sabato 31 dicembre 2016

Makoko, la Venezia d'Africa


Tra le tante Venezie che si trovano in giro per il mondo (si stima siano  almeno un centinaio), tra quelle "naturali" e quelle diciamo "artificiali", ve ne è una che certamente compare con meno  frequenza nelle liste delle "copie" della città lagunare. Questa è Makoko, in Nigeria. La Venezia Nera o la Venezia d'Africa.
Makoko è di fatto un'enorme baraccopoli (uno slum, secondo altri criteri), situata alla periferia di Lagos, dove vivono oltre 100 mila persone, secondo le stime delle Nazioni Unite o oltre 400 mila secondo il governo nigeriano. La caratteristica che la rende "simile" a Venezia è che essa è costruita su palafitte e quindi si presenta come un insieme di canali in cui la popolazione si sposta su canoe o imbarcazioni simili.
Nata nel XVIII secolo come villaggio di pescatori e diventata poi, a partire dalla fine degli anni '80, il luogo di residenza dei profughi provenienti dal vicino Benin. Profughi di etnia Egun che dopo aver occupato la parte di terra hanno iniziato ad occupare anche gli spazi d'acqua. Oggi lo slum - che è abitato anche da nigeriani poveri - vive per metà in terraferma e per l'altra metà sull'acqua. 
E' di fatto una zona franca dove la polizia non entra e dove il governo interviene solo per riempire la grande cisterna d'acqua potabile. Perché sia chiaro, la vita a Makoko è dura.

Certo forse migliore di altri slums nel mondo come Chalco a Città del Messico (oltre 4,5 milioni di persone) o Kibera a Nairobi ( 2-3 milioni di persone) o Orangi Town a Karachi (2 milioni) o Manshiet a Mumbai (1,5 milioni). Inutile sottolineare che il problema maggiore è determinato dagli aspetti sanitari. Non vi sono bagni, la popolazione usa l'acqua per le sue funzioni corporee. La stessa acqua dove ci si fa il bagno, dove si pesca e dove si muore.  Non vi è elettricità. Non esistono presidi sanitari e la mortalità infantile resta altissima. Per il governo ufficialmente l'area deve essere sgombrata (è un luogo ambito per la nuova urbanizzazione essendo un waterfront di un'immensa metropoli).

L'intera popolazioni sopravvive di economia di sussistenza, basata sulla vendita di sale e del pesce. Lo slum è guidato da un leader chiamato Baalè.
Il governo nel giugno 2012 aveva tentato uno sgombro forzato (senza alternative per la popolazione) ma, le proteste della comunità, aveva bloccato le operazioni.
Gran parte della popolazione è analfabeta (anche perché spostarsi verso la terraferma non sempre è agevole e la comunità parla principalmente francese). Nel 2012 un architetto nigeriano Kenlè Adeyemi (direttore dell'agenzia NLE') ha ideato una scuola galleggiante (Floating School) con lo scopo di fornire istruzione direttamente nello slum. Il progetto, la cui struttura reggeva su dei bidoni di plastica (in modo da muoversi con le maree) è stata l'occasione per far conoscere al mondo Makoko, infatti il 28 maggio 2016 la scuola (che era operativa dal 2013) è stata premiata, con il Leone d'Argento, alla Mostra
Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia. Purtroppo solo pochi giorni dopo, il 7 giugno 2016, la scuola è collassata sotto le forti piogge! (siamo onesti questa notizia ha fatto meno il giro del mondo che quella del Premio!). L'impegno della comunità è quello di ricostruirla quanto prima perché era innegabile il grande servizio reso alla comunità.
Vi è un ultimo dato, che probabilmente caratterizza e diversifica Makoko da altri slums, è il basso livello di criminalità. La comunità sostiene che nonostante tutto da un punto di vista della sicurezza Makoko risulta essere vivibile (cosa che non è possibile, in genere, estendere alle altre baraccopoli del nostro pianeta).

E' chiaro che la vita negli slums non è degna di questo nome. Le Nazioni Unite hanno stimato che a breve (2030) saranno quasi 2 miliardi gli abitanti del nostro Pianeta che vivono in baraccopoli. Un quanto dell'umanità che non ha acqua potabile, bagni ed istruzione. Un mondo che spinge per acquisire diritti, per ora, senza far troppo rumore.

Leggi il post di Sancara "Vivere negli slums"


lunedì 12 dicembre 2016

Le donne più influenti del pianeta, anche un pò di Africa

Recentemente, e come ogni anno, il magazine di uno dei più autorevoli giornali economici-finanziari del mondo, l'inglese Financial Times, ha pubblicato la classifica delle donne più influenti nel pianeta nel corso del 2016. Un elenco di donne che in diversi campi hanno inciso sulle azioni, sui pensieri e sulle decisioni del nostro Pianeta. Dalla candidata sconfitta alla presidenza USA Hillary Clinton al Primo Ministro britannico Theresa May, dalla pluri-campionessa della ginnastica artistica Simone Biles alla cantante Beyonce. Insomma donne che nel nostro pianeta, contano, eccome.
In questo gruppo vi sono anche tre donne che hanno molto a che vedere con l'Africa. Vi è infatti la pittrice americana, ma nata in Nigeria, Njideka Akunyili Crosby. Un suo dipinto del 2012 "Drown" è stato venduto nel 2016 per 1,1 milioni di dollari. Njideka, nata a Enugu nel 1983, è emigrata negli USA quando aveva 16 anni. E' considerata una delle massime autorità nel campo dell'arte.
Vi è poi l'epidemiologia sudafricana Quarraisha Abdool Karim, una delle maggiori studiose al mondo sull'HIV nelle donne del nostro mondo, Accademica delle Scienze in Sudafrica e vincitrice nel 2016 del L'Oreal-UNESCO for Woman in Science Awards. Karim, nata a Tongaat nel 1960, sta dando un grande contributo alla prevenzione e al trattamento dell'HIV in particolare tra le donne africane.
Infine, ma non per importanza, la franco-marocchina Latifa Ibn Ziaten, musulmana, giunta in Francia dal Marocco nel 1977 (a 17 anni) è la madre di un giovane sorgente (Imad Ibn Ziaten, nato nel 1981 in Francia) ucciso nel 2012 vicino a Tolosa da un attentato terroristico di matrice islamica radicale. Dopo questo episodio Latifa ha creato una associazione che da allora si batte contro la radicalizzazione della comunità islamica in Francia, divenendo una delle massime attiviste del settore. Nel 2016 gli è stato conferito l'International Woman of Courage Award dal Dipartimento di Stato Americano.
Sono donne che per diverse e complementari ragioni, hanno portato il contributo dell'Africa nelle sorti del pianeta. Sono donne la cui intensità di vita deve costringerci tutti a riflettere sulle immagini distorte che abbiamo dell'Africa e delle sue genti.

sabato 3 dicembre 2016

Ousmane Sow, il fisioterapista scultore

Oggi è morto a Dakar Ousmane Sow. Aveva 81 anni ed era considerato unanimamente uno dei maggiori artisti senegalesi, dell'Africa Occidentale e dell'intera Africa. E' stato uno scultore particolare grazie ad uno studio maniacale dei materiali. Preparava egli stesso una pasta, composta da terra e minerali mescolati e macerata assieme ad altri prodotti, con cui modellava i suoi soggetti attorno ad armature di ferro, di tela o di paglia.
Al centro delle sue opere vi era sempre l'Uomo ed il suo corpo. Egli infatti, quando ancor prima dell'indipendenza del Senegal, era andato in Francia a studiare, aveva scelto di diventare infermiere e poi fisioterapista. Grazie alla sua professione aveva quindi per anni manipolato corpi, toccato muscoli ed esplorato ogni angolo del corpo umano, mentre contemporaneamente plasmava le sue opere. Grazie a questa intima conoscenza del corpo umano era in grado di scolpire soggetti umani senza avere dei modelli. Per una ventina d'anni aveva lavorato a Parigi come fisioterapista, fatto salvo una breve parentesi in Senegal dal 1965 al 1968, dove aveva tentato di avviare un servizio di fisioterapia, degno di questo nome, in Africa. Solo una volta rientrato definitivamente in Senegal (nel 1984) abbandonò la sua professione sanitaria per dedicarsi completamente alla scultura.
La sua prima mostra è del 1988.
Le sue opere sono dedicate in un primo tempo (dal 1984 al 1994 circa) ai corpi di popoli africani, la sua terra a cui sempre è rimasto intimamente legato. I Nuba, i Masai, i Peul e gli Zulu sono diventati i soggetti ispiratori della  sua arte e solo dopo, passando al lavoro in bronzo, si è dedicato ad altri soggetti (tra cui la statua realizzata a Ginevra nel 2008 in omaggio alla dignità degli immigrati sans-papier).
Nella sua vita ha sempre posto le sue opere davanti alla sua figura in una delle rare interviste aveva detto "voglio essere un artista anonimo. Oggi però l'artista sembra essere più importate delle sue opere. Voglio essere conosciuto non per quello che sono io ma, per le mie sculture. Le ammiro anch'io come le altre persone. Io non ho molto da dire, le mie sculture dicono tutto".


Ecco il suo sito ufficiale

sabato 19 novembre 2016

Mitumba, storie di magliette e di jeans. Una carità che rischia di far male

Mitumba in swahili significa "abiti usati" ma, in Africa Orientale, oramai significa mercato degli abiti usati.  In tutta l'Africa il mercato degli abiti usati diventa di giorno in giorno più florido. Il 90% degli abiti giungano dall'Europa e dall'America. In Africa, se da un lato è vero che molti vestono di abiti usati - soprattutto quelli che rappresentano la moda occidentale - è altrettanto vero che raramente gli abiti usati sono africani. Gli abiti si passano di fratello in fratello, fino all'esaurimento.
Allora la storia di questi indumenti incomincia nei contenitori che sono sparsi in tutta Europa e che raccolgono gli abiti usati. Questi contenitori - nati con lo scopo caritatevole - sono oggi diventati un luogo di contesa (a volte anche violenta). Qualche anno fa il quotidiano svizzero Tages Anziger ha accusato in modo diretto due dei principali collettori di indumenti usati (Texaid e Tell Tex) di essere complici di una competizione commerciale basata sull'inganno. A scanso di equivoci sono Aziende e non cooperative o associazioni caritatevoli.
La questione è che spesso gli enti raccoglitori (cooperative e non-profit) vendono i capi raccolti al chilo (dai 30 ai 50 centesimi al chilo) e poi ne perdono il controllo. Alla fine il prezzo al chilo può arrivate a 6 euro. I dati Italiani dicono che nel 2013 sono stati raccolti 111.000 tonnellate di vestiti usati. Ed è proprio in questa fase che si inseriscono le organizzazioni criminali (italiane e recentemente quelle nigeriane) Già nel 2014 la Direzione Antimafia Nazionale scriveva che "buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti". Del resto in tutte le inchieste da Mafia Capitale a quella della Terra dei Fuochi il business a dei vestiti usati sembra esserci sempre.
Se è vero che l'alternativa per evitare l'infiltrazione criminale è quella (come sempre!) di controllare interamente la filiera, dalla raccolta alla distribuzione in loco, come ad esempio fa, soprattutto per il Mozambico, Humana Italia, è altrettanto vero che si pone un altro problema.
Infatti, la Comunità dell'Africa dell'Est (EAC) sostiene che "il tessile, la lavorazione del pollame e la produzione automobilistica sono i settori che vanno incentivati per lo sviluppo industriale e per la creazione di posti di lavoro della regione. Per farlo, sostiene l'EAC, è necessario eliminare l'importazione dall'estero di merci e prodotti usati". L'EAC ritiene sia necessario bandire le importazioni entro tre anni.
Si stima che la produzione tessile dell'Africa Orientale sopperisce per solo il 10% al fabbisogno della popolazione.
Insomma, sia che le organizzazioni criminali si infiltrino nel commercio sia che si controlli la filiera della distribuzione, il rischio che l'azione caritatevole che molti fanno, portando i vestiti usati nei raccoglitori sparsi per strada, si trasformi in un boomerang è alta.
Se per l'Africa Orientale è maturo il tempo di una riflessione su questo commercio, in Africa Occidentale la questione sembra diversa e sembra essere nelle mani della mafia nigeriana.
Oggi la maggioranza delle spedizioni vanno proprio verso l'Occidente Africano, dove il mercato sembra crescere di giorno in giorno.

Come spesso accade le buone intenzioni iniziali finiscono per danneggiare non solo l'azione stessa ma, rischiano di incidere fortemente sul futuro di intere popolazioni.

Già tempo fa  (nel 2005) l'economista italo-americana Pietra Rivoli aveva pubblicato "Viaggi di una T-shirt nell'economia globale", edito dalla Apogeo, in cui raccontava il florido mercato - e le sue distorsioni - degli abiti usati.

sabato 5 novembre 2016

Parco Nazionale Impenetrabile di Bwindi

Nel sud-ovest dell'Uganda, in una zona al confine con la Repubblica Democratica  del Congo, si trova questo parco di oltre 32.092 mila ettari (circa 331 chilometri quadrati, di cui l'ultimo ampliamento risale al 2003), il cui nome rende già perfettamente l'idea della sua natura, che funge da confine tra la pianura (foresta tropicale) e le montagne. Il parco si estende da un'altitudine di 1000 metri fino a vette che superano i 2700 metri. Un parco che offre una maestosa biodiversità, con oltre 200 specie di alberi, 100 diverse specie di felci, oltre 120 mammiferi, 347 specie di uccelli, 202 specie di farfalle e una trentina di anfibi, tra cui molte specie a rischio estinzione. Il Bwindi è quindi uno dei parchi con l'ecosistema più ricco d'Africa e può essere girato, con difficoltà, solo a piedi.
Al suo interno vivono alcune specie di primati come il gorilla di montagna, lo scimpanzè e il colobo. In particolare per quanto riguarda i gorilla, gli studiosi ritengono che all'interno del Parco abiti oggi la metà (dai 300 ai 350 esemplari) dei gorilla di montagna ancora esistenti nel mondo (l'altra metà vive nel vicino parco di Virunga).
Il parco, istituito nel 1991 (sebbene due parti distinte di esso erano protetti come riserva fin dal 1932), è posto sotto la tutela dell'Uganda Wildlife Authority (UWA), uns istituzione parastale, ed è protetto dalla Costituzione (1995) del Paese. All'interno vi è un istituto di ricerca permanente dove collaborano ONG da tutto il mondo. Dopo alcuni episodi risalenti al 1999, quando ribelli ruandesi presero in ostaggio turisti all'interno del Parco, oggi è possibile solo entrare con guide armate. Il punto di partenza per le visite è la città di Kabale (ad una trentina di chilometri dall'ingresso del parco). Il trekking all'interno del parco permette di osservare da vicino alcuni gruppi di gorilla, senza per questo impattare troppo sull'ecositema naturale. Vi sono due stagioni di piogge (marzo-maggio e settembre-novembre).
Nel 1994 il Parco è diventato sito Patrimonio dell'Umanità UNESCO.

Ecco il sito del parco: www.bwindiforestnationalpark.com
Ecco una parziale lista delle specie presenti al Bwindi (dal sito TEAM)

Vai alla pagina di Sancara sui Siti Patrimonio dell'Umanità

domenica 30 ottobre 2016

Ippopotamo, il cavallo di fiume

L'ippopotamo (Hippopotamus amphibius), dal greco "cavallo di fiume" è un gigantesco  mammifero erbivoro africano che può arrivare a pesare 1800 chilogrammi. Attualmente, delle quattro specie conosciute della famiglia degli Hippopotamidae, rappresenta una dei due generi ancora viventi. L'altro è l'ippopotamo pigmeo (Hexaprotodon liberienisis). Sono oramai estinte, da tempo, le specie di ippopotami che vivevano in Europa e in Madagascar. 
In accordo con la classificazione della lista rossa dell'IUCN l'ippopotamo è una specie vulnerabile (VU) (nel 1996 era classificato come a basso rischio di estinzione). 
Sebbene non vi siano studi precisi e sia molto difficile ipotizzare la popolazione totale degli ippopotami che comunque non dovrebbe superare le 150 mila unità.
E' interessante notare come studi recenti hanno portato a stabilire che geneticamente l'ippopotamo è più vicino alla balena che ad altri artiodattili (bovini, ad esempio).
E' un erbivoro (sebbene gli zoologi lo definiscano un "carnivoro facoltativo", perché in talune circostanze mangia anche carcasse di animali) che pascola spesso durante la notte, perché durante il giorno passa la maggior parte del tempo in acqua, semisommerso.
La sua presenza ha una funzione utile per l'intero ecosistema, contribuendo a concimare la terra (con le sue feci), favorendo così la sopravvivenza di altre specie animali e a proteggere le area dagli incendi poiché nei pascoli degli ippopotami l'erba sembra tagliata da un giardiniere!
Naturalmente gli ippopotami non distinguono tra erba spontanea e campi coltivati entrando in contrasto con gli agricoltori. Inoltre altri due pericoli incombono sulla sua sopravvivenza: la sua carne è molto apprezzata e, cosa più grave, i suoi canini (che possono essere anche 60 centimetri) sono ricercati come sostitutivi dell'avorio.
Contrariamente alle apparenze, è un animale molto veloce che diventa aggressivo se si entra nel suo territorio. Viene ritenuto il secondo animale, dopo il coccodrillo, più pericoloso in Africa.

La sua distribuzione in Africa, che un tempo era molto ampia (in rosso nella mappa) è ora diventata esigua ed a macchia di leopardo (in verde). Lungo la valle del Nilo, dove un tempo gli ippopotami vivevano fino alla foce, oggi non superano Khartoum. Vive inoltre anche fino a 2000 metri di altitudine, dove il suo corpo ben si adatta anche a temperature vicino allo zero.
Tra le storie curiose sugli ippopotami vi è senz'altro quella di Pablo Escobar, il più conosciuto narcotrafficante del mondo, che durante l'epoca del suo massimo "splendore" (negli anni '80 - Escobar fu ucciso nel 1993) si era fatto arrivare - clandestinamente come ogni cosa - due esemplari di ippopotami da mettere nello zoo, situato nell'Hacienza Napoles, che aveva allestito per suo figlio. Nel tempo gli animali si sono riprodotti e sembra abbiano raggiunto il numero di 50 esemplari, con un grande problema di gestione.

Lake Manyara, 1991
Resta però tutto il fascino di questo enorme animale, che da lontano sembra appunto essere un "grande bonaccione" e che visto nel suo habitat appare in tutta la sua bellezza.

La prima volta che ho visto gli ippopotami in acqua, nel loro habitat naturale è stato a Lake Manyara, in Tanzania, la foto è di quel giorno. Fu uno spettacolo meraviglioso. Una ventina di esemplari erano solo a pochi metri da me e intorno a loro centinaia di pellicani e cormorani. I loro suoni rimbombavano nell'aria e di tanto in tanto sembravano scoppiare delle enormi risse, con uno scatto le enormi bocche si aprivano e mostravano enormi denti. L'acqua si agitava e gli uccelli volavano via creando un'enorme nuvola bianca e nera. Poi, solo pochi secondi dopo, tutto tornava alla normalità. Dalla sponda del lago gli ippopotami sembravano innocui e per nulla aggressivi. 

Ecco la scheda dell'IUCN dell'Ippopotamo
Ecco la scheda su African Wildlife Foundation

Vai alla pagina di Sancara sugli Animali d'Africa

martedì 25 ottobre 2016

Gli Stati fragili: un problema mondiale

Quando nel 2010 Sancara affrontò per la prima volta (leggi post) la questione degli Stati in via di fallimento, dove ieri come oggi l'Africa "regnava" sovrana, riferivo di questa analisi fatta da Lester Brown (uno dei massimi esponenti del movimento ambientalista) proprio sul tema degli stati prossimi al fallimento.
La sua tesi era che se nel secolo scorso la principale minaccia derivava dal conflitto tra le superpotenze, oggi è data dagli stati in via di fallimento. Secondo Brown è l'assenza del potere (e non la sua concentrazione) a metterci a rischio. Gli stati in via di fallimento sono un problema internazionale perchè sono focolai di terrorismo, di armi, di droga e di profughi. Egli usava ad esempio la Somalia (al primo posto degli stati falliti fin dal 2008) divenuto una base per la pirateria, Iraq base per l'addestramento dei terroristi, l'Afghanistan leader della produzione mondiale di eroina e la Repubblica Democratica del Congo paese destabilizzato per la grande presenza di profughi ruandesi
La sua analisi porta a dire che la civiltà globale dipende da una rete funzionante di stati, capaci di controllare il diffondersi delle malattie come i fenomeni del terrorismo internazionale, ovvero capaci di collaborare al raggiungimento di obiettivi comuni come ad esempio quello dell'aumento della denutrizione nel mondo e la decrescita delle scorte alimentari. 

Oggi la situazione è esattamente come Brown l'aveva descritta, con l'aggiunta che la questione dei profughi ha assunto una rilevanza maggiore e non è più riferita esclusivamente al continente africano.
In questi anni si è passati dal concetto di Stato in via di fallimento (che richiamava troppo a questioni meramente economiche) al concetto di Stato Fragile, un modo diverso per definire paesi con istituzioni statali deboli o instabili, dove povertà, corruzione e violenza innescano una spirale depressiva che non trova soluzioni.
Anche quest'anno il The Fund of Peace - organizzazione indipendente americana sorta nel 1957 - ha pubblicato l'annuale indice di fragilità di 178 paesi del mondo, dove 12 parametri (economici, politici e sociali) vengono messi a confronto contribuendo così a compilare una graduatoria che parte dai paesi con un altissimo allarme di fragilità e si conclude con paesi molto sostenibili.
Il rapporto inoltre pone l'attenzione - per la prima volta -  sul fatto che la sostenibilità dei paesi è messa a dura prova dall'ondata di profughi, i quali, inutile sottolinearlo dipendono dalla fragilità degli stati da cui essi si muovono.
Si è creato un pericolo corto circuito che - così come nelle previsione di Brown - rischia di mettere in difficoltà l'intero sistema mondiale.

La lista del 2016 vede ancora una volta la Somalia (oramai in testa alla classifica da quasi dieci anni) quale stato a maggiore fragilità, seguito da Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Sudan, Yemen, Siria, Ciad e Repubblica Democratica del Congo - tutti in una situazione di estrema fragilità.

Inutile dire che dei 38 paesi definiti in uno stato di grave fragilità, bel 27 sono africani. Ovvero, metà dell'Africa (27 stati di 54) è in una situazione di grave fragilità.

Nella classifica alta,  ovvero tra i paesi maggiormente sostenibili, troviamo nell'ordine la Finlandia (da anni in testa alla classifica, ovvero al 178° posto), Norvegia, Nuova Zelanda, Danimarca, Svizzera, Australia, Irlanda, Svezia, Islanda e Canada.
 
L'Italia in 148 posizione (su 178) è sostanzialmente stabile (era in 147° nel 2013).

Quanto la fragilità degli stati incide su flussi migratori verso i paesi accessibili e che si trovano più in alto nella classifica della sostenibilità è di semplice deduzione e sembra avere una correlazione diretta. Nel corso del 2016 infatti sono giunti via mare in Europa circa 330 mila persone. Di questi il 28% dalla Siria, il 14% dall'Afghanistan, l'8% dall'Iraq, l'8% dalla Nigeria, il 5% dall'Eritrea e il 3% dal Pakistan.
Se scorriamo la classifica dell'indice di fragilità troviamo: la Siria al 6° posto, l'Afghanistan al 9°, l'Iraq all'11°, la Nigeria al 13°, l'Eritrea al 18° e il Pakistan al 14°.

Questo porta a dire - senza paura di esseri smentiti e come diceva Brown- che dalla fragilità di quei paesi dipende la civiltà globale.

Stati in Via di fallimento, indice 2013

martedì 18 ottobre 2016

Giornata Europea contro la tratta di esseri umani

Oggi in Europa si celebra la Giornata contro la Tratta di Esseri Umani, un fenomeno che ha assunto livelli di allarme nel nostro continente. La tratta è il business moderno delle organizzazioni criminali, secondo alcuni il terzo per fatturato dopo armi e droga, secondo altri secondo solo alla vendita di armi.
Un fenomeno raccapricciante da qualsiasi punto di vista si osservi. Un atto infame contro l'Umanità.
Oggi in Europa si stimano oltre un milione di vittime di tratta e/o di grave sfruttamento. Nel mondo i numeri salgono vicini ai 30 milioni di donne, uomini e bambini.
Bisogna fare attenzione. La tratta nulla c'entra con il fenomeno - allarmante e intollerante - che conosciamo sotto il generico nome di "scafisti" (tecnicamente smuggling). Un conto è chiedere soldi per trasportare, spesso come bestie, uomini e donne, dall'altra parte del mare; altro conto è la riduzione in schiavitù di donne e uomini, piccoli e grandi.
Perché quando si parla di tratta, si parla di una moderna schiavitù.
Una schiavitù spesso più subdola, a volte senza catene fisiche ma, che si gioca sull'inganno, sulla paura e spesso sugli affetti.
Le vittime della tratta sono coinvolte principalmente nello sfruttamento sessuale,  giovani donne, quasi bambine, sbattute in strada ad aspettare ogni genere di clienti; nel lavoro forzato e sfruttato, uomini costretti a lavorare nei campi come nelle manifatture, senza nessuna tutele , senza orari e con salari da fame; nelle economie illegali forzate, giovani ragazzi costretti a spacciare o a rubare; nell'accattonaggio forzato, uomini e donne a cui nemmeno chiedere l'elemosina e concesso; nei matrimoni forzati, bambine date in spose a vecchi in ogni parte del mondo.


Questo è il prezzo che paghiamo per la nostra incapacità di vedere oltre al colore della pelle, oltre al fastidio, oltre al degrado. Dietro a quelle donne o a quegli uomini, che tanto ci infastidiscono e ci indignano, vi sono spesso storie atroci e violenze inaudite.


Perché allora un blog che parla d'Africa si occupa della tratta? Ancora una volta, così come è stato secoli addietro, a farne le spese sono molto i popoli africani.
Se ci soffermiamo alla sola Italia e nell'ultimo biennio, delle circa 1000 vittime di tratta, che ogni anno entrano nei programmi di tutele e assistenza sociale previsti dalla normativa, oltre il 70% sono africani.
L'80% delle vittime accertate (l'invisibile in questo settore è un'enorme buono nero) sono soggette a sfruttamento sessuale.
La maggioranza di esse sono donne giovani nigeriane.
Quello della prostituzione nigeriana forzata (quasi sempre da un mix tra inganno, debito contratto per giungere in Europa, sfruttamento e violenza) è una storia che si ripete da decenni e che solo recentemente ha visto una nuova - e grave - impennata perché le organizzazioni criminali stanno percorrendo le confuse vie della richiesta d'asilo. Tanto per dare due numeri, nel 2013 erano state 450 le donne nigeriane giunte in Italia, nel 2015 sono oltre 5.600!

Donne che - salvo rare eccezioni - sono destinate alla prostituzione. Affermare oggi che i clienti italiani (spesso padri di famiglia) che pagano una prestazione a giovani donne nigeriane siano complici del loro sfruttamento appare - forse come non mai - una verità inconfutabile!
Così come senza una tracciabilità chiara della filiera agro-alimentare molti dei prodotti che troviamo nei banchi del supermercato e che consumiamo, sono i frutti insanguinati dello sfruttamento di uomini e donne.


Oggi in tutta Italia si svolgono manifestazioni ed eventi per celebrare la Giornata Europea contro la Tratta. Un'iniziativa lanciata dal Numero Verde Nazionale contro la Tratta (800 290 290). Sotto lo slogan/hashtag #liberailtuosogno in molte città italiane saranno lanciati dei palloncini e distribuito informazioni su questo dramma che non possiamo restare seduti ad osservare.

Potete seguire tutte le iniziative sulla pagina Facebook dedicata (
https://www.facebook.com/Decima-Giornata-Europea-Contro-la-Tratta-1186172398110766/).




venerdì 14 ottobre 2016

#bringbackourgirls due anni dopo

Era il 14 aprile del 2014 quando a Chibok, una cittadina (circa 70 mila abitanti) del Borno State nel Nord-Est della Nigeria, non lontano dal confine con il Camerun, vennero rapite 276 giovani ragazze - tutte studentesse - dal gruppo islamico radicale Boko Haram.
La notizia fece il giro del mondo e indignò profondamente l'opinione pubblica. Una grande campagna lanciata nei social, sotto l'hashtag #bringbackourgirls fece rapidamente il giro del mondo. Le pressioni portano ad interventi forti, non solo di condanna, nei confronti dei criminali di Boko Haram, ma nessun reale risultato.
Infatti delle 276 ragazze rapite quel giorno all'interno del dormitorio dell'Istituto scolastico che frequentavano, 57 riuscirono a scappare dai camion che le trasportavano e ben 219 rimasero nelle mani di Boko Haram. Da quel giorno, a parte qualche video che le ritraeva completamente vestite di nero, nessuna notizia si ebbe di loro.
Nel mese di maggio 2016, due anni dopo, una delle ragazze fu ritrovata nella foresta di Sambisa mentre raccoglieva legna e liberata. La ragazza, di 19 anni quando fu trovata era incinta. Da lei si apprese anche che 6 di quelle ragazze erano morte durante la prigionia.
Ieri è diventata ufficiale la voce che 21 di quelle 212 ragazze erano state liberate grazie ad uno scambio - negato dal governo - con quattro prigionieri della "milizia".
Secondo le fonti più accreditate lo scambio sarebbe avvenuto grazie all'intermediazione della Croce Rossa e del Governo Svizzero. Incerta invece la voce che vede 18 delle 21 ragazze incinte o con figli.
Quel che è certo è che le ragazze siano state "usate" dai rapitori, nella migliore delle ipotesi, come loro concubine. 
La logica perversa per cui milizie armate che vivono in fuga e nascondendosi in continuazione si procacciano donne per il loro piacere o per farle diventare forzatamente loro mogli, per quanto atroce, non è una novità.
La storia è ricca di racconti di questo genere. Certo numeri così alti nello stesso tempo (in realtà le donne prigioniere sono molte di più)  sono un fatto nuovo e preoccupante. 
Inutile sottolineare come i racconti delle sopravvissute siano drammatici e densi di particolari violenti tali da far comprendere, senza ombra di dubbio, che la religione con questi criminali c'entra ben poco. Del resto è cosa nota, oltre le semplificazioni, che il gruppo sia composto da innumerevoli fazioni e che vi siano all'interno elementi legati alla criminalità, alla politica e alla religione. Il gruppo, fin dal suo esordio, all'inizio degli anni 2000, fu sottovalutato e confinato - perfino dall'Amministrazione Americana - come un fatto localizzato.
Oggi la situazione in Nigeria è critica. Da una parte le questione petrolifera sempre più in bilico tra le devastazioni territoriali, la povertà crescente e il disimpegno annunciato e in parte attuato delle compagnie petrolifere, dall'altra il nord del paese in cui Boko Haram ha generato una vera e propria calamità.


mercoledì 28 settembre 2016

Criminali contro il Patrimonio

La notizia di questi giorni - della condanna a 8 anni di carcere per Ahmad Al Faqi Al Mahdi, estremista maliano che nel 2012 ordinò la distruzione di una parte importante del patrimonio archeologico di Timbuktu, la "città d'oro", oltre d essere una decisione di portata storica, pone un punto fermo nella storia del diritto e della giustizia in questi difficili tempi.
Al Mahdi, un tuareg oggi di 41 anni, ex direttore di una scuola, che è stato a capo delle brigate fondamentaliste che a partire dall'aprile 2012 (vedi post) hanno messo a fuoco e fiamme l'Azawad  (la regione desertica a nord del Mali), anche a grazie a pericolose alleanze con gli estremisti di matrice islamica, è stato condannato dalla Corte Internazionale dell'Aia "per crimini di guerra".
Certo le colpe di Al Mahdi sono anche peggiori (e per ora non indagate nei capi d'accusa del processo iniziato il 22 agosto e da poco concluso), infatti sono certe le sue azioni (e dei suoi uomini) per quanto attiene la sfera delle torture e degli stupri.
A partire dal 2012 (in particolare tra giugno e luglio) i suoi uomini presero d'assalto, con martelli e zappe, il cimitero di Djingareybar e la moschea di Sidi  Bahia di Timbuktu e diedero fuoco alla storica biblioteca cittadina e al centro di documentazione Ahmed Babà.
La condanna di Al Mahdi arrestato nell'agosto 2014 e che durante il processo si è dichiarato pentito delle sue azioni rappresenta una fatto di grande importanza. Per la prima volta la corte giudica qualcuno non per reati contro l'Uomo ma contro il Patrimonio dell'Uomo. Si afferma con forza il principio secondo il quale nessuno può permettersi di distruggere patrimoni architettonici dell'Umanità senza per questo pagare per le proprie azioni.

A partire dal 2015 e per tutto l'anno in corso il Patrimonio architettonico della città d'oro è stato restaurato grazie all'intervento dell'UNESCO che da subito ha dichiarato l'emergenza per il Patrimonio Storico di Timbuktu.
E' bene sottolineare che per ora i distruttori del Patrimonio artistico in Afghanistan, in Iraq o in Siria non sono stati ancora puniti per i loro crimini.
Certo resta l'amarezza di vedere Al Mahdi condannato per i crimini contro la storia e non per quelli (per ora) contro la vita.



sabato 10 settembre 2016

La Casbah di Algeri

La Casbah (si trova scritto anche Qasba o Kasbah) - ovvero la "cittadella" fortificata di una città araba ha assunto in alcune città del nord Africa le funzioni di una vera e proprio città nella città. Nel nord dell'Africa, dal Marocco alla Mauritania, dall'Algeria all'Egitto si trovano stupendi esempi di città fortificate che sono state quasi tutte poste, per le loro caratteristiche e per il valore storico-architettonico, tra i siti Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO.
La casbah di Algeri è una di queste. Costruita sulle rovine dell'antica città fenicia Icosium (conquistata poi da romani) nel corso del XVI secolo rappresenta un esempio di architettura islamica che ha influenzato le scelte architettoniche di molte altre parti del Magreb, dell'Africa sub-sahariana e perfino dell'Andalusia.
Edificata su di una collina che raggiunge i 150 metri d'altezza che scende verso il mare, si estendeva per circa 50 ettari (oggi, dopo l'interevento francese, sono meno di 18) ed è oggi un labirinto di vicoli e pittoresche case tradizionali, abitato da quasi 50 mila persone, dove si trovano importanti esempi di architettura religiosa come la mosceha di Ketchaoua (costruita alla fine del 1700), la moschea di Djedid (della seconda metà del 1600), la mosceha di El Kebir (la più antica delle mosche, poi ricostruita a fine del 1700) e la mosceha di Ali Betchnin (prima metà del 1600). Vi sono inoltre minareti, hammam, palazzi (alcuni abbandonati) e mura.
La Casbah di Algeri rappresenta l'antico nucleo storico della città, rimasto in parte inviolato, dopo la conquista francese che ne hanno in parte mutilato le parti più verso il mare per dar spazio all'agglomerato urbano.
Dal 1992 l'UNESCO ha inserito la Casbah dei Algeri nella lista dei Patrimoni dell'Umanità per il suo alto valore culturale, artistico e architettonico.

La Casbah di Algeri, con i suoi vicoli ed i suoi livelli in cui si sviluppa, è stata protagonista di molti film. Alcuni comici, come Totò le Mokò e altri drammatici. Tra i capolavori girati ad Algeri vi è senz'altro La Battaglia di Algeri, un film del 1966, diretto dall'italiano Gillo Pontecorvo, che ha saputo accendere i riflettori sulla sanguinosa guerra di liberazione algerina.


Vai alla pagina di Sancara sui Patrimoni dell'Umanità UNESCO in Africa
 

  

lunedì 5 settembre 2016

I Gorilla prossimi all'estinzione

La notizia è diventata ufficiale in questi giorni, quando la Conferenza Internazionale dell'IUCN (International Union for Conservation of Nature) in corso nelle Hawaii, ha decretato la revisione della Lista Rossa - una sorta di monitoraggio in tempo reale di quasi 83 mila specie, animali e vegetali, che  sono minacciate di estinzione nel mondo.
La conferenza ha incluso anche il Gorilla Orientale (Gorilla beringei), come già da anni il Gorilla Occidentale (Gorilla gorilla) nella lista degli animali a critico rischio di estinzione. In termini tecnici rappresenta l'ultimo gradino prima della definitiva scomparsa di questo animale dal nostro pianeta.
Secondo l'IUCN negli ultimi 20 anni la popolazione dei gorilla si è ridotta del 70%, arrivando oramai a contare meno di 5000 esemplari (erano oltre 17 mila  nel 1995).
Come è noto i Gorilla vivono solo in Africa (Sancara ne aveva parlato in questo post) e sono rappresentati appunto da due grandi specie quella Occidentale e quella Orientale, che è il più grande primate esistente sul nostro pianeta, entrambi con due sottospecie.
Con il Gorilla Orientale, diventano così 4 su 6 le specie dei grandi primati che sono a critico rischio di estinzione (i due gorilla e le due specie di Oranghi asiatici), mentre "solo" a rischio estinzione lo Scimpanzé e il Bonobo.

Insomma si profila il rischio concreto che le specie animali più prossime al genere umano scompaiano dalla Terra, uccisi dalle specie umana, l'unica specie capace di distruggere anche se stessa.
Infatti alla base della drastica riduzione del numero dei gorilla vi è l'uomo, che attraverso il bracconaggio e la distruzione degli habitat naturali ha letteralmente decimato i gorilla (e non solo).
Il gorilla orientale ha la "sfortuna" di vivere in un habitat, tra i meravigliosi monti nella Repubblica Democratica del Congo, del Ruanda e dell'Uganda che sono anche al centro di sanguinosi conflitti. I Gorilla rappresentano fonte di guadagno per i bracconieri, come trofei e come carne. 

E' una storia vecchia, sia chiara. Ne ha fatto le spese, ancora nel 1985, la primatologa americana Dian Fossey, che per prima si è scontrata con la difficoltà di proteggere questa specie dal suo peggior nemico o più recentemente Ishara Birindiwa, il giovane ranger, che ha perso la vita per difendere questi straordinari animali dai bracconieri.

Certo è difficile pensare che lo stesso Uomo, quello che in più luoghi del Pianeta sta distruggendo se stesso, sia capace di salvaguardare esseri, che tolti dal loro habitat, dimostrano una enorme fragilità.


lunedì 22 agosto 2016

L'Africa a Rio 2016

Si sono conclusi a Rio, In Brasile,  i 31° Giochi Olimpici estivi dell'era moderna. I primi della storia in America Latina. Un'edizione che ha visto il massimo numero di delegazioni presenti (207) e per la prima volta una "squadra" di atleti in esilio (composta da 10 persone, otto dei quali africani). Con la partecipazione di atleti del Sud Sudan, tutti i 54 paesi africani hanno preso parte ai Giochi Olimpici.
E' stata una edizione che per l'Africa rappresenta un record, infatti le 45 medaglie conquistate (10 ori, 19 argenti e 16 bronzi), da 11 nazioni africane (nel 2008 erano state 13 le nazioni a medaglia), rappresentano il massimo mai realizzato dal continente africano (il record precedente erano le 40 madaglie di Pechino 2008).
Sebbene sia l'Atletica leggera a fare da padrone nella speciale classifica del medagliere africano (il Kenya, con Rio, ha raggiunto le 92 medaglie nell'atletica), seguita dal pugilato, altre discipline si affacciano nel panorama degli sport olimpici medagliati, così come crescono le vittorie al femminile.
Nel corso delle Olimpiadi di Londra 2012, scrissi un post dedicato alla prima medaglia africana nella scherma. Si trattava della medaglia d'argento nel fioretto di Alaaeeldin Abouelkassem, un fatto storico per l'Egitto e per il continente africano.
A Rio è caduto un altro muro. Quello della prima medaglia olimpiaca africana nella scherma al femminile. Si tratta della medaglia di bronzo della tunisina Ines Boubakri, 28enne nata a Tunisi e che già ai mondiali di Kazan nel 2014 aveva raggiunto il più basso gradino del podio. Ines, che vive in Francia dove è sposata con uno schermitore, è alla sua terza Olimpiade, avendo partecipato a quelle di Pechino e di Londra.
Così come è di grande importanza la prima medaglia nella lotta al femminile, conquista dalla tunisina Marwa Amri, al suo secondo tentativo Olimpico. Infine, per chiudere il discorso al femminile, storica anche la medaglia di bronzo dell'egiziana Sara Ahmed, che nel sollevamento pesi - ha sollevato 112 chili, quasi il doppio del suo peso - raccogliendo così la prima medaglia femminile africana nel sollevamento pesi. Tre donne, che assieme alle tante altre africane che sono andate a medaglia in questa edizione dei giochi, rappresentano le tante facce, talora contraddittorie,  dell'Africa e in questo caso del Magreb.
Nell'atletica leggera, ad esempio, se si analizzano le gare di fondo in campo femminile (5000, 10000 e maratona), tutti i podi sono occupate da atlete africane (in realtà la seconda della maratona è una keniota che gareggia per il Bahrein)

In particolare la prestazione della ventiquenne etiope Almaz Ayana, ha dell'incredibile. Nei 10.000 oltre a vincere la medaglia d'oro, ha stabilito il nuovo record del mondo demolendo quello del 1993 della cinese Wang. Una settimana dopo ha anche vinto il bronzo nei 5.000 metri. 

Le Olimpiadi di Rio hanno anche messo in luce altre realtà dello sport africano, come la prima medaglia d'oro nel Teakwondo, ottenuta dall'ivoriano Cheick Sallah Cissè in una disciplina in cui già sei paesi africani sono andati a medaglia (5 delle 8 medaglie africane sono state vinte a Rio). L'Africa va inoltre a medaglia per la prima volta nel Triathlon, con il sudafricano Henri Schoeman e nel Rugby a 7 sempre con il Sudafrica.

Ad oggi sono complessivamente 27 (ovvero la metà) le nazioni africane andate almeno una volta a medaglia, in una classifca che vede in testa il Kenya con 99 medaglie (31 ori, 38 argenti e 30 bronzi), seguita dal Sudafrica con 88 (25 ori, 33 argento e 30 bronzo) e Etiopia con 53 (22 ori, 10 argenti e 21 bronzi).
 
L'Africa nel suo insieme cresce anche da un punto di vista sportivo. Certo ancora sono molti i problemi legati alle strutture soprattutto nell'Africa sub-sahariana ma, il potenziale è altissmo.