martedì 25 aprile 2023

Tunisia sull'orlo del collasso

La Tunisia è il Paese africano più vicino all'Italia. Circa 140 chilometri per giungere in Sicilia (senza contare Pantelleria che è ancora più vicina), circa 170 chilometri per giungere in Sardegna. E' evidente che questa vicinanza geografica pone la Tunisia come un partner commerciale importante e strategico. Il gasdotto Transmed, costruito tra il 1978 e il 1983 e dedicato ad Enrico Mattei, collega appunto l'Algeria, attraverso la Tunisia, a Mazara del Vallo. Quest'ultima caratteristica, all'interno della crisi russo-ucraina e della necessità di sostituire il gas russo con quello proveniente dall'Algeria, pone la Tunisia al centro delle questioni geopolitiche attuali. Inoltre oggi le rotte migratorie verso l'Europa passano dalle coste tunisine.

La Tunisia è anche uno splendido Paese, sede di cultura storica mediterranea, di arte, di bellezza. E'stato un Paese turistico la cui industria è stata completamente azzerata dalle scelte politiche e poi dal Covid.

La Tunisia è oggi al limite del collasso. La situazione politica e quella economica, sono al limite di un punto di rottura e il rischio guerra civile appare del tutto che remoto e secondo molto osservatori inevitabile.


La Tunisia, nel 2011, era stata la protagonista e in qualche modo la scintilla che aveva dato il via, attraverso la cosiddetta "rivolta del pane" a quella che è universalmente nota come "primavera araba". Oggi a distanza di oltre 12 anni la situazione tunisina è giunta al capolinea. In questi anni si sono succeduti sei Presidenti, nove Primi Ministri e undici governi, segno di una instabilità politica estrema. Kais Saied, l'attuale Presidente in carica dal 23 ottobre 2019, giurista, costituzionalista e docente universitario, è stato eletto grazie alla sua indipendenza e sobrietà. Nel 2021, con con una svolta autoritaria, esautora il Parlamento, impone una Costituzione (2022) che accentra il potere sul Presidente e avvicina la Tunisia al mondo islamico. Ha sciolto il Consiglio Superiore della Magistratura istituendo tribunali militari. Ha escluso i partiti politici dal Parlamento (quello attuale è stato votato nel 2022 dal 12% della popolazione). Ha iniziato a perseguitare oppositori e giornalisti.

La crisi economica che ne è derivata (alcuni generi alimentari di primaria importanza sono aumentati anche del 25%) ha reso ancor più povera la popolazione e indotto gran parte delle multinazionali a lasciare il Paese ed andare nel più stabile Marocco.

Recentemente (il 21 febbraio 2023) Saied ha incolpato i migranti subsahariani che "hanno invaso il Paese" e che "minacciano l'integrità araba e islamica" ordinando di fatto una massiccia espulsione di Maliani, Senegalesi, Ivoriani e Guineiani (solo nei primi mesi del 2023 ne sono sbarcati oltre 18.000 in Italia, nello stesso periodo del 2022 erano stati 1.800). Il razzismo viscerale dell'Africa araba contro l'Africa Nera è cosa nota a tutti (e dovrebbe far riflettere i governi europei quando fanno accordi con governi o presunti tali del Maghreb - l'ultimo proprio con la Tunisia da parte del governo italiano). Inoltre in una recente inchiesta il 65% dei tunisini ha dichiarato di voler andar via dal Paese (il 90% sono giovani sotto i 30 anni).


Infine, a mettere la ciliegina sulla torta, ci pensano, come sempre, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale che bloccano un prestito alla Tunisia di 1,9 miliardi dollari, condizionandolo alle riforme economiche. Riforme, che come oramai da ricetta collaudata, che ha generato solo ingiustizie e tensioni, prevede taglio della spesa pubblica (in particolare dei sussidi, della scuola, della sanità e innalzamento dell'età pensionabile) e privatizzazioni. Insomma il copione già ampiamente visto in Africa Subsahariana (e in altri luoghi del Pianeta) si ripete con imbarazzate similitudine.

Ma, la cosa più preoccupante, è che si ripete anche l'altro copione. Così come con la Libia non si è potuto mai interrompere il flusso di gas proveniente da quel Paese (arricchendo così milizie, para-milizie, sciacalli e presunti leader), così come l'indipendenza energetica dalla Russia non è a breve possibile, così sarà in Tunisia, dove a dispetto di quello che accadrà (molti analisti come detto prevedono il peggior scenario possibile), il gas continuerà ad arrivare a Mazara del Vallo! "Show must go on" cantava Freddy Mercury e parafrasando uno dei più reali politici italiani di questo secolo, Chetto Laqualunque, "intu 'o culo ai disgraziati".


*Le fotografie sono tratta dalla rete Internet



domenica 23 aprile 2023

Il Sudan (ri)sprofonda nel caos

Il Sudan non è mai stato un luogo tranquillo dell'Africa. Da ancor prima della sua indipendenza, avvenuta il 1 gennaio 1956 (da un'amministrazione congiunta tra Gran Bretagna ed Egitto), il Paese è stato sconvolto da sanguinose guerre civili, da rivalità religiose, da interessi economici contrastanti, da colpi di stato, da dittature, da carestie, da violenze inaudite e da, più o meno consensuali, divisioni territoriali.



Due guerre civili (1955-1972 e 1983-1998), una serie di colpi di stato, tra cui quello del 30 giugno 1989 che porta al potere il colonnello Omar Al Bashir (destituito dal furore popolare dopo 30 anni di scellerata dittatura l'11 aprile 2019), il referendum del gennaio 2011 che ha portato,  alla nascita del Sud Sudan (il 9 luglio 2011), il 54° Stato africano, l'ospitalità data dal 1991 al 1996 al terrorista saudita Bin Laden e il conflitto del Darfur (in realtà un vero è proprio genocidio) che dal 2003 al 2020 ha restituito al mondo l'immagine di una delle più grandi, e ignorate, crisi umanitarie del Pianeta. Tutti questi elementi, se approfonditi, portano ad affermare, senza esitazione che siamo difronte ad una delle aree più calde del nostro mondo.

Eppure, quando nel 2019 fu destituito dopo 4 mesi di proteste popolari Omar Al Bashir, accusato e con un mandato d'arresto fin dal 2008 dalla Corte Internazionale per crimini contro l'umanità, sembrava essersi acceso uno spiraglio di luce nel Paese. Gli anni di governo democratico, con tutti le sue difficoltà, avevano iniziato a dare piccolissimi - ma veramente importanti - segnali. Abolita la pena di morte per omosessualità, rese illegali le mutilazioni genitali femminili, rimosso l'obbligo del velo, resa illegale la fustigazione pubblica per le donne e cancellato il divieto di consumo di alcolici per i non mussulmani.

Il 25 ottobre 2021, un colpo di stato messo in atto da due ex fidi militari di Al Bashir, pone fine ad ogni possibile democratizzazione del Paese. Il generale Abdel Fattah al-Burhan si pone alla guida del Paese assieme al suo vice Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemedti (conosciuto per essere stato uno dei carnefici del Darfur e per aver combattuto con il suo esercito,  il Rapid Support Forces - RSF come mercenario nella guerra dello Yemen e in Libia).


La luna di miele tra i due uomini forti del Paese è durata veramente poco. Già nell'ottobre 2022 Dagalo ha dichiarato fallito il golpe del 2021. L'African Development Bank ha stimato l'inflazione del Paese al 246% mentre crescono le proteste delle popolazione le cui condizioni economiche sono, se è possibile, peggiorate. Inondazioni nel Sud e crisi alimentare (provocata anche dalla guerra in Ucraina) hanno finito con mettere letteralmente in ginocchio gran parte dei 40 milioni di abitanti del Sudan.

Infatti nel giugno 2022, il Centre for Advanced Defence Studies (C4ADS) ha pubblicato un Report, Breaking the Bank in cui si evidenzia come in Sudan esista un vero e proprio Stato parallelo (deep state) che controlla l'economia del Paese dove con molta chiarezza si evince che oltre 400 entità (tra aziende e società finanziarie del Paese) sono controllate dall'elite militare, ed in particolar modo proprio da vice-presidente Degalo (considerato uno degli uomini più ricchi del Paese), rendendo evidente la scelta del governo militare di mantenere lo status-quo. In particolare l'estrazione del petrolio e soprattutto dell'oro, sono il punto di maggior concentrazione degli interessi economici.

Insomma, ad essere onesti, niente di nuovo anche in altre zone del Pianeta. Si governa ponendo grande attenzione in primo luogo ai propri interessi.

Da alcune settimane i due pretendenti al potere sono usciti allo scoperto e si sono apertamente sfidati in un conflitto armato, sfruttando anche apparenti divisioni nel computo delle alleanze: Al-Burhan vicino sempre di più ai movimenti islamici integralisti e all'Egitto di al-Sisi e Dagalo che cerca di accreditarsi con gli Stati Uniti attraverso movimenti filantropici. Entrambi vantano legami con la Russia.

Pace e stabilità, così come le conquiste democratiche, si allontanano velocemente per gli oltre 40 milioni di sudanesi, che ancora una volta vedono allontanarsi le opportunità di sviluppo, in un Paese ricco di risorse in mano ad una cricca di militari e faccendieri. Il rischio di una nuova e sanguinosa guerra civile è alle porte. Quello del Sudan rischia di diventare l'ennesimo conflitto nel mondo, capace di creare nuove e preoccupanti crisi umanitarie.