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giovedì 31 luglio 2014

L'auto africana

Qualche giorno fa ho letto l'interessante post di Fulvio Beltrami sulla nascita in Uganda della prima casa automobilistica del continente (in realtà gia nel 2012 la Tunisia aveva presentato la Barkia, autovettura progettata e costruita nel paese). Una notizia che Fulvio commenta correttamente come parte del processo di industrializzazione africano e tappa obbligatoria per uscire dal sottosviluppo.

La questione delle auto (ma più in generale dei trasporti) in Africa è complessa e per molti versi divertente. La parte seria è che l'Africa è l'unico continente che non produce automobili (nemmeno per conto di altri, ad eccezione del Sudafrica), ha il più basso numero di auto rispetto alla popolazione e al tempo stesso è un mercato ampio e di sicura espansione.
In Africa permangono problemi infrastrutturali (le strade, fuori dalla grandi città, sono in pessime condizioni) o ancora non asfaltate. Risentono fortemente delle mutazioni climatiche: piogge e siccità richiedono doti di guida meno comuni. Distributori ancora poco diffusi. Certo quel che si vede sulle strade africane è fantastico.

L'auto è un mezzo di trasporto e come tale va ottimizzato, caricando tra umani, merci e animali, tutto il possibile.
Oggi il mercato delle auto in Africa è in mano ai giapponesi. Le auto maggiormente in circolazione sono  nell'ordine Toyota, Nissan, Honda, Madza, Mitsubishi, Subaru, Suzuki, Isuzu, Daihatsu e Hino. Solo dopo arrivano le auto europee, capeggiate da Mercedes, Bmw, Volkswagen, Audi e Peugeot. E infine la Ford e la Land Rover. Inutile dire che il mercato africano. per l'Italia. non esiste.
Vi è da aggiungere che l'Africa detiene il record mondiale di auto di seconda mano, che per 80% sono di marche giapponesi. Del resto le auto giapponese (in testa SUV e in genere fuoristrada) hanno maggiore affidabilità e possono contare su un efficiente servizio di assistenza e di pezzi di ricambio. Naturalmente l'Africa è diventata una discarica di auto usate. Dai porti africani fuoriescono ogni giorno rottami (e non solo) di auto che il mercato europeo respinge e che in Africa trovano nuova vita.
Del resto la vita delle auto che giungono in Africa è pressoché eterna.
I giapponesi hanno saputo sostituirsi con velocità alle auto francesi (la Renault e la Peugeot in primis) che rappresentavano un quasi monopolio in Africa fino ai primi anni post-coloniali.

Io resto affascinato dalla capacità di stipare bagagli e persone (vedi questo post sul Taxi Brousse), un'arte che viene praticata con grande naturalezza e maestria.

Sicuramente il mercato delle auto, per ora fiorente soprattutto nel campo dell'usato, diventerà ben presto una delle tante scommesse per l'Africa.

Buon viaggio!!!!

mercoledì 30 luglio 2014

La Riserva della Biosfera di Yayu

La riserva della Biosfera di Yayu (The Yayu Coffee Forest Biosphere Reserve) si trova nella regione Oromia nel Sud-Ovest dell'Etiopia, 560 km a ovest di Addis Abeba, rappresenta una delle Riserve della Biosfera in cui è più intensa l'attività umana. All'interno della riserva, gli oltre 150 mila abitanti, producono 20 mila tonnellate di caffè (sulle circa 240 mila dell'Etiopia), della specie arabica di cui la riserva detiene il più alto numero di piante di caffè selvatico al mondo. L'ambiente della riserva, esteso su 167 mila ettari, è costituito da foreste vergini, da sistemi semiforestali e da altopiani fertili, che si trovano tra i 1000 e 2000 metri di altitudine.  Essa gioca un ruolo chiave nella conservazione naturale e culturale dell'intera regione. Inoltre grazie a siti archeologici, siti rituali e grotte riveste anche un importante valore storico, non ancora tutto riportato alla luce.
in verde le 5 core area della Riserva
La riserva è divenuta una Riserva della Biosfera tutelata dall'UNESCO nel 2010 e in accordo con le caratteristiche delle classificazioni del programma Man and Biosphere (MAB), lanciato nel 1971dall'UNESCO, si divide in una core area (in realtà a Yayu sono 5 zone distinte) di circa 27 mila ettari, che rappresenta la riserva integrale. Oltre 21 mila ettari di buffer area, dove sono previste attività produttive umane sostenibili con l'ambiente e infine 117 mila ettari di transition area dove si svolgono le principali attività produttive (coltivazione del caffè) e risiedono le popolazioni locali.
Non mancano nelle foreste mammiferi quali scimmie e babbuini, buffali, iene e jackal. Così come vi sono innumerevoli specie di uccelli (vi è un'area oggi classificata come birds reserve).
Il pericolo per la Riserva è costituita, quale novità, dall'uomo che distrugge gli habitat periferici soprattutto con gli incendi. Da anni due progetti tedeschi intervengono, con ricerca e azioni di conservazione, sulla tutela del patrimonio della pianta del caffè selvatica.

Sono in corso anche studi sulla produzione di energia elettrica dai resti della lavorazione del caffè.

Naturalmente i coltivatori locali di caffè sono l'ultimo anello di un sistema produttivo che li vede più vittime che artefici del loro duro lavoro. (vedi questo post di Sancara sul Caffè)

Vai alla Pagina di Sancara sulle Riserva della Biosfera in Africa 

martedì 29 luglio 2014

Rapporto sullo Sviluppo Umano 2014, il Sud rallenta

L'UNDP ha pubblicato di recente il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2014, l'annuale appuntamento che fotografa lo stato delle nazioni del pianeta confrontandole tra di loro con un Indicatore di Sviluppo Umano. Un indicatore macroeconomico, alternativo e "meno freddo" del semplice PIL, inventato nel 1990 dall'economista pakistano Mahbub ul-Haq. 
Tale indicatore si basa su parametri relativi all'aspettativa di vita alla nascita, alla scolarizzazione e sul reddito pro capite.

Il rapporto fotografa dal 1990 (anno in cui fu pubblicato il primo rapporto) la situazione del sistema mondo, indicandone tendenze e possibili scenari futuri.

Il rapporto 2014 pone l'attenzione sul concetto di vulnerabilità, ovvero quello stato di precarietà sociale ed economica in cui, oramai sempre più, ampie fasce di individui nel mondo si trovano ad essere. Le conquiste degli ultimi decenni non hanno portato ad una situazione stabile, per cui sempre più intere popolazioni si trovano sull'orlo del baratro della povertà. Se è vero, come sostiene il rapporto, che sono 1 miliardo e 200 mila i poveri del mondo (15% della popolazione) che vivono sotto la soglia di povertà (1,25 dollari al giorno), vi sono altri 800 mila individui che sono molto vicini a questa soglia. 
Del resto dopo i progressi evidenziati nel passato, negli ultimi anni i rapporti sottolineano come lo sviluppo generale continua, ma a ritmi molto più lenti.

Naturalmente il rapporto analizza nel dettaglio cause e risvolti di ogni situazione e le possibili azioni per ridurre le cause della vulnerabilità e più in generale della povertà.

Il rapporto evidenzia come la sistematica violazione dei diritti umani, che frenano e bloccano lo sviluppo, sono determinate da politiche che tendono ad ampliare la forbice tra ricchezza e povertà ed a creare grande disuguaglianze tra i popoli.

Il rapporto identifica 49 nazioni a livello di sviluppo  molto alto (erano 47  lo scorso anno),  52 ad alto livello di sviluppo, 41 a medio livello di sviluppo e infine 43 paesi a basso livello di sviluppo.
La classifica mondiale vede la Norvegia al primo posto (ovvero la posizione del Paese più sviluppato), seguita da Australia, Svizzera, Olanda, Stati Uniti, Germania, Nuova Zelanda, Canada, Singapore e Danimarca
Da segnalare che dal gruppo dei primi 10, rispetto al 2012, sono usciti Svezia, Irlanda e Giappone a favore di Canada, Singapore e Danimarca. 
L'Italia si colloca al 26° posto (lo scorso anno era 25°).

E' da segnalare che solo in 16 paesi del mondo gli indicatori sono uguali per uomini e donne. Tra questi paesi c'è molto est europeo (Bielorussia, Estonia, Lettonia, Lituania, Russia, Slovenia). La disuguaglianza tra i generi è un altro aspetto delle ingiustizie del nostro mondo, in cui le differenze geografiche si incrociano con quelle di genere, creando situazioni al limite della sostenibilità.

Per i paesi africani la questione appare sempre molto difficile. Gli ultimi 18 paesi in classifica del mondo sono stati africani (la classifica si chiude con il Niger, poi la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centroafricana). Dei 43 paesi a basso livello di sviluppo 35 sono africani (che diventano 37 aggiungendo Somalia e Sud Sudan, che non vengono calcolati).

Il primo paese africano in classifica è la Libia (55°), ma è una classifica viziata (alcuni dati precedenti al conflitto) e comunque il paese ha perso 5 posizioni nell'ultimo anno). Il primo paese dell'Africa Sub-Sahariana è il Botswana che è collocato al 109° posto, tra i paesi a medio sviluppo.

Analizzando lo storico della classifica emerge con chiarezza che sono i paesi asiatici a crescere maggiormente nell'ultimo decennio, mentre altrettanto chiare risultano le difficoltà della vecchia Europa.

Rapporto sullo Sviluppo Umano 2013

venerdì 25 luglio 2014

Robert Mugabe, il più anziano leader del pianeta

Da oggi, con la fine del mandato presidenziale dell'israeliano Shimon Peres, il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe diventa il più anziano capo di stato o di governo nel mondo. Nato ad Harare il 21 febbraio 1924, oggi il discusso leader dello Zimbabwe ha 90 anni e guida questa speciale classifica.
Dietro di lui il re dell'Arabia Saudita, Abdullah, che è nato il 1 agosto 1924.  Al terzo posto di questa classifica il Presidente Italiano Giorgio Napolitano, di un anno più giovane di entrambi.

Robert Mugabe guida lo Zimbabwe sin dalla sua indipendenza avvenuta il 18 aprile 1980 (prima come Primo Ministro, poi quando nel 1987 fu abolita la carica, come Presidente). E' al 10° posto tra i più longevi leader al potere nel mondo. Dopo essere stato un artefice dell'indipendenza, Mugabe ha imboccato una strada antidemocratica. Oggi, nonostante sia ancora saldamente al comando, è accusato di aver instaurato un regime dittatoriale teso a reprimere, con ogni mezzo, gli avversari ed aver ridotto lo Zimbabwe in una situazione economica e sociale insopportabile. 

Per la cronaca il più giovane leader al mondo è il nord coreano Jong Un (31 anni).

Ecco la speciale classifica riferita al 1 gennaio 2014

giovedì 24 luglio 2014

Petrolio in Africa, un aggiornamento

Nel settembre 2010, poco dopo la nascita di Sancara, scrissi un post dedicato al petrolio africano (L'africa e il petrolio, una storia complessa) ed ai possibili sviluppi futuri. In questi giorni, complice le bizzarrie della rete, quel post è balzato ai primi posti tra quelli più letti. Andandolo a rileggere, ho ritenuto giusto apportare qualche aggiornamento.

L'articolo si chiudeva con una previsione degli analisti del settore, ovvero che già dal 2010 il consumo mondiale di petrolio sarebbe continuato a crescere (dopo una contrazione dovuta alla crisi del 2007-2008). In effetti così è stato: si è passati dalle 4.000,2 milioni di tonnellate del 2008 alle 4.185,1 del 2013. Una crescita frutto dell'aumento del fabbisogno soprattutto in Asia (da 1213 milioni a 1415 milioni), Medio Oriente (dal 336 a 284) e l'Africa (da 153 a 170, Egitto e Algeria in testa) e della contrazione in Europa (da 956,8 a 878) e in parte in Nord America.
In testa ai consumi gli Stati Uniti 831 milioni di tonnellate), la Cina (507), il Giappone (208), l'India (175) e la Russia (153,1). Guardando poi gli andamenti degli ultimi anni la crescita dei consumi è soprattutto in Cina, India, Brasile, Russia e Arabia Saudita. Mentre decresce in Giappone e in generale in Europa (l'Italia passa da 80 milioni di tonnellate a 61 milioni). Questi numeri indicano una chiara tendenza: il consumo di petrolio (che significa in gran parte produzione) si sposta verso altre aree del mondo che hanno anche capacità produttive.

Parallelamente infatti è cresciuta la produzione mondiale che ha toccato nel 2013 la cifra record di 4132,9 milioni di tonnellate. La produzione è aumentata soprattutto nel Nord America (da 612 milioni di tonnellate a 781,1). Del resto gli analisti, già nel 2012, indicavano che gli Stati Uniti saranno nel 2020 i primi produttori al mondo, e nel 2030 raggiungeranno la sospirata autosufficienza energetica.
Oggi a guidare la classifica dei produttori resta l'Arabia Saudita (542,3 milioni di tonnellate), seguita da Russia (531), da Stati Uniti (446,2), Cina (208) e Canada (193).

Il trend sulla produzione conferma la grande crescita degli Stati Uniti e a ruota (ma non agli stessi livelli) dei paesi del Medio Oriente (ad eccezione dell'Iran), della Cina, Russia e Brasile. Mentre in calo la produzione in Venezuela e Messico.

Da un punto di vista delle multinazionali del petrolio (dati 2012) il colosso mondiale si comferma essere la Saudi Arabia Oli Co., seguita dalla russa Gazprom. Dopo di loro la National Iranian Oil, la Exxon Mobil, la PetroChina, la BP e la Shell. Alcune delle compagnie di paesi emergenti (Malaysia, Messico e Venezuela) sono stata nuovamente superate dalle storiche multinazionali anglo-americane e olandesi.

E l'Africa?

La situazione, rispetto al post del 2010, sembra essere "stabile". Se è vero che produzione e consumi sono leggermente in aumento, è innegabile che le aspettative degli analisti erano ben diverse. All'inizio del 2000 si parlava dell'Africa come futuro luogo strategico della produzione petrolifera mondiale nel giro di 15-20 anni. Nel 2008 il 12,3% del petrolio mondiale era africano, nel 2013 lo è il 10,1%. Gli studi hanno accertato riserve petrolifere ampie e tutte da esplorare, ma la realtà africana (con tutte le intromissioni del caso) è più complessa e forse questa data deve essere spostata decisamente in avanti.
L'Angola, per molti pronta a fare il balzo come primo produttore del continente, ha una produzione negli ultimi anni altalenante, ma su valori simili (92 milioni di tonnellate nel 2008, 87 nel 2013). Così la Nigeria, con 111 milioni di tonnellate nel 2013  (erano 102, 8 nel 2008) si conferma primo produttore africano e si colloca al 12° posto nel mondo (era 15° nel 2008).
L'Africa risente molto delle instabilità politiche. La produzione in Libia ( ecco un'analisi interessante), che era collassata nel 2011 (da oltre 80 milioni di tonnellate a 22), aveva avuto un'incoraggiante ripresa nel 2012 (71) per poi riscendere ancora nel 2013 (46.5). 
Così come la Produzione del Sudan, che a seguito della nascita del Sud Sudan (e dei conflitto che a seguito ne sono nati) ha visto la sua produzione dimezzarsi (da 23 milioni di tonnellate del 2008 a poco più di 10 milioni nella somma dei due paesi nel 2013).
Cala la produzione in Algeria (da 85 milioni nel 2008 a 67 nel 2013), mentre sono in leggero calo o comunque stabili le produzioni di Egitto, Gabon, Guinea Equatoriale e Ciad.
Per ora non ancora significativi (da un punto di vista produttivo) i giacimenti scoperti in Mozambico, in Kenya, nel Nord-Africa (Marocco e Algeria in particolare) e off-shore. La produzione africana resta saldamente nelle mani straniere (Cina, Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Italia in testa). Le compagnie petrolifere africane (l'angolana Sonagol, la Nigerian National Petrolium Co, la National Oil Corporation Lybia e l'algerina Sonatrach, sono ancora impantanate in corrotte (e finte) partecipazioni statali o nelle mani dei colossi stranieri).

Pare evidente che l'Africa continuerà ad essere al centro delle attenzioni future per quanto riguarda il petrolio. Vi è da sperare, che almeno nelle nuove aree di estrazione, i governi sappiano trasformare questa ricchezza in una opportunità per i loro popoli. Troppo?

mercoledì 23 luglio 2014

La cerimonia della casa sacra di Kangaba

Ogni sette anni, nel villaggio di Kangaba, nel sud-ovest del Mali, si svolge la cerimonia di rifacimento del tetto della casa Kamablon (letteralmente "casa dei discorsi"). La casa (una tipica capanna con il tetto in paglia) fu costruita nel 1653, dal diametro di 4 metri e alta 5 metri, rappresenta ancora oggi un simbolo dell'antico Impero del Mali e della dinastia reale dei Keita. Da secoli ogni sette anni la capanna viene restaurata ed in particolare viene sostituito il suo tetto. Ad organizzare la cerimonia sono i membri del clan Keita, discendenti del fondatore dell'Impero del Mali Sundiata Keita e i griots, conservatori e testimoni delle tradizioni orali dell'Africa Occidentale. La carimonia rappresenta il momento in cui, oltre a rievocare e far rivivere le antiche tradizioni, si cercano di risolvere conflitti sociali e dispute in corso e allo stesso tempo di predirre (e sotto certi versi indirizzare) gli eventi del prossimo ciclo di 7 anni.
La cerimonia, che dura 5 giorni, rappresenta anche un passaggio di testimone, in cui giovani ventenni eseguono i lavori di rifacimento del tetto, sotto l'attenta e vigile supervisione degli anziani, che approfittano dell'occasione per impartire conoscenze e valori simbolici di ogni azione.

Nel 2009 la cerimonia è stata inserita all'interno della Lista dei Patrimoni Immateriali dell'UNESCO con il fine di conservare un rituale secolare, che senza un sostegno forte della comunità internazionale, rischiava di perdersi per sempre.

Vai alla pagina di Sancara sui Patrimoni immateriali dell'Africa

martedì 22 luglio 2014

Popoli d'Africa: Yao

foto di un villaggio yao, dalla rete
I Yao (anche WaYao) sono un gruppo etnico del Malawi (oggi sono circa il 10% della popolazione)del Mozambico e della Tanzania. Oggi sono circa 2 milioni di individui, con una forte identità culturale che supera le frontiere. Yao significa letteralmente "colline senz'alberi", probabilmente ad indicare l'origine di questo popolo. Agricoltori bantu, originari del nord del Mozambico, avevano cominciato a commerciare con i mercanti arabi - inizialmente avorio - successivamente schiavi (prima con gli arabi e poi con gli europei), ricevendo in cambio armi e tessuti. Si spostarono infine verso il sud del Lago Malawi. Grazie a questo commercio divennero una delle più influenti etnie dell'Africa Sud-Orientale, dove didero vita a brevi ma, potenti, regni che dominarono sugli altri popoli dell'area. Essi furono sconfitti, alla fine del 1800, quando gli inglesi istituirono nel Nyasaland il loro protettorato.
Nel 1994 il Malawi elesse un Presidente di origine Yao, Bikili Muluzi che governò fino al 2004 e che fu in grado di sconfiggere, nelle pprime elezioni libere, Hasting Banda che aveva governato fin dall'indipendenza della nazione.
Parlano la lingua Chiyao (sebbene questo sia solo uno dei numerosi nomi con cui è conosciuta) e sono di religione islamica (sebbene non certamente "ortodossa") a causa dei contatti commerciali con gli arabi che richiedevano padronanza della lingua e della cultura.
foto da wikipedia
Oggi vivono in villaggi a forma rettangolare non lontani dalle strade. Coltivano mais, cassava e riso, producono ortaggi e frutti (mango, papaya e banana) e hanno solo piccoli allevamenti di capre e pollami. Inoltre, nei villaggi che vivono sulle sponde del lago, si pratica la pesca.
Nella loro tradizione la musica ha un ruolo molto importante, essa è usata in tutti i rituali. Infatti nonostante tutto gli Yao sono molto legati alle tradizioni per cui momenti rituali (riti di iniziazioni, funerali, matrimoni, festivals e legami con gli spiriti ancestrali) sono convissuti con l'islam ed in particolare con il Sufismo, generando nuove e interessanti pratiche.

Vai alla pagina di Sancara sui Popoli dell'Africa

lunedì 21 luglio 2014

La sete di sapere

"Con l'istruzione si sconfigge l'ignoranza che è alla radice della fame e della povertà"

Le parole del Premio Nobel Rita Levi-Montalcini, sono ampiamente e unanimamente condivisibili. La scuola (più in generale, la formazione) è la base da cui partire per qualsiasi ipotesi di sviluppo e di miglioramento della propria esistenza. Lo sapevano bene molti degli uomini che hanno tentato di cambiare l'Africa. Amilcar Cabral dedicò la sua breve esistenza ad istruire i contadini guineani, convinto com'era che l'educazione, la formazione e la conoscenza fossero alla base di qualsivoglia ipotesi, allora rivoluzionaria, di indipendenza dal colonialismo. Thomas Sankara, prima di essere ucciso, fece della lotta all'analfabetismo e dell'educazione uno dei pilastri della sua breve rivoluzione burkinabè. Nelson Mandela sosteneva che "l'istruzione è l'arma più potente che si possa utilizzare per cambiare il mondo". Uomini a cui è stato lasciato troppo poco spazio affinché le loro idee diventassero comuni e prassi del loro e altrui operare.

Da decenni le politiche dello sviluppo verso l'Africa mettono al loro centro la questione educativa. Purtroppo gli effetti sono stati minori di quanto sperato. Se è vero che nella aree urbane di gran parte dell'Africa la situazione è spesso simile a quella, ad esempio, europea, la stessa cosa non si può dire delle aree rurali e dei sobborghi delle grande città. L'accesso alle scuole e in generale alla formazione appare per moltissimi un miraggio. Gli standard sono bassi, manca tutto. I bambini a volte percorrono kilometri per andare a  scuola, per poi trovarsi in situazioni ove mancano perfino i banchi. La strada è ancora molto, molto lunga. I tassi di alfabetizzazione continuano a restare bassi, soprattutto tra le donne.

Le opportunità di istruzione e formazione per le donne africane restano ancora più difficili che per i maschi. Il tasso di alfabetizzazione (che in alcuni paesi sub-sahariani non raggiunge il 40% generale) maschile in Africa Sub-Sahariana è del 71,6% e del 53,6% per le donne. Un gap che non trova uguali in nessun altro luogo del pianeta. Sebbene qualcosa sembra muoversi (il tasso, nella stessa regione, nei giovani è del 77% per i maschi e del 67% nelle femmine), le possibilità sembrano ancora ben diverse.

Intervenire sull'istruzione è una scommessa. Da un lato vi sono i grandi progetti sostenuti dai governi e dalle organizzazioni internazionali che mirano ad incidere sui tassi di alfabetizzazione di intere nazioni. Spesso con il grande limite di non ottenere i risultati. Dall'altro lato vi sono invece molte organizzazioni che puntano su progetti mirati e di impatto più localizzato, ma di sicura ricaduta sulle persone e sulle comunità.

Proprio partendo da queste valutazioni che la Fondazione Rita Levi-Montalcini (nata nel 1992 per volere dello stesso Premio Nobel in onore del padre e che dal 2001 ha modificato il nome nell'attuale) ha assunto come obiettivo il finanziamento di progetti attinenti alla formazione e l'istruzione di bambine, giovani e donne del continente africano. Una mission che nel tempo ha finanziato, selezionandoli accuratamente, 152 progetti (curati spesso da piccole ONG o da associazioni) in 34 nazioni. Sono borse di studio ad Università per ragazze, sono progetti di formazioni di medici, infermiere ed ostetriche, sono però anche interventi più specifici su donne vittime di sfruttamento o di violenza, che attraverso questa opportunità provano ad avere una seconda occasione.
Certo sono gocce in un mare in tempesta, ma per molte donne rappresentano una rara opportunità e costituiscono la base su cui costruire un futuro e di recidere quelle radici che sono alla base della povertà.

La Fondazione Rita Levi-Montalcini ha appena rinnovato il suo sito, da cui è possibile ricavare ogni informazione sul loro operato, su come donare e su come candidare un proprio progetto.



sabato 19 luglio 2014

Niatiti, la lira dei Luo

Il Niatiti è uno strumento cordofono della tradizione dei Luo del Kenya. E' uno strumento di non facile realizzazione ed utilizzo, infatti viene suonato, quasi sempre accompagnato dall'oporo (un corno ricurvo) solo in speciali occasioni, anche e soprattutto per motivi rituali. Dalla cassa di legno, ricoperta da pelle animale, partono due manici (che non portano le corde), che fungono da sostegno ad un manico incurvato su cui vengono tirate le corde (generalmente 8, ma vi sono strumenti anche con 5 corde). Le corde, che nella tradizione erano prodotte in tendini animali, sono oggi sostituite dalla plastica e dal nylon.



Tra i musicisti che utilizzano questo strumento il "più conosciuto" è il keniano, di etnia luo, Ayub Ogada, che oltre ad aver avuto alcune partecipazioni nel mondo del world music internazionale, ha suonato questo strumento nelle colonne sonore di alcuni film, tra cui The Constant Gardner di Fernando Mairellas.



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venerdì 18 luglio 2014

Timbuctu

La città dell'odierno Mali, Timbuctù,  per secoli ha vissuto, per noi europei, tra mito e realtà. La "città d'oro" o "l'Eldorado africano" come era stata chiamata dai mercanti arabi o dagli esploratori europei, era stata ritenuta un'invenzione e, solo nel 1806, l'esploratore scozzese Mungo Park vi giunse, ma non ebbe modo di raccontarlo. A tornare da Timbuctu fu per primo, molti anni dopo, il francese Renè Cailliè nel 1828 che vi entrò travestito da mercante arabo.
La città, costruita in un terreno arido e sabbioso, poco distante dal fiume Niger, si trova di fatto nel deserto del Sahara, lontana da altri centri abitati, nella regione contesa dell'Azauad del Mali.  Fondata durante il V secolo, ma raggiunse il suo massimo splendore e prestigio tra il 1300 e il 1500 quando divenne il più importante centro culturale e commerciale (si faceva mercato di oro, sale e schiavi, le più importanti risorse dell'epoca) del Nord Africa. Durante quel periodo furono costruiti la gran parte degli edifici oggi conservati e raggiunse una popolazione vicina ai 100 mila abitanti. Inoltre, nacque in quell'epoca l'Univesità di Sankora, tra le prime Univeristà del mondo che arrivò ad avere, nel suo apogeo, anche 25 mila studenti. Il decadimento della città iniziò alla fine del XVIII secolo e quando fu conquistata dai francesi nel 1894 si presentava già come una città in rovina. Oggi la città conta poco più di 50 mila abitanti.
Nel 1988  il sito di Timbuctu è stato inscritto tra i Patrimoni dell'Umanità dall'UNESCO. Le sue tre grandi moschee (Djingareyber, Sankore e Sidi Yahia), i 16 mausolei e molti edifici pubblici, costruiti in fango, rappresentano delle testimonianze uniche e molto belle, dell'architettura islamica di quel periodo. Inoltre, l'importanza come centro culturale e religioso islamico della città, ha permesso di custodire oltre 700 mila manoscritti arabi, che abbracciano tutto il sapere umano, i quali costituiscono un sicuro e importante patrimonio culturale mondiale.
La città di Timbuctu è stata purtroppo fortemente danneggiata dalla guerra scoppiata in Mali tra la fine del 2012 e l'inizio del 2013 (sul tema, e sulla criminale distruzione del patrimonio storico-culturale vi rimando a questo post di Sancara).
La "città dei 333 santi" è stata saccheggiata e bruciata, da una follia criminale che non deve assolutamente essere confusa con superficiali valutazioni religiose. Nel 2012 l'UNESCO ha inserito il sito di Timbuctu tra i siti patrimonio dell'Umanità a rischio (assieme all'altro sito maliano, la tomba di Askia) e come tale è iniziata una tutela internazionale tesa a ricostruire, riparare e salvaguardare questo patrimonio di inestimabile valore. Recentemente l'UNESCO ha dichiarato che sono stati investiti già tre milioni di dollari (in un progetto avviato nel marzo 2013) e che altri otto sono necessari per "ripristinare" la situazione.

Vai alla pagina di Sancara sui Patrimoni dell'Umanità in Africa

martedì 15 luglio 2014

Nadine Gordimer (1923-2014)

Ieri, nella sua casa a Johannesburg, città dove era nata oltre 90 anni fa, è morta quella che unanimamente è ritenuta la più importante scrittrice sudafricana, Nadine Gordimer. In un'intervista a Repubblica aveva, in occasione dell'uscita del suo ultimo romanzo, dichiarato di essere malata di cancro al pancreas.

Nadine Gordimer, figlia di immigrati ebrei (padre lettone, madre londinese) è stata sicuramente un'autentica "africana bianca". Ha speso la sua intera vita a denunciare, con i suoi scritti e le sue azioni, il regime di segregazione razziale in Sudafrica, che fin dai tempi dei suoi studi universitari (mai conclusi) l'aveva fatta indignare.
Era entrata in contatto con l'African National Congress (ANC) di Nelson Mandela, dove si era iscritta quando il partito era clandestino, e con Mandela, che aveva conosciuto nel 1964. A Mandela è rimasta legata da amicizia e rispetto fino alla sua morte, quando aveva scritto " Noi sudafricani siamo fortunati ad averlo avuto con noi. Perché se dovessi provare a spiegare tutto quello che ho avuto da lui, io che sono fra le persone che hanno avuto l'onore di conoscerlo di persona, credo che non ci riuscirei. Madiba era un democratico naturale, una cosa piuttosto inusuale in Africa. In un continente che ha lottato per decenni per liberarsi dalla dominazione straniera e raggiungere la libertà, è raro trovare qualcuno che non basi la sua azione sull'odio o il risentimento".

La Gordimer è stata sicuramente una voce critica e pungente contro il regime dell'apartheid (tanto da dover lasciare il paese) ma, allo stesso tempo non ha risparmiato critiche anche aspre alla gestione del Paese e del Partito del dopo Mandela, accusando, a ragione, la classe dirigente dell'ANC di aver tradito lo spirito e l'impegno del Madiba.

Ma, la Gordimer, Premio Nobel per la Letteratura nel 1991 (una dei quattro africani a riceverlo), ha lottato una vita contro le ingiustizie e le miserie africane. Ha sempre sostenuto le cause della lotta all'AIDS e dei diritti umani, come elemento indivisibile dell'eliminazione della segregazione razziale e come pilastro dello sviluppo e delll'emancipazione sociale. Con la stessa tenacia e con uguale impegno ha lottato contro la sua malattia.

Con lei, esce di scena un'altra anima nobile africana. Una donna capace di raccontare, con una scrittura bella ed elegante, un mondo per alcuni distante mille miglia e di renderlo comprensibile e chiaro. Come molti le letture della Gordimer hanno accompagnato la mia crescita e contribuito a far radicare l'indignazione verso ogni forma di razzismo e l'amore per l'Africa.

Grazie Nadine (mi permetto questa piccola confidenza) per tutto quello che hai insegnato a me e a molti altri. Mi auguro che i miei figli quando cresceranno, guardando un intero scaffale dei tuoi libri nella nostra libreria, possano amarti come ho fatto io. Buon viaggio e ancora grazie.

La signora Gordimer era molto legata all'Italia (sia perchè Giangiacomo Feltrinelli aveva da subito pubblicato tutte le sue opere) sia perchè una sua figlia vive in Piemonte.

Ecco la sua bibliografia dal sito della Feltrinelli

lunedì 14 luglio 2014

Libri sull'Africa: Mama Africa

"Africa. Mama Africa. Mi hai portato nel tuo ventre. Sono nata sotto il tifone coloniale. Ho succhiato il latte del tuo cuore. Sono cresciuta. Atrofizzata ma sono cresciuta. Una gioventù rapida. Come una stella che cade. Quando muore uno stregone. Oggi sono donna. Non so se donna ancora o già vecchia. Ma è a te che vengo. Africa. Mama Africa. Tu che mi hai generato. Non uccidermi."

Da questa poesia, Mama Africa, scritta da Deolinda Rodrigues, poco prima di essere fucilata in un campo di concentramento nell'allora Zaire, trae il titolo l'interessante libro di Maria Rosa Cutrufelli, frutto di un'esperienza del 1975-1976 in Angola e Zaire, e pubblicato da Sipiel (Feltrinelli) nel 1989.

E' un libro che deve essere contestualizzato in un'epoca storica, quella della metà degli anni 70, della fine del colonialismo portoghese in Africa e dell'indipendenza di paesi simboli come la Guinea Bissau e Capo Verde, il Mozambico e l'Angola. Simboli di un riscatto africano, di una diversa indipendenza frutto dell'esperienza politica (e degli errori della prima decolonizzazione) e dell'ideologia, sicuramente utopica, di una via socialista africana, popolare, democratica e inclusiva.
Sono anche gli anni in cui, di contro, si spengono in Europa, tra mille contraddizioni, le luci degli anni '60, e del '68 in particolare, dando vita ad una generazione di delusi alla ricerca di nuovi e rigeneranti stimoli.
Con queste premesse, il libro è la storia di un incontro tra questi due mondi, un'Africa bisognosa di una rivalsa sociale e storica e una donna bianca, giornalista impegnata che osserva e raccolta, senza per questo essere esente da riflessioni e da confronti con i propri ideali.
Non a caso l'autrice sottotitola il libro con un eloquente "storie di donne e di utopie".
E' un racconto storico, che si legge come un romanzo o come un bel diario di viaggio. Un testo il cui sfondo è sempre ombrato da una guerra che si combatte lontano e al tempo stesso vicino, quotidiana. Racconta dell'indipendenza dell'Angola (11 novembre 1975) e del caos che con essa si scatenò. Racconta soprattutto di donne, desiderose di contare in un paese da inventare e che al tempo stesso convivono con antiche tradizioni e con grandi limiti. Racconta di "espatriati", di impegno e di fughe, di uomini alla ricerca di risposte. Racconta soprattutto di un'Africa diversa da quella che oggi conosciamo, che sebbene con gli stessi problemi, credeva e voleva un riscatto che è rimasto in un limbo sospeso.

Racconta in definitiva di un'utopia che ha interessato un'ampia parte del continente e che ha coinvolto emotivamente, quando non fisicamente, molti di noi.

Oggi, a quasi quaranta anni da quei fatti, rileggere gli appunti e le riflessioni di quei viaggi può sembrare distante e per qualcuno perfino poco significativo. Eppure essi rappresentano un modo per conoscere e per tentare di comprendere la realtà del presente.

Maria Rosa Cutrufelli, messinese, scrittrice e giornalista. Da sempre attenta alla condizione femminile, ha raccontato nei suoi viaggi, come nella sua vita, i ruoli delle donne, approfondendo la scrittura a "firma femminile".

Deolinda Rodrigues de Almeida (nome di battaglia Langidila), fu molto attiva nell'MPLA occupandosi di rifugiati e di donne in particolare. Contribuì alla lotta di liberazione. Fu torturata e uccisa (secondo alcuni testimoni, squartata viva, il 2 marzo 1967. Aveva 28 anni)(ecco la sua scheda sul sito dell'MPLA).

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venerdì 11 luglio 2014

Un nuovo sito Patrimonio dell'Umanità per l'Africa

Durante l'annuale meeting (il 38° per la precisione) del Comitato per il Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO che si è svolto a Doha (Qatar) dal 15 al 25 giugno scorso, sono stati iscritti nuovi 26 siti alla lista dei Patrimoni dell'Umanità. Sono così, ad oggi, 1007 i siti nel mondo, divisi in 161 paesi.

Tra i 26 siti vi è anche un sito africano (erano 4 le candidature africane): il delta del fiume Okavango in Botswana che ha avuto anche l'onere di essere il millesimo sito iscritto dal 1979 quando ebbe inizio la stesura di una vera e propria lista. Salgono così a 129 i siti africani (vedi lista).

Il delta dell'Okavango è il secondo delta interno più grande al mondo (dopo quello devastato del Niger). Con un'estensione di oltre 15 mila chilometri quadrati, gli oltre 11 chilometri cubi di acqua scaricati dal fiume Okavango ogni anno, dopo mille chilometri di percorso, sono di una purezza straordinaria per l'assenza di inquinamento agricolo o industriale e per l'effetto filtro della sabbia del deserto del Kalahari.

Il meeting di Doha è stata anche l'occasione per fare il punto sullo stato del Patrimonio mondiale. In particolare per l'Africa vi sono tre notizie importanti. La prima positiva è che dopo 10 anni le rovine di Kilwa Kisiwani e Songo Mnara, città fiorite nel XII secolo come centri di commercio, in Tanzania, sono state tolte dai siti in pericolo. Nel 2004 furono infatti inserite nella speciale lista a causa del degrado e della mancanza di manutenzione in cui versavano le rovine. L'intervento massiccio dell'UNESCO e del governo francese ha ristabilito una situazione di normalità nel sito.

Di contro, sempre in Tanzania, la riserva di Selous, uno dei più grandi parchi del mondo, tra i patrimoni dell'Umanità dal 1982, è stato inserito all'interno della lista dei siti in pericolo a causa dei fenomeni di bracconaggio e di distruzione del territorio. Atti di criminali che vanno fermati con assoluta urgenza.

Infine, è stato comunicato che sono già stati spesi 3 milioni di dollari per la ricostruzione dei mausolei di Timbuctu in Mali distrutti dalla guerra e che altri 8 milioni sono necessari per il ripristino totale.

Appare chiaro che la tutela dei Patrimoni dell'Umanità, da consegnare integri alle future generazioni, è affidato alla buona volontà di alcuni Uomini che si contrappone alla violenza distruttiva di altri Uomini. Una lotta che rischia di diventare impari senza il contributo (anche quello comunicativo) di molti.

Il prossimo meeting (il 39°) del Comitato si svolgerà a Bonn (Germania) dal 28 giugno all'8 luglio del 2015.