lunedì 10 luglio 2017

Cosa significa aiutiamoli a casa loro?

In questi giorni si è acceso un dibattito, talora surreale, su una frase che oltre ad essere un slogan populista di una pessima politica racchiude significati dubbi e diversi per chi la pronuncia. Siamo sinceri,  "aiutiamoli a casa loro" non significa nulla. Per una buona parte inoltre è un sinonimo di "non facciamoli arrivare" che rappresenta più la soluzione di una, spesso immotivata, paura, che una vera volontà di aiuto. Per altri ancora è un modo apparentemente elegante  per dire "degli altri, e di quelli in particolare, non mi interessa nulla". Per altri quella frase significa "facciamo qualcosa per loro", nel senso cristiano di aiuto o nel senso laico di donare opportunità.
L'assurdità del dibattito è proprio nel modo in cui esso si svolge. Tutto centrato sulla nostra misera politica locale, sulle fazioni interne, come se Salvini o altri contassero qualcosa nello scacchiere mondiale o potessero essere le persone capaci di incidere su strategie geopolitiche e internazionali o su fenomeni, complessi come quelli delle migrazioni.
Tralascio la questione relativa a coloro i quali richiedono protezione internazionale, che non solo abbiamo l'obbligo giuridico di accogliere ma, dove per tradizione culturale e democratica abbiamo anche il dovere etico e morale di farlo.
Abuja, Nigeria

Oltre a tutte le questioni filosofiche che voglio tralasciare (ad esempio il concetto di superiorità o di forza che la parola "aiuto" sottende, la questione se sia lecito o meno impedire agli uomini - dopo che l'abbiamo fatto con le merci - di muoversi liberamente), la questione degli aiuti racchiude un enorme tranello.
Di aiuti ai paesi del vecchio "terzo mondo" si parla (e si pratica) dal 1944 (ovvero ancora durante la seconda guerra mondiale), sebbene poi il grande afflusso di denaro arriva, in Africa, dalla fine degli anni '50 con le prime indipendenze. Secondo molti economisti e secondo alcuni studiosi di Africa sono proprio gli "aiuti allo sviluppo" (sia inteso quelli intergovernativi non quelli delle organizzazioni o delle emergenze) ad ever creato l'attuale situazione in Africa. Una situazione che, badate bene, non è di povertà, ma di enormi squilibri all'interno degli stati. Paesi come la Nigeria (da cui oggi giunge la prima migrazione africana in Italia), di oltre 180 milioni di abitanti, partono da una situazione di grande ricchezza per molti (tra di essi uomini e donne che rientrano nelle categorie delle persone più ricche del Pianeta) e milioni di persone che vivono letteralmente nelle discariche. Nel mezzo una enormità di "classe media" che oscilla tra il tentativo di arricchirsi, la possibilità di stare , economicamente, fermi e l'alto rischio di precipitare nella povertà. Mentre per le classi alte e medie la situazione è simile alla nostra, per le classi basse la situazione è drammatica perché i sistemi di welfare e di assistenza interna sono pressoché inesistenti e dipendono, e qui viene il bello, esclusivamente dagli aiuti esterni esistenti.
Secondo alcune stime sono oltre 300 miliardi i dollari che negli ultimi decenni sono arrivati in Africa senza che questa grande iniezione di denaro abbia influito positivamente sullo sviluppo.
Secondo i teorici di queste tesi (letteralmente di una "carità che uccide") questi innesti di denaro hanno generato una totale dipendenza verso l'esterno, una classe politica scellerata e "cleptocratica" e pesato enormemente sulle popolazioni più povere. Che sia chiaro gli aiuti non erano donazioni bensì scambio merci. Quelle merci pregiate (dal petrolio all'uranio, dai diamanti al coltan, dal legno al caffè, dal cacao all'oro, dai fosfati al carbone) di cui noi avevamo tanto bisogno e che gestirle (al netto delle tangenti) faceva non solo guadagnare molto, ma, ne permetteva di controllarne i mercati ed il prezzo.
Questo sistema ha generato un circolo vizioso che ha fortemente compromesso la crescita e lo sviluppo africano.
In definitiva la nostra ricchezza, la nostra crescita economica si deve in primo luogo a questo sistema. 
Affermare oggi che bisogna fare quello che abbiamo fatto per decenni e che ha prodotto il problema appare offensivo del buon senso.
In Africa non mancano le risorse (anzi!), quel che manca è la capacità di governarle e di renderle vantaggiose per la propria economia e meno per quelle degli altri.
Lavorare oggi per rendere le condizioni dei Paesi africani meno pesanti di quelle che oggi esistono significa creare delle situazioni ove sia più conveniente per se e per le proprie famiglie, restare piuttosto che migrare. Significa creare condizioni di vita migliori, significa reinvestire in questi paesi una parte consistente delle risorse esistenti, significa creare opportunità di lavoro.
Farlo, sia chiaro, significa ridistribuire ricchezze. Significa non permettere a chi estrae materie prime di devastare senza responsabilità il territorio (in Nigeria come in Repubblica Democratica del Congo) e di conseguenza far innalzare i prezzi, significa che il cacao prodotto il Africa Occidentale possa essere lavorato in loco a vantaggio dell'occupazione e a discapito delle nostre industrie, significa permettere di far decollare l'industria delle automobili e dell'abbigliamento in Africa (da sempre tenuta a freno), significa rivedere gran parte degli accordi commerciali in vigore che hanno lo scopo di salvaguardare le nostre economie, significa dare poteri alle classi dirigenti africane e sottrarne ai falsi donatori.... e la lista potrebbe continuare.

In un ragionamento laico e fuori dagli schemi politici (da una parte e dall'altra) credo sia corretto favorire - finalmente - la crescita e lo sviluppo dei Paesi africani ma, non per fermare le migrazioni bensì per rendere il mondo più equo e più giusto.



 
  

 

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