siano sempre state conservate) grazie all'opera di evangelizzazione dei portoghesi (che lo ribattezzarono re Alonso I), offrì anche un grande tributo in schiavi verso la rotta nel Nuovo Mondo. Secondo alcune stime, dall'area del regno Kongo partirono più di 10 milioni di schiavi alla volta delle piantagioni d'oltre oceano.
Il Regno Congo, la cui capitale fu Mbanza Kongo (ribattezzata dai portoghesi San Salvador) era diviso in 6 provincie e la sua influenza si estendeva ben oltre i suoi confini (oltre 130 mila chilometri quadrati). Era un regno molto evoluto grazie anche alla ricchezza di materie prime e alla capacità di lavorarle. L'avvento della tratta degli schiavi contribuì a sgretolare il substrato sociale su cui reggeva il reame.
Nel 1885 con la Conferenza di Berlino, il territorio dell'antico regno fu diviso tra le grandi potenze coloniali.

Il popolo Kongo (che a Luanda sono diventati abili e ricchi commercianti) diede un grande contributo alla lotta per l'indipendenza dell'Angola e del Congo (con l'organizzazione Abako) e ancora oggi rappresentano l'asse portate dei movimenti di liberazione dell'enclave di Cabinda.

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venerdì 17 gennaio 2014

Patrice Emery Lumumba (1925-1961)

"Questo 1960 è il nostro anno, voi ne siete i testimoni e protagonisti. E' l'anno della vittoria totale. E' l'anno dell'Algeria insanguinata, eroica, la cui lotta esemplare ricorda che non vi sono compromessi con il nemico. E'l'anno dell'Angola imbavagliata, del Sudafrica schiavizzato, del Ruanda Urundi imprigionato, del Kenya schernito.
Noi tutti sappiamo, e il mondo lo sa, che l'Algerai non è francese, che l'Angola non è portoghese, che il Kenya non è inglese. Noi sappiamo che l'Africa non è francese, nè inglese, nè americana, nè russa: è africana.
Conosciamo gli obiettivi dell'Occidente. Ieri ci ha diviso al livello delle tribù, dei clan. Oggi - poichè l'Africa si libera - vuole dividerci al livello degli Stati. Vuole creare blocchi antagonisti, dei satelliti e, partendo da questo stato di guerra fredda, accentuare tutte le divisioni, per mantenere in eterno la sua tutela sull'Africa"



Primo Ministro Congo (1960)


Patrice Emery Lumumba è stato un leader indipendentista dell'ex Congo belga (poi diventato Zaire e oggi Repubblica Democratica del Congo), che dopo esser stato eletto primo Ministro, è stato ucciso barbaramente a soli 36 anni.


Lumumba nacque il 2 luglio 1925 ad Onalaua, provincia del Kasai. Figlio di una famiglia cattolica contadina di etnia Tetela (il suo vero nome era Elias Okit'Asombo), fu educato nelle scuole protestanti svedesi e poi nella scuola pubblica che preparava gli impiegati postali. Frequentò anche, senza diplomarsi, il corso per infermiere. Lavorò poi alle poste di Leopoldville (oggi Kinshasa) e di Stanleyille (oggi Kisangani). Nello stesso periodo iniziò a scrivere, per i quotidiani locali ed ad appassionarsi alla politica. Nel 1951 sposò Pauline Opangu. Sono gli anni in cui si avvicinò al mondo degli evolues, frequentando circoli culturali e avvicinandosi alla letteratura e alla poesia.
Diventò attivo nel sindacato dei lavoratori statali, di cui nel 1955 divenne presidente. Aderì, come molti intellettuali congolesi, al Partito Liberale Belga e si recò in Belgio su invito del Ministro delle Colonie. Nel 1957 ottenne un impiego di prestigio presso la birreria Bracongo, ma fu la politica ad occupare il suo tempo e in particolare il pensiero dell'emancipazione del Congo. In particolare si oppone al tentativo belga di proporre una soluzione"del problema congolese" senza coinvolgere i congolesi. Tra le figure di spicco emergono il leader dell'Abako (legato all'etnia kikongo) Kasavubu e il sindacalista socialista Alphonse Nguvulu. Nell'ottobre 1958 fondò il Movimento Nazionale Congolese (MNC) e in tale veste intrattenne rapporti con il mondo anti-coloniale africano e partecipò come capo delegazione alla conferenza panafricana di Accra (8-13 dicembre 1958).
Nel 1959 iniziarono le prime manifestazioni e rivolte, il paese chiede con insistenza l'indipendenza. Avvengono anche le prime scissioni in seno all'MNC, dove l'ala più a destra sostiene la piena collaborazione con i belgi ed è favorevole ad una spaccatura su base etnica del paese.
Nell'ottobre 1959, a seguito delle repressioni della polizia contro gli indipendentisti (a Stanleyville la polizia uccide 30 persone), Lumumba venne arrestato. Liberato il 26 gennaio 1960, partecipò agli incontri (a partire dal 20 gennaio a Bruxelles e che durarono fino alla fine di febbraio) che dettero, il 30 giugno 1960, l'indipendenza al Congo.
Le elezioni si svolsero il 22 maggio 1960 e l'MNC di Lumumba (che venne eletto con 84.602 preferenze) ottenne 41 seggi su 137. Il 23 giugno Lumumba divenne il Primo Ministro (in coalizione con il PSA (di ispirazione socialista) di Antoine Gizenga e altri partiti minori) pronunciando il discorso dell'indipendenza (discorso molto duro contro il colonialismo belga). Il 24 giugno il Parlamento elesse Joseph Kasavubu Presidente.
Per i belgi (e soprattutto per le potenti compagnie minerarie) si trattava di una falsa indipendenza. La maggioranza dei posti chiave restarono nelle mani della potenza coloniale e quando Lumumba decretò l'africanizzazione dell'esercito (di fatto licenziando i generali belgi), la risposta belga fu quella di fomentare la ribellione  (e la secessione) dello stato minerario del Katanga (che fu dichiarata l'11 luglio). I belgi avevano anche inviato massicce truppe nel paese ufficialmente a protezione dei civili belgi nel paese.
Il 14 luglio le Nazioni Unite chiesero il ritiro del Belgio dal Congo e inviarono un contingente di pace. La situazione era esplosiva e Lumumba cerca appoggi nei paesi indipendenti africani (Marocco, Tunisia, Guinea, Ghana, Liberia e Togo) e negli Stati Uniti (dove però il presidente Eisenhower, si rifiuta di incontrarlo).
Il 5 settembre il Presidente Kasavubu destituì Lumumba che a sua volte annunciò la destituzione del Presidente. Lo stallo politico fu rivolto il 14 dsettembre, quando il capo di stato maggiore dell'esercito, Joseph Desirè-Mobutu (che l'africanizzazione dell'esercito di Lumumba aveva promosso da sergente a colonnello)  chiuse il Parlamento, decretando la presa "temporanea del paese" e gettando di fatto nel caos il Congo. Kasavubu fu lasciato al suo posto senza potere, mentre Lumumba fu posto agli arresti domiciliari sotto protezione delle Nazioni Unite. Tra violenze e mancato intervento delle Nazioni Unite si arrivò al 2 dicembre quando Lumumba (che era scappato il 27 novembre) venne arrestato mentre si recava ai funerali della figlia.
Il 14 dicembre si ricostruì il governo legittimo, guidato dal Vicepresidente del Consiglio, Antoine Gizenga e mentre il vertice panafricano di Casablanca (4-6 gennaio) chiedeva il reintegro di Lumumba, il 17 gennaio 1961 Lumumba fu assassinato in Katanga.
L'annuncio venne dato solo tre settimane dopo. Oggi si sa che ad uccidere Lumumba, una volta avuto il benestare della CIA -  furono gli uomini dell'ufficiale belga Gerard Soete. Patrice fu fucilato (assieme ai suoi collaboratori ed ex-ministri Joseph Okito e Maurice Mpolo). I loro corpi furono ridotti a pezzi e sciolti nell'acido delle batterie per auto. 
Il resto della storia del Congo, ancora oggi, è densa di violenze e sofferenze per le popolazioni.

L'assassinio di Lumumba segnò la fine per il Congo - ma più in generale dell'Africa - del sogno di emancipazione africana. Gli africani capirono che il loro sviluppo e le loro indipendenze erano strettamente legate ai voleri delle ex-potenze coloniali e agli assetti della guerra fredda in corso. Lumumba - da idealista qual'era - si era illuso che africani potessero determinare i percorsi politici e culturali dei propri paesi e soprattutto gestirne le ingenti risorse. Si era illuso che che il panafricanismo potesse diventare un autentico movimento continentale. L'esperienza del Congo - che avveniva proprio mentre si affermavano le nuove realtà africane (nel 1960 furono 17 i nuovi stati africani indipendenti) fu un monito per l'intero continente e dettò il corso degli eventi per gli anni a venire. 

Per saperne di più:

- Il film di Raoul Peck "Lumumba", 2000
- L'articolo di Giustianiano Rossi su Thomassankara.net
- L'articolo della BBC sulla morte di Lumumba
- Il discorso di Lumumba nel giorno dell'Indipendenza
- Il rapporto delle relazioni estere USA con il Congo (1960-1968)
- Il documentario sulla morte di Lumumba con le rivelazioni di Gerard Soete
- Il documentario di Thomas Giefer "Lumumba. Una tragedie africane"

Bibliografia (in italiano):

-Alessandro Aruffo - "Lumumba e il panafricanismo", Erreemme, 1992
-Aime Cesaire - "Una stagione nel Congo", Argo, 2003
-AA.VV. - "Il Congo di Lumumba e di Mulele", Piccola Serie, Jaca Book, 1968
-Gianfranco Venè - "Uccidete Lumumba", Fabbri, 1973

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lunedì 11 novembre 2013

Riserva della Biosfera Lufira

La riserva della biosfera di Lufira (o Vallèe de la Lufira) si trova nel sud-est, nella provincia mineraria del Katanga, della Repubblica Democratica del Congo. Il centro abitato più vicino è la città di Likasi. Si tratta si una foresta tropicale di circa 15 mila ettari lungo il fiume omonimo (tributario del Lualaba che è, a sua volta, uno dei rami sorgivi del fiume Congo). Si tratta della prima foresta di Brachystegia (genere di piante che comprende oltre 8000 specie), più nota con il termine swahili miombo, ad essere designata Riserva della Biosfera nel 1982
foto dalla rete
La riserva comprende molte altre specie vegetali ed è un grande esempio di biodiversità. La riserva si sviluppa tra i 700 e i 1100 metri di altitudine. Nel 1926 sul fiume Lufira fu costruita una diga che determinò la nascita di un bacino artificiale (oggi Lago di Lufira o Tshangalele) che diventato una importante zona di protezione degli uccelli.
Secondo le classificazioni del programma Man and Biosphere Programme voluto dall'UNESCO, la riserva comprende un'area centrale (core) di 2800 ettari, considerata riserva integrale, un'area mediana (buffer), di 5100 ettari, dove sono previsti insediamenti umani e protettivi compatibili con il sistema ambiantale e infine un'area marginale (transizione), di 6800 ettari, dove sono contemplate attività economiche più intense.
Nella riserva di Lufira vivono  circa 15 mila persone che praticano essenzialmente agricoltura, caccia e pesca. Negli ultimi anni l'ambiente è fortemente a rischio a causa del taglio indiscriminato di legna da ardere purtroppo anche nella zona di riserva integrale (core) oltre che per gli incendi finalizzati alla creazione di aree di pascolo.

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mercoledì 14 agosto 2013

Riserva della Biosfera di Luki

foto dalla rete
Luki è una Riserva della Biosfera del bacino del Congo nel sud-ovest della Repubblica Democratica del Congo. Estesa per 33 mila ettari, dista 400 chilometri da Kinshasa, circa 120 chilometri dall'Oceano Atlantico e solo 20 chilometri dalla città di Boma. Si tratta di un'area di foresta pluviale (lungo il fiume Luki, un affluente del Congo), posta tra i 150 e i 500 metri di altitudine, dove si alternano habitat anche molti differenti tra di loro. Oggi è una delle due aree di foresta primaria rimaste nel bacino del Congo.
Nel 1976 la Riserva (che già era un'area "riservata", ai fini dello sfruttamento delle risorse, durante l'epoca coloniale, intorno al 1937) è stata inserita dall'UNESCO tra le Riserve della Biosfera.
Nell'area vivono circa 7000 persone (mentre nelle immediate vicinanze i residenti superano i 100 mila). All'interno della riserva si pratica agricoltura (si coltiva ad esempio la banana, caffè, cacao) e agroforesteria, mentre restano alti i pericoli di disboscamento dovuto al commercio illegale del legname.
La riserva vede il coinvolgimento nella gestione e nella conservazione del WWF a partire dal 2004, il quale conduce anche programma di agrari soprattutto a favore delle donne. Si ha la consapevolezza che senza un radicale cambio nel quotidiano uso del territorio e delle risorse la foresta è destinata a sparire nell'arco di una generazione. Il valore della riserva non è tanto nella sua grandezza, ma nell'isolamento che ha mantenuto nel corso dei secoli.
Secondo le definizioni dell'UNESCO il core area (riserva integrale) di Luki è di 6800 ettari, il buffer area è di 5200 ettari, mentre la transition area (dove sono previsti insediamenti umani ed economici) è di 20900 ettari.

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mercoledì 22 maggio 2013

Riserva della Biosfera di Yangambi


La riserva naturale di Yangambi, oltre 230.000 ettari, si trova nella Repubblica Democratica del Congo, nella provincia orientale a 90 chilometri ad ovest della città di Kisangani (un tempo Stanleyville), sulle sponde del fiume Congo. Si tratta di un importante sito di foresta tropicale umida (posto intorno ai 500 metri d'altezza), che grazie alla sua straordinaria  biodiversità consente di osservare oltre 32 mila specie di piante, oltre ad una grande varietà di animali tra i quali elefanti, scimmie (tra cui lo scimpanzè) e potamocheri (animali simili ai cinghiali).
Il sito è diventato riserva della biosfera dell'UNESCO nel 1976.
Non vi sono dati sull'ammontare di persone che vivono all'interno della riserva, dove si svolgono (nel pieno rispetto delle convenzione sulle riserve della biosfera) attività antropiche come agricoltura (si produce in particolare olio di palma molto apprezzato in oriente ed in particolare in Malaysia) e pesca. Vi sono anche delle miniere di oro.
Tra le attività di ricerca (nella zona detta core, di circa 160 mila ettari, anche queste legate alla convenzione sulle riserve), vi sono soprattutto quelle legate alle reintroduzione di specie vegetali a rischio di estinzione.


Tra gli istituti di ricerca che maggiormente si occupano di questa area vi è l'INERA Research Institute, che tra le altre cose gestisce anche l'orto botanico e uno straordinario erbario con oltre 150 mila specie vegetali (http://www.congobiodiv.org/en/infrastructure/herbaria/yangambi) e la IFA (Institut Facultaire Agronomique) (http://ifayangambi.com/) entrambe le istituzione nate durante il colonialismo belga.

Ecco alcuni dati sul clima e sulle specie animali (mammiferi e anfibi) presenti nella Riserva

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martedì 12 febbraio 2013

Parco Nazionale di Salonga

foto dal sito UNESCO
Il Parco Nazionale di Salonga, è oggi la più grande riserva africana di foresta equatoriale (la seconda al mondo). Con i suoi 36 mila chilometri quadrati occupa una vasta area del bacino del Congo, nella Repubblica Democratica del Congo.
Il Parco fu istituito con apposita legge nel novembre 1970 ed è diviso, da un corridoio largo circa 45 chilometri, in due settori, Nord e Sud, più o meno equivalenti per dimensioni e habitat (17 e 19 mila chilometri quadrati rispettivamente).
Il parco per molte aree particolarmente isolate (dove gli alberi raggiungono l'altezza di 45 metri) è accessibile esclusivamente dal fiume Luilaka. La sua altitudine varia dai 300 a 700 metri sul livello del mare. Grazie anche alla presenza di alcune specie animali di grande interesse ed a rischio estinzione, come i Bonomo (dove è in corso un grande progetto di salvaguardia di questi piccoli scimpanzè), le scimmie del Salonga, il pavone rosso, gli elefanti della foresta e i coccodrilli, dal 1984 è diventato Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO. I Bonomo sono stimati intorno alle 10 mila unità. Nel parco vivono anche altri animali (sono circa 50 le specie di medio-grandi mammiferi) come ippopotami, rinoceronti, leopardi e oltre 150 le specie di uccelli. Nel 1999, a seguito del diffondersi della guerra civile, il parco è stato inserito tra i siti a rischio, assieme agli altri grandi parchi della Repubblica Democratica del Congo. Il realtà già quando era stato inserito nella lista dei patrimoni dell'Umanità, e fino al 1994, il Parco era nella lista dei siti a rischio a causa della deforestazione e del bracconaggio.
Il parco è gestito dal'ICCN - Congolese Institute for Nature Conservation.
Nel parco vivono anche circa un migliaio di abitanti di etnia lyaelima, in 8 villaggi nell'area di Dekese.
Il parco ha ancora delle zone completamente inesplorate, sebbene sia una ricca attività di ricerca dedicata soprattutto alla conservazione animale e alla classificazione delle specie, vegetali e animali.
Il turismo, anche a causa della quasi totale assenza di anfrastrutture, è poco sviluppato, mentre nonostante gli sforzi, il bracconaggio (soprattuto degli elefanti per il commercio illegale dell'avorio) continua ad impegnare massicciamente i quasi 160 rangers a tutela del parco.

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venerdì 23 novembre 2012

L'ultima guerra del Kivu

Popolazione in fuga da Goma, foto dalla rete
Oramai è guerra franca. Se ne sono accorti tutti, ne parlano i giornali e perfino le televisioni nazionali. Da quando i ribelli del M23 hanno conquistato la città di Goma, in Kivu è tornato, per una parte del mondo, ad esistere. Certo non è che prima in quella regione della Repubblica Democratica del Congo (paese grande quanto metà dell'Unione Europea, con 72 milioni di abitanti) le cose andassero bene e la popolazione vivesse in pace e prosperità (proprio una decina di giorni fa Sancara aveva pubblicato questo post sulla mattanza nel Kivu). La regione, che si trova al confine con Burundi, Ruanda ed Uganda, è nel caos più totale a partire da metà degli anni '90, quando nel corso del genocidio del Ruanda (iniziato il 6 aprile del 1994) si riversarono in massa nel paese prima i profughi (Tutsi e Hutu moderati) e successivamente gli stessi autori del massacro ruandese.
Da allora per la popolazione del Kivu è iniziato un calvario inaudito, in cui le peggiori tecniche di guerra prodotte dal genere umano sono state applicate in modo sistematico. Torture, stupri di massa, mutilazioni, costrizione alla schiavitù, arruolamento di bambini soldato, omicidi e distruzioni e saccheggi di ogni genere. Sono oltre 5 milioni le vittime in questi 18 anni.

Provare a far ordine tra i vari gruppi sul campo, che nascono come funghi (si parla oggi di 35 diverse fazioni in gioco) tra i vari carnefici che a turno si sono messi alla guida di questi o di quelli, è un'impresa titanica e che alla fine porta, forse, a poco. Oggi il mondo intero parla di M23 (che non è altro che la data del 23 marzo 2009) quando fu siglato uno degli innumerevoli accordi tra il governo e il CNDP (Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo) e che prevedeva il reintegro dei ribelli (tutti di "etnia" tutsi) nell'esercito "regolare", cosa mai avvenuta anche perchè sostanzialmente non voluta.

I nomi di Bosco Ntaganda (soprannominato Terminator), Sultani Makenga, Sylvestre Mudacumura e Vianey Kazarama a noi non dicono nulla. Ma per chi ha visto l'intera famiglia sterminata per mano degli uomini da loro guidati, questi nomi evocato paura, terrore e rabbia. Tutti sono ricercati dalla giustizia internazionale, che francamente in un luoghi dove qualsiasi sistema democratico e amministrativo è saltato, conta veramente poco.

La regione del Kivu è una miniera. Nel suo straordinario paesaggio (le sue terre e le sue montagne ospitano meravigliosi parchi più volte violati e devastati) nasconde stagno, tantalio (coltan), tungsteno, zinco e oro (ecco un post di Sancara che commenta un rapporto delle Nazioni Unite su questo tema) oltre che di legname. Il controllo di queste risorse è all'origine di qualsiasi cosa.

Un recentissimo rapporto (ecco un articolo pubblicato oggi su Atlas) delle Nazioni Unite ha evidenziato, con ricca documentazione, cioè che da sempre si diceva. Dietro a questi gruppi di assassini vi sono il Ruanda e l'Uganda. Che in cambio di una abbondante fornitura di armi (i gruppi sono tutti ben armati) riceve i minerali che vengono poi immessi nel mercato "normale" (non dimentichiamo che gran parte dei minerali sono usati nella nostra industria dell'elettronica) traendo enormi profitti. Ad essere chiamato in causa nel rapporto è direttamente il Ministro della Difesa ruandese.
Sintetizzando e semplificando molto la situazione, il Ruanda intervenne massicciamente nel Kivu subito dopo il genocidio del 1994, favorendo la costituzione di gruppi armati che avevano lo scopo dichiarato di scovare e "vendicarsi" di coloro i quali avevano compiuto il massacro in Ruanda. Gli stessi ruandesi contribuirono in modo deciso alla cacciata nel 1997 di Mobuto nell'allora Zaire e alla presa di potere di Laurent Kabila (sono coinvolti anche nella sua morte). Negli anni questi obiettivi sono cambiati e oggi l'interesse primo è quello economico, con la chiara intenzione di estendere, nei fatti, il proprio dominio territoriale al Kivu e controllare così ricchezze di cui il Ruanda è privo. Il Ruanda da tempo figura come esportatore di materie che non possiede, nell'assoluta complicità del resto del mondo. Molte delle aziende europee che trattano coltan o altro, hanno sede a Kigali.
L'operazione in corso (l'avanzata) sembra avere proprio l'obiettivo di svuotare, con la forza, il territorio.

Chi rischia di uscire politicamente sconfitta da questa situazione sono proprio le Nazione Unite, che seppur presente nell'area con oltre 16 mila uomini, non è assolutamente in grado di tutelare le popolazioni civili ne quantomeno di impedire gli innumerevoli eccessi. Ancor meno l'ONU sembra capace oggi di bloccare i burattinai di Kigali e di Kampala di questo caos.
Chi sicuramente paga una prezzo inaudito è la popolazione civile del Kivu, costretta continuamente alla fuga tra dolore e disperazione per le violenze. Solo in queste ore di parla di centinaia di migliaia di persone (molte donne e bambini) in fuga, tanto che l'Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite ha lanciato un appello ai governi per non chiudere le frontiere.

Se non si interviene sulla vendita (e sull'acquisto) delle materie prime provenienti dalla regione dei Grandi Laghi, la situazione difficilmente potrà migliorare.


giovedì 15 novembre 2012

Continua, indisturbata, la mattanza nel Kivu

dalla rete
E' di soli pochi giorni fa l'ultimo rapporto del United Nations Joint Human Rights Office (UNJHRO) che descrive, nei dettagli, l'ennesima violazione dei diritti umani (si parla nel periodo aprile-settembre 2012 di 264 civili, molti dei quali donne e bambini, barbaramente uccisi) da parte dei vari gruppi, e gruppuscoli, di miliziani nel territorio Masisi nel Nord Kivu. Le situazioni investigate dalle Nazioni Unite chiamano in causa gli uomini delle milizie Raia Mutomboki (un gruppo auto-organizzato il cui nome in swahili significa "uomini arrabbiati", sorto nel 2005, composto da uomini di etnia Tembo, Hunde e Rega), di quelle Mayi Mayi Kifuafua (in swahili "persone orgogliose che si battono il petto") e del Democratic Forces for the LIberation of Rwanda (FDLR), che sono di fatto gli autori, di etnia hutu, del genocidio del 1994 in Ruanda fuggiti nella Repubblica Democratica Congo. I gruppi miliziani Mayi Mayi sono nati originariamente in modo spontaneo per contrastare appunto i massacratori del Ruanda, che scappati nel Kivu, riorganizzavano le milizie dai campi profughi. Molti dei leaders dei gruppi Mayi Mayi sono militari che si sono rifiutati (o a volte hanno ammutinato) di entrare nell'esercito "regolare" del Congo (il FARDC, le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo), convinti dell'incapacità di questi di difendere le popolazioni (oggi infatti essi attaccano i villaggi al grido "ritornate in Ruanda"). E' chiaro che il genocidio del Ruanda e l'arrivo prima dei profughi ruandesi e poi degli stessi autori dei massacri, è stato la causa della totale instabilità del area del Kivu e al tempo stesso l'origine della cacciata del dittatore Mobutu (1997) dal paese. Kabila che scalzò Mubutu fu appoggiato fortemente dal Ruanda (oltre che dall'Uganda) proprio allo scopo di contrastare la riorganizzazione degli hutu nella regione del Kivu. Bisogna anche sottolineare come l'esercito regolare della Repubblica Democratica del Congo, sia realmente debole e incapace di controllare il territorio.

dalla rete
In realtà nel corso del tempo gli intenti originali sono stati stravolti e la questione centrale è diventata la protezione degli ingenti denari che si ricavano dalle innumerevoli risorse che quel territorio offre. 
Come si evince dell'agghiacciante rapporto (è da ricordare che dal 2000 nell'area sono presenti oltre 16 mila uomini della missione di pace MONUSCO delle Nazioni Unite), le scorribande e i massacri nei villaggi sono all'ordine del giorno e le modalità di attacco sono simili tra tutti i gruppi. Modalità analoghe, del resto, a quelle attuate durante il genocidio del Ruanda: l'uso del machete, attacchi ai luoghi di culto, stupri e brutali omicidi assieme agli altri elementi classici dei conflitti africani: arruolamento forzato di bambini, mutilazioni e svuotamento dei territori.
Dietro a questa apparente questione "etnica", si cela appunto uno degli affari globali più ampi del pianeta (si vede questo rapporto delle Nazioni Unite del 2011 che prova a quantificare gli importi in gioco). Il sottosuolo del Kivu, ricco di coltan, rame, diamanti, zinco, cobalto, stagno e oro, oltre che della preziosa foresta, alimenta milizie di ogni genere (se ne contano oltre una trentina e ognuna delle quali a volte controlla una singola miniera) e permette a paesi privi di tali risorse, come il Ruanda, di controllare il mercato (in cambio di armamenti ai vari gruppi di autodifesa, che hanno anche lo scopo di contrastare le milizie hutu). A loro volta le milizie del FDLR sono armate oltre che dalla risorse, anche da ruandesi che oggi vivono in Africa, in Europa e negli Stati Uniti. 
Bisogna essere chiari mentre in quell'area a pagare le conseguenze maggiori sono le popolazioni civili, che contano meno dell'erba che si calpesta, che quando non vengono massacrate sono costrette a fuggire, a beneficiare delle ricchezze e dei traffici illegali (il caos, la guerra e l'anarchia favoriscono il molto più lucroso traffico illegale) siamo noi. La nostra vita quotidiana, che dipende dai materiali che vengono usati nei nostri telefonini, nei nostri computer e in molte delle cose che gelosamente e orgogliosamente possediamo, è intrisa del sangue e delle lacrime dei congolesi.

Sui Raia Mutomboki vi segnalo questo post dal Blog Congo Siasa

lunedì 12 novembre 2012

Popoli d'Africa: Tutsi

I Tutsi (conosciuti anche come Watussi) sono una popolazione di circa 2,5 milioni di persone che vivono in Ruanda, Burundi e una piccola comunità nella Repubblica Democratica del Congo.
I Tutsi, assieme agli Hutu e ai Twa (che sono un popolo di origine pigmea, sebbene oggi da un punto di vista somatico non facilmente distinguibile) rappresentano le tre etnie che abitano il Ruanda e il Burundi. Gli Hutu sono maggioranza, mentre i Tutsi costituiscono, a seguito del colonialismo, una elite economica e sociale.
I Tutsi sono tristemente conosciuti nel mondo per le loro rivalità "etniche" nei confronti degli Hutu, che sono sfociate nei fatti noti come il genocidio del Ruanda, scoppiato il 6 aprile 1994, in cui morirono, in 100 giorni, circa un milione di Tutsi e di Hutu moderati per mano di estremisti Hutu. Ben prima, a partire dal 1965 i due gruppi si sono affrontati nel sangue.
Ad oggi non vi sono prove evidenti che Hutu e Tutsi siano due etnie diverse. Alcuni studiosi sostengono che si tratti solo di due classi sociali diverse che hanno sviluppato attitudini e comportamenti diversi (e quindi cultura, professioni e potere economico diverso) e che appartengono tutti allo stesso gruppo bantu, che sottomise l'etnia di pigmei Twa, già presenti nell'area prima del loro arrivo. Perfino alcuni tratti fisici, come l'altezza, sono fortemente influenzati dall'alimentazione.
Recenti studi genetici hanno dimostrato un'estrema similitudine tra i due gruppi.
Di fatto, indipendentemente dalla seppur importante questione antropologica-genetica, dal XV secolo in cui i Tutsi e gli Hutu giunsero (erano tradizionalente pastori e agricoltori) in un'area già abitata dai pigmei Twa e fino al XIX secolo non vi sono stati attriti tra le due comunità, che condividevano molte cose, tra cui la lingua.
Immagine emblema del genocidio ruandese (dalla rete)
La situazione sulle differenze etniche tra i due gruppi, nacque con il colonialismo (prima quello tedesco e poi quello belga), questo è l'unica cosa che mette d'accordo tutti gli studiosi. A partire dagli anni venti, quando i belgi subentrarono, a seguito della prima guerra mondiale, ai tedeschi, decisero di privilegiare la minoranza tutsi, in particolare nella formazione scolastica, nella pubblica amminstrazione e negli incarichi politici. E' questo il punto in cui si data l'inizio della discriminazione degli hutu. Già nel 1957 alcuni intellettuali hutu scrissero quello che è conosciuto come il "manifesto Bahutu", in cui si sottolineava il monopolio sotto il profilo politico, economico e sociale dei tutsi - identificando nella loro azione un nuovo colonialismo - e si invitava ad una rivendicazione del popolo hutu. Tale tesi è alla base di tutti gli scontri che a partire dagli anni '60 hanno innescato gli scontri tra i due gruppi e hanno fatto crescere l'odio che è sfociato nel genocidio del 1994.
Vi è poi il fatto, che contrariamente a quanto si possa immaginare, i matrimoni misti tra i due gruppi sono stati sempre molto frequenti, contribuendo ad annullare ancora di più le differenze.

Quello che è accaduto nel 1994 - che molti hanno liquidato come l'estremizzazione africana del conflitto etnico - non ha nulla a che vedere con i temi razziali, ma trova la sua origine in una lunga storia di rapporti di forza, politici, sociali ed economici, che hanno visto protagoniste le forze coloniali. La responsabilità dell'orrenda strage della primavera del 1994 è da iscrivere a chi ha privilegiato gli uni a discapito degli altri, a chi ha visto ed ha taciuto, a chi ha favorito il crescere di un odio profondo e irrazionale ed infine a chi poteva intervenire e non l'ha fatto.

Tra le tante cosa da leggere, per approfondire i fatti del 1994, vi segnalo il libro del Procuratore Silvana Arbia "Mentre il mondo stava a guardare", una straordinaria testimonianaza di chi ha indagato per conto della Corte Penale Internazionale.


Vai alla pagina di Sancara sui Popoli d'Africa

lunedì 3 settembre 2012

Libri: Kalami va alla guerra

Nel 2006, con la casa editrice Ancora, il giornalista Giuseppe Carrisi, scrive Kalami va alla guerra. I bambini-soldati, una delle più approfondite indagini, corredata di testimonianze e documenti, sull'uso dei bambini soldato nelle guerre (e nelle guerriglie) del mondo intero.
Si parla di una delle più ignobili violazioni dei diritti umani e dei diritti dell'infanzia, che in particolare in Africa (ma anche in Centro e Sud America e in Asia) ha assunto valori numerici impressionanti. L'autore stima in oltre 300 mila i bambini, e le bambine, costretti alla guerra e soprattutto a macchiarsi di orrendi e atroci crimini.
Carrisi ci accompagna in un viaggio fatto di  dati e riferimenti accuratissimi (bibliografici e delle rete), di precisi resoconti dei luoghi del pianeta - purtroppo molti - dove si utilizzano bambini soldati e di testimonianze (ben evidenziate in riquadri nel libro) alcune delle quali sconvolgono per crudeltà e orrore.
Da più parti gli analisti concordano che le tre grandi violazioni dei diritti dell'infanzia avvengono perchè i bambini sono usati per la guerra, o per il lavoro o per il sesso. Carrisi allora ci guida in quella che lui chiama "l'altra metà della violenza", ovvero le bambine che subiscono sicuramente il peggiore dei trattamenti: costrette a combattere come i coetanei maschi, costrette alla schiavitù del lavoro e infine usate come gioco sessuale per il divertimento delle truppe.


Foto dalla rete
L'autore dopo aver descritto la situazione nei vari paesi del mondo, oltre un'ottantina, dove vi sono (o vi sono stati di recenti) casi di utilizzo di bambini soldati (non dimentichiamo che la modernissima Gran Bretagna, ad esempio, pur considerando la maggiore età a 18 anni, permette l'arruolamento a 17) dedica un'ampio capitolo alle ragioni che determinano questa ignobile pratica.
Se è vero che le ragioni sono molteplici, tutte risiedono nella povertà e nella miseria che fanno dei bambini una fascia di popolazione molto vulnerabile. Poi è vero che i bambini soldati costano poco (non chiedono di essere pagati), sono facilmente controllabili (con la violenza e con il ricatto), spesso non hanno famiglia alla spalle e infine sono "meno punibili" dalle leggi.

Un libro sicuramente da leggere, per comprendere, forse per capire e probabilmente per decidere di fare qualcosa.

Giuseppe Carrisi è un giornalista e reporter di guerra, nato in Calabria, (Rai Interenational, Radio Vaticana, Gente) che da tempo si occupa dei problemi del "terzo mondo" e dell'Africa in particolare.

Sancara aveva già pubblicato un post su questo tema in occasione di una "strana" decisione degli Stati Uniti di concedere finanziamenti (in deroga) a paesi che arruolavano bambini soldati. Mentre per conoscere chi sono i criminali che utilizzano (o hanno utilizzato) bambini soldato vi rimando ai post di Sancara su Joseph Kony, Foday Sankoh e Charles Taylor, tanto  per citare i più noti mecellai che hanno "fatto fortuna" mandando bambini e bambine a mozzare mani, amputare arti, stuprare e uccidere senza ritegno.

Il sito dell'organizzazione Child Soldiers International
Il sito della campagna Stop all'Uso dei Bambini Soldato

Vai alla pagina di Sancara: Libri sull'Africa

venerdì 13 gennaio 2012

Cosa avviene in Africa Centrale? Un rapporto dell'UNODC analizza le strade del crimine

Pochi mesi fa, nell'ottobre 2011, l'UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime), l'agenzia dell'ONU che studia le relazioni tra la criminalità e la droga, ha pubblicato un interessante e dettagliato rapporto intitolato "Organized Crime and Instability in Central Africa"
Il rapporto analizza la situazione oggi presente in quell'area dell'Africa - e in particolare nella Repubblica Democratica del Congo - definita come "una ragione ricca di risorse naturali, dal grande potenziale e dalla storia tragica", mettendo in ordine un complesso sistema di interessi economici leciti, e soprattutto illeciti, di strategie criminali, di corruzione e di violenze inaudite, che permettono di affermare, senza paura di essere smentiti, che ci troviamo di fronte alla zona più calda (e spesso dimenticata) del pianeta.
Gli interessi in gioco sono altissimi. Si parla, per ogni anno, di 120 milioni di dollari provenienti dall'oro (dieci volte il valore delle esportazioni lecite e due volte il valore delle esportazioni di caffe, la maggiore risorsa agricola del paese) ovvero dalle 12 alle 40 tonnellate che finiscono principalmente nei mercati degli Emirati Arabi, del Libano, dell'India e del Sud Sudan. Di 30 milioni di dollari provenienti dal legname, circa 50 mila metri cubi (oggi la RD del Congo è il terzo paese al mondo per riduzione della foresta) che finiscono nei mercati africani (per poi essere "legalizzati"). Di 29 milioni di dollari provenienti dallo stagno, tra le 900 e le 3200 tonnelate che sono destinate al Belgio, all'Est Asiatico e all'India. Di 21 milioni di dollari provenienti dai diamanti, tra i 20 e i 30 milioni di carati grezzi che finiscono in Belgio, Cina, India, israele, Sudafrica e Emirati Arabi. Di 5 milioni di dollari provenienti dalla cannabis, circa 200 tonnelate, che finiscono nei paesi confinanti. E di 3 milioni di dollari provenienti dall'avorio, ovvero 3,4 tonnellate all'anno (gli elefanti che in RDC erano 377 mila nel 1979, sono oggi poco più di 20 mila), che finiscono in Cina e nei paesi asiatici.
A gestire questo enorme traffico sono dei gruppi armati (complessivamente si stimano tra le 6500 e i 13000 persone), con la complicità di militari e politici corrotti. Non mancano, come il rapporto sottolinea, i gruppi internazionali criminali che fanno affari - il rapporto stima in oltre 200 milioni di dollari, gli interessi annuali in gioco (di cui metà reinvestiti per sostenere i gruppi armati locali) d'oro.
Questi gruppi, alcuni un tempo sostenuti  da una forte spinta ideologica-politica, sono oggi essenzialmente gruppi criminali che utilizzano spietate strategie di controllo del territorio (stupri di massa, violenze, mutilazioni, deportazioni, rapimento, utilizzo di bambini soldato) al solo fine dell'arricchimento. Queste strategie tendono a destabilizzare la situazione generando quel caos (il numero degli sfollati e delle persone in fuga oramai non si contano più) in cui possono liberamente scorazzare.
Il rapporto sottolinea come, nonostante gran parte dei problemi hanno avuto origine nel periodo coloniale, l'attuale situazione deriva da fatti più recenti. In particolare l'origine può essere ricercata nei fatti conseguenti al genocidio del Ruanda nel 1994, con il massiccio esodo di vittime e di carnefici in fuga e alla conseguente seconda guerra del Congo, iniziata nel 1998 e che ha lasciato fino al 2003 (anno in cui le ostilità sono "formalmente" cessate) sul campo oltre 5 milioni di vittime. Non è un caso che - stando sempre al rapporto - il gruppo armato più numeroso (circa 4000 effettivi) è costituito dalla milizia Hutu Forces Democratique de liberation du Rwanda (FLDR), seguito dal suo "equivalente" Tutsi, il  Congres national pour la defense du peuple (CNDP, con circa 1000-2000 uomini), sebbene molti degli uomini del CNDP siano stati recentemente integrati nell'esercito congolese (contribuendo a rendere ancora più criminale un esercito già molto compromesso). In questi due gruppi, oltre a trovarsi l'origine "ruandese" della complessa situazione, si evidenzia anche come oramai quell'originale rivalità abbia perso qualsiasi senso. Infatti i due gruppi hanno stretto, in più occasioni, allenze per meglio sfruttare i grandi interessi economici che sono sul piatto. In contrapposizione a questi due gruppi originari, si crearono le varie milizie di autodifesa denominate genericamente Mai Mai e che oggi rappresentano dei veri e propri "networks" criminali.
Il rapporto affronta nel dettaglio tutti gli elementi in gioco, analizzando le metodologie di sfruttamento e di commercio delle singole risorse, in questo puzzle criminale complesso, non senza lanciare un monito: "senza un sistema efficiente di regole  il paese non ha speranze. Vi è la necessità di un sistema giuridico capace di punire i colpevoli (anche quelli in uniforme) e un sistema di regole  per il commercio nella regione e in particolare per quello dei minerali".
Gli oltre 18 mila caschi blu dispiegati sul territorio (costo dell'operazione 1,3 miliardi di dollari all'anno) rischiano di essere "invisibili" se non supportati da uno sforzo internazionale atto a ricostruire il sistema giuridico e penale.

Purtroppo guardando quello che è successo negli ultimi mesi a seguito delle elezioni presidenziali nella Repubblica Democratica del Congo, considendo gli interesse "legali" di oltre 15 grandi stati del mondo verso le risorse naturali del paese, le soluzioni proposte dal rapporto appaiono lontane e molto difficili, se non addirittura utopistiche.
Intanto, gli oltre 70 milioni di congolesi, sono tenuti in scacco da 10-20 mila criminali che godono della complicità di molti, nella quasi totale indifferenza di quella parte del mondo che sfrutta, e usa, le immense risorse della Repubblica Democratica del Congo.