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martedì 23 febbraio 2016

Popoli d'Africa: Somali

I somali sono un grande gruppo etnico (oltre 20 milioni di persone) che occupa l'area del Corno d'Africa ed in particolare la Somalia (circa 12 milioni - dove costituiscono il 95% della popolazione),  l'Etiopia (4,5 milioni), il Kenya (2,5 milioni), Gibuti (500 mila) e lo Yemen. Inoltre è un popolo soggetto a forti migrazioni (a causa dell'oramai quasi trentennale guerra in atto) per cui comunità più o meno grandi (diaspora somala) si trovano in Europa come in America, oltre che in Sudafrica (40 mila). E' un gruppo caucasoide, ovvero con delle caratteristiche antropometriche simili agli europei.
Parlano la lingua somala (lingua afroasiatica che solo dal 1972 usa il sistema di scrittura latino), lingua ufficiale della Somalia che contiene contaminazioni arabe, inglesi e perfino italiane. Molti Somali parlano anche l'arabo. I Somali sono in gran maggioranza (vicino alla totalità) mussulmani sunniti. 
I Somali hanno sempre abitato quest'area (i primi ritrovamenti risalgono al 5000 a.c.) e fin dai tempi dei faraoni hanno avuto solidi legami - soprattutto di carattere commerciale - con gli egiziani. Con la loro conversione all'islam (facilitata dalla vicinanza con la penisola araba) presero vita numerosi sultanati, tra cui quello di Ajuuran (XIII-XVII secolo), che nel Medioevo fu in grado di respingere l'invasione dei Portoghesi.
Furono poi inglesi ed italiani ad essere i paesi coloni di queste terre. La Somalia ha avuto un periodo di indipendenza, dal 1960 al 1991, e dalla caduta di Siad Barre vive in una sorta di guerra civile permanente. La storia della Somalia, grazie all'omogenità della popolazione, può essere sovrapposta a quella del gruppo etnico somalo. Un fatto abbastanza raro in Africa, dove gli stati costituiscono spesso un insieme non omogeneo di culture e di popoli.
La base della struttura sociale, politica e sociale dei somali sono i clan patrilineari 
I più importanti sono i Darod, i Dir, i Hawiye, i Isaaq e i Rahanweyn, a loro volta suddivisi in sottoclans. La struttura dei clan ha un ruolo determinante nella difficoltà di giungere ad una soluzione pacifica e definitiva della gestione del potere all'interno della Somalia.
Secondo alcuni etnografi il maggior elemento di legame all'interno dei Somali (e della nazione Somalia di conseguenza) è stato l'osservanza del sistema legale denominato Xeer. Esso si basa su una serie di consuetudini e di leggi naturali che sono state in qualche modo codificate e che oggi costituiscono un sistema legale complesso ed articolato. Un sistema che, grazie al ruolo degli anziani, è nato intorno al VII secolo e si è tramandato fino ad oggi. Sebbene in alcune aree, come quelle dove maggiormente vi fu la dominazione italiana, esso fu proibito ed ostacolato a favore del sistema legale italiano.
La cultura somala affonda inoltre le sue radici dalla tradizione ed è stata influenzata, nel corso dei secoli, dalle civiltà vicine: da quelle nord-africane a quella araba, passando per quella indiana. Da questo connubio tra tradizione e influenze esterne è sorta una complessa amalgama che abbraccia ogni angolo del sapere umano.

Vai alla pagina di Sancara sui Popoli d'Africa

martedì 19 agosto 2014

Siad Barre, l'uomo che affamò il suo popolo

Mohammed Siad Barre è sicuramente l'uomo (ovviamente non il solo) che ha contribuito a creare quella drammatica situazione in cui oggi vivono i somali. Egli infatti ha governato, ininterrottamente, la Somalia dal 1969 al 1991.
Con oltre 20 anni di potere assoluto non si può essere esenti da responsabilità.

Nato il 6 ottobre 1919, figlio di un pastore, resta orfano a 10 anni. Nel 1940, a 21 anni, entra nella Polizia Territoriale Coloniale Italiana (Zaptie). Dal 1950 al 1952 è alla Scuola dei Carabinieri di Firenze, dove diventa sottotenente. Tornato in Somalia, all'indipendenza nel 1960 (la Somalia era considerata un modello di democrazia africana, nonostante una forte divisione in clan), lascia la Polizia per entrare nell'Esercito. Fa carriera, diventando comandante in capo e viene a contatto con i militari sovietici (che addestrano l'esercito somalo) e con l'ideologia marxista. La svolta avviene il 15 ottobre 1969, quando viene assassinato, da una sua guardia, il Presidente somalo Alì Shermarke. Sei giorni dopo, quando il paese è sull'orlo della guerra civile, Barre con un golpe assume il potere. Il Consiglio Rivoluzionario Supremo, guidato da Barre, assume il potere. Gli uomini forti del nuovo regime sono il colonnello Kediye (ritenuto il padre della rivoluzione) e il capo della polizia, Korshel.
Inizialmente Barre è visto come un tiranno illuminato. Da un lato concede la gratuità della sanità e dell'istruzione e favorisce l'uso della lingua somala (facendola diventare una lingua scritta) e dall'altro istituisce il partito unico, abolisce la Costituzione e arresta i membri dell'opposizione. Già alla fine del 1971 Barre mostra le sue vere intenzioni. Le accuse di un tentato assassinio nei suoi confronti, ad opera di Kediye e del Vice-Presidente Ainache, lo portano ad essere l'unico uomo al comando (i due saranno giustiziati pubblicamente).
Nel luglio 1976 fonda il Partito Socilista Rivoluzionario Somalo, di cui gestisce ogni mossa, collocando suoi familiari ai vertici e facendo crescere il culto della sua personalità. In breve le strade del paese saranno invase da grandi foto raffiguranti la sua persona. Barre utilizza anche la tecnica di mettere in contrasto i clan del paese, generando quel sistema di conflitti incrociati, che ancora oggi rendono difficile qualsiasi ipotesi di risoluzione pacifica del conflitto.
La Somalia è al contesa nella guerra fredda. Luogo strategico per posizione, Barre entra prima nella sfera dell'URSS, ma poi, quando i sovietici intervengono a fianco dell'Etiopia nella guerra contro la Somalia (Guerra dell'Ogaden, 1977-78), Barre entra sotto la protezione degli Stati Uniti e dei paesi arabi moderati.

Barre stringe solidi e interessati rapporti con l'Italia ed in particolare con Bettino Craxi, che nel 1985 concede (dopo una storia di cooperazione avviata agli inizi degli anni 80) un aiuto record alla Somalia di 550 miliardi di lire. E, proprio in quel periodo, si genera un complesso sistema di corruzione e di traffico di armi e rifiuti, che contribuirà massicciamente al disastro futuro della Somalia e all'assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hravatin.
La Corte dei Conti italiana ha stabilito che dal 1981 al 1990 sono stati dati alla Somalia 1.506 miliardi di lire, serviti per costruire opere (mai finite e spesso inutili) di regime (vedi nel merito questo interessante articolo).

Alla fine degli anni '80 cresce il dissenso nei suoi confronti e nel solo periodo 1988-1990 il suo esercito elimina oltre 50 mila civili, accusati di ostacolare le sue "riforme". Nel luglio 1990, durante una partita di calcio, ordina all'esercito di sparare sul pubblico, accusati di manifestare dissenso nei suoi confronti. Ancora nel gennaio 1991, pochi giorni prima di venir destituito, fece bombardare la città di Harghesia, assistito da mercenari sudafricani, distruggendo oltre il 70% della città e causando almeno 5000 morti e oltre 500 mila rifugiati in Etiopia.

Il 26 gennaio 1991, la Somalia (in realtà alcuni clan di signori della guerra) mise fine alla dittatura di Siad Barre (che dopo essersi rifugiato nel nord del paese, passò per Nairobi, dove non fu molto gradito, per giungere infine a Lagos). La Somalia si liberava di un atroce dittatore e sconfinava in un baratro ancora più orribile, di cui oggi ancora non si intravede fine. La Somalia resta uno stato "tecnicamente fallito".

Siad Barre morì a Lagos di arresto cardiaco il 2 gennaio 1995.

Sul tema si può leggere l'interessante tesi di laurea di Paolo Andreatta sulla dittatura di Siad Barre che ricostruisce l'ascesa e la caduta di Barre.

Ecco alcuni post di Sancara sulla Somalia: 
- Somalia: la tragedia nel disastro
- Per colpa dei rifiuti
- Squalo a Mogadiscio, un ricordo
- Pirati di un paese inesistente 
- Libri: La trappola somala 
- Cinema: Black Hawk Down

Vai alla pagine di Sancara Le anime nere dell'Africa

giovedì 20 marzo 2014

Per colpa dei rifiuti

Sono passati esattamente 20 anni dal quel drammatico 20 marzo 1994, quando in Somalia, a nord di Mogadiscio, la giovane giornalista del TG3 Ilaria Alpi e l'operatore Miran Hrovatin furono uccisi.
Certo, fare i giornalisti in paesi di guerra, può essere rischioso. E' il prezzo che in molti hanno pagato, per voler semplicemente raccontare, dal posto, quello che realmente accadeva. Ma, la storia di Ilaria e Miran è diversa. 


Ilaria stava indagando, con quello spirito del giornalismo d'inchiesta e con la forza di chi crede in mondo diverso, su un illecito e pericolosissimo scambio, tra rifiuti tossici nocivi (provenienti dall'Italia e non solo, anche da Germania e Francia) e forniture di armi (provenienti dal disfacimento dell'impero sovietico).

Uno scambio che basava le sue premesse in due punti essenziali. La Somalia, dalla caduta di Siad Barre avvenuta il 25 gennaio 1991, era nel caos totale. Una guerra civile, condotta da signori della guerra senza scrupoli, che si contendevano, metro per metro, il controllo della capitale Mogadiscio e del territorio, bisognosi di armi. Una situazione ideale per le organizzazioni criminali e affaristi senza scrupoli: barattare rifiuti tossici (ovvero la possibilità di abbandonarli in luoghi ove nessuno chiedeva e controllava) in cambio di armi provenienti dagli ex-arsenali (e dalle fabbriche) russe, oramai sotto il totale controllo delle mafie.

Il sistema di abbandono dei rifiuti in Somalia (già documentato da rapporti confidenziali del 1993) era collaudato: una carretta del mare, che veniva affondata nelle acque territoriali con tutto il suo carico oppure migliaia di tonnellate di rifiuti sotterrati nella zona costiera di Obbia e ancora sedimi stradali imboniti di rifiuti e poi coperti con l'asfalto. 
I rifiuti? Di tutto e di più: scorie nucleari mescolati con sabbia e terra o con granulato di marmo, sostanze chimiche altamente nocive contenute in fusti e perfino in bottiglie, rifiuti ospedalieri biologicamente nocivi e veleni di ogni genere.

Uno stato come la Somalia, tecnicamente fallito, era (ed è ancora) il luogo ideale per queste porcherie. Nessun controllo, costi bassi e certezza di nessun disturbo. Certo nessuno aveva messo in conto che una giornalista italiana faceva troppe domande, indagava, riprendeva e riusciva con la determinazione solo di chi crede veramente nel suo lavoro, a scucire qualche bocca.

No, questo non poteva essere tollerato. 

A vent'anni di distanza, la Somalia, è ancora nel caos più totale (sebbene, e questo potrebbe essere una svolte, si intravede un timido spiraglio), l'Africa è ancora una pattumiera (i nostri rifiuti tossici, le carcasse delle navi, l'elettronica da buttare vengono ancora generosamente donati al continente nero) e nonostante i processi, la verità sulla morte di Ilaria e Miran è ancora lontana.

Il segreto di stato ancora blocca molti documenti e le autorità somale, nell'anarchia più totale non erano in grado di collaborare. Un segreto che copre responsabilità e nomi di chi, ancora impunito, svolgeva quei traffici, sicuramente con la complicità di pezzi del nostro Stato.

Ilaria e Miran hanno pagato con la vita la loro voglia di conoscere, di documentare, di informare e infine, di poter cambiare.
L'Africa continua a pagare il caro prezzo del nostro sviluppo. 

Ecco la sito d'informazione su Ilaria Alpi, il link al documentario Toxic Somalia di Paul Moreira

Vedi il post di Sancara, Quando informare è pericoloso


martedì 24 settembre 2013

Oltre Nairobi

I drammatici fatti che si sono svolti a Nairobi (in parte ancora in corso), con l'attacco al centro commerciale Westgate (oltre 60 morti e quasi 200 feriti è il bilancio provvisorio), confermano, ancora una volta, la pericolosità di una paese come la Somalia, in un ambito geopolitico già molto compromesso ed instabile. Proprio alcuni giorni fa avevamo segnalato come, la presenza di "stati falliti" rappresenti un elemento di grande minaccia per l'intero pianeta.

foto dalla rete
Gli osservatori mondiali si sono soffermati a descrivere (eccone un ottimo esempio) chi sono questi "giovani" (Al Shabaab, significa appunto la gioventù) che dalla Somalia hanno pianificato un'azione complessa e precisa da un punto di vista militare.
Un gruppo nato in Somalia nel 2006 (quindi ben 12 anni dopo l'abbandono della Somalia) all'interno delle Corti Islamiche, di cui erano appunto il braccio armato (Harakat al-Shabbab Al--Mujahidin) e che a partire dall'ottobre 2011, ovvero quando le truppe del Kenya hanno affiancato i caschi blu dell'Unione Africana (AMISOM) e le truppe governative in Somalia (certamente non per ragioni umanitarie), hanno giurato la vendetta nei confronti del paese confinante.

Naturalmente le azioni di Al Shabbab (anche in Kenya) non sono nuove (vi riporto il link a questo post di Sancara del 2010) ed il gruppo, nonostante le sconfitte militari in patria, ad opera delle truppe etiopi e kenyote, si rafforza grazie anche agli appoggi esterni (paesi arabi e non solo) e all'adesione al movimento di molti stranieri della diaspora somala.

foto dalla rete
La questione centrale però, piaccia o no, resta la Somalia. Un paese che da oltre 20 anni è senza guida (nella quasi totale indifferenza della comunità internazionale), che è stato abbandonato quasi da tutti e che proprio grazie a questa situazione (quasi unica nel pianeta) permette ai movimenti estremisti di proliferare e di crescere. Nei campi di addestramento del terrorismo nel nord-est della Somalia,  a Galgata (che gli analisti ritengono essere la nuova Tora Bora) i giovani si recano nella speranza di cambiare la loro vita che è già a livelli della semplice sopravvivenza. Pericolose illusioni che qualcuno fomenta. Il caos, la guerra, le ingiustizia, gli interesse reali (e quelli mascherati), l'indifferenza, l'assenza di uno stato, la mancanza di istruzione e la ricchezza del resto del mondo sono un brodo di coltura ottimale per l'integralismo. Questo vale in Palestina, in Iraq, in Afghanistan e ovunque nel mondo.

Bisogna essere realisti. Le alternative non sono molte. O si rilancia una nuova stagione di pace e di sviluppo (ove possibile), che porti a ridurre la miseria e a creare istituzioni statali credibili, al fine di contenere l'attrazione delle giovani generazioni verso tutti gli "ismi", oppure continuiamo con l'attuale strategia: proteggersi sempre più nei propri paesi (gli Stati Uniti insegnano, dopo l'11 settembre) lasciando che i terroristi si "sfoghino" in territori che a noi interessano meno e dove i morti, per noi, valgono molto poco. E' crudele, certo, sicuramente.


martedì 11 ottobre 2011

Pirati di un paese inesistente

Recentemente la questione della pirateria somala è balzata alla cronaca italiana a seguito del sequesto della petroliera italiana Savina Ceylin (febbraio 2011), della Rosalia d'Amato (aprile 2011) e quella di questi giorni della Montecristo liberata poi con un bliz delle forze speciali inglesi. Le prime due navi e gli equipaggi sono ancora nelle mani dei pirati.
Certo da maggio a settembre gli assalti sono drasticamente diminuiti, ma il merito è esclusivamente del monsone che batte forte in quest'area, rendendo molto più difficili, se non impossibili, gli arrembaggi (le imbarcazioni dei pirati sono piccole e veloci).
Il fenomeno della pirateria somala ha origine nella dissoluzione dello stato somalo che a seguito della guerra civile del 1991 non è stato più capace di ristabilire qualsiasi principio di legalità e di costruire le più elementari istituzioni democratiche. La Somalia, sotto gli occhi, colpevoli e talora complici, della comunità internazionale, vive, unico caso al mondo, nella totale anarchia da 20 anni.
Basti pensare che nei primi mesi del 2011 su 142 attacchi di pirati nel mondo, 97 sono stati nelle acque antistanti la Somalia e dei 18 sequestri di navi, 15 sono avvenute in Somalia.
La questione della pirateria in Somalia è molto complessa. Perchè se da un lato il sequestro delle navi e degli equipaggi rende secondo alcune sommarie stime oltre 30 milioni di dollari all'anno, dall'altro la situazione legislativa - in assenza di uno stato degno di questo nome - è ambigua. Se si legge il sito della Nazioni Unite sulle legislazioni marittime (Oceans and Law of the Sea) si fa ancora riferimento ad una legge somala del 1972 (legge 37 del 10 settembre 1972) che afferma che nelle acque territoriali somale (200 miglia a largo della costa) le navi possono entrare solo previo permesso.
La storia dice che nel mezzo della disgregazione somala le navi e i grandi pescherecci transitano (e pescano) a poche miglia dalla costa. Nello stretto di Bab el-Mandeb, che collega l'Oceano con il Mar Rosso, transita il 10% del petrolio mondiale e quasi il 50% dei containers del mondo. I primi somali a trasformarsi in pirati furono i pescatori con l'apparente (e talora reale) intento di salvaguardare la sovranità nazionale e impedire la pesca nello loro acque da parte di tutti. Infatti approfittando dell'assenza di uno stato la pesca (soprattutto del tonno) divenne selvaggia, mentre mezzo mondo scaricava di tutto nelle acque somale (soprattutto rifiuti tossici, spesso affondati assieme a navi "carretta"). Solo dopo giunsero gli ex-miliziani e infine le organizzazioni criminali che oggi rendono quei mari i più pericolosi della terra per chi naviga.
E' evidente che la vera azione di contrasto alla pirateria non avviene solo con i pattugliamenti militari internazionali, molto costosi, iniziati a seguito delle quattro risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2008, ma grazie al lavoro della guardia costiera del Somaliland, stato mai riconosciuto internazionalmente, e che potrebbe essere, se adeguatamente supportato, un grande contributo al mantenimento della legalità nelle acque somale. 
Alcuni dati dicono che sono oltre 1000 gli uomini coinvolti negli atti di pirateria, molti dei quali provenienti dalla regione somala del Puntland.


Certo la responsabilità della crescita di questa moderna pirateria somala è l'assenza di uno stato, incapace di controllare le coste (dal Somaliland, ad esempio, non partono pirati!) e di stabilire normative e sanzioni efficaci capaci di arrestare un fenomeno che assume sempre più il carattere dell'emergenza. Già scrivendo sugli stati in via di fallimento avevo sottolineato come gli esperti valutino molto pericolosa (e non solo per la questione dei pirati) la situazione della Somalia. La questione diventa sempre più grave (la catastrofe umanitaria in corso nel Corno d'Africa è solo uno dei fenomeni) e nessuno sembra avere una minima capacità di incidere sull'evolversi della situazione.

Certo i nuovi pirati non hanno quel fascino che avevano gli antichi bucanieri.


Ecco questo reportage sui pirati somali apparso su GQ.com.
Vi segnalo anche questo approfondimento di Fabio Caffio su Limes.

Sancara sulla Somalia ha pubblicati i seguenti post: 
- Somalia: la tragedia nel disastro
- Squalo a Mogadiscio, un ricordo

martedì 26 luglio 2011

Siccità, carestie e ipocrisie

Nelle ultime settimane è prepotentemente scoppiata, sotto gli occhi attoniti del mondo intero, l'emergenza umanitaria nel Corno d'Africa. In molti si sono accorti che un numero elevato di individui (milioni di persone), per lo più donne e bambini, stanno letteralmente morendo di fame in un angolo non tanto remoto del nostro pianeta. Qualcuno ha perfino scoperto che la Somalia è da vent'anni in una situazione di totale anarchia e che guerra e carestia si mescolano formando una miscela esplosiva.
Ieri un summit convocato in emergenza alla FAO a Roma ha ancora una volta ribadito che servono milioni di dollari - almeno 120 - per soccorsi "urgentissimi" e 1,6 miliardi di dollari per i prossimi 12 mesi. Molti degli Stati e alcune organizzazioni internazionali hanno promesso stanziamenti ingenti per l'emergenza e per progetti a lungo termine nel campo dell'alimentazione e dell'agricoltura. Domani a Nairobi, in Kenya, queste disponibilità dovranno essere confermate.
Nella riunione di ieri però il Ministro dell'Agricoltura francese Bruno Le Maire (la Francia è presidente di turno del G20) ha ammesso, sue testuali parole, che la "comunità internazionale ha fallito nel costruire la sicurezza alimentare nei paesi in via di sviluppo". E' l'ammissione del fallimento di decenni di politiche economiche in Africa (di cui FAO e Banca Mondiale sono stati i maggiori interpreti e quindi responsabili) costate la vita di milioni di persone e cifre inimmagginabili.

Le parole di Le Maire, che sono macigni lanciati in un momento di grave crisi (quindi meno evidenti a fronte del dramma umano), contengono l'essenza di gran parte dei problemi d'Africa e rappresentano quel comune sentire di chiunque si sia interessato d'Africa. Il ritornello, per usare le parole di le Maire, "se non vogliamo ritrovarci tra due anni davanti alle stesse scene di disperazione, dobbiamo cambiare metodo, non basta fornire aiuto finanziario, non basta portare milioni di dollari qua e là. Bisogna investire nell'agricoltura mondiale, aiutare i Paesi in via di sviluppo a sviluppare la propria sicurezza alimentare", rappresenta per molti una nenia che ascoltiamo da decenni e che francamente indigna.
Ora si scaricano tutte le responsabilità sulla natura, che ingenerosa nei confronti degli uomini, sempre degli ultimi, si accanisce nel Corno d'Africa  facendo mancare l'apporto delle piogge. Certo gli studiosi del clima sostengono che alcuni importanti cambiamenti climatici sono in corso e che la siccità potrebbe avere relazioni con correnti oceaniche e che quindi parte della catastrofe è attribuibile alla natura.

Ciò non toglie che vi sono questioni che da decenni organizzazioni non governative, ambientalisti, popolazioni locali e studiosi denunciano con insistenza e che restano irrisolte e inascoltate. Come è il caso del fenomeno del land grabbing, ovvero delle terre in affitto o acquistate (e sottratte alle popolazioni locali) dalle multinazionali per produrre biocarburanti o prodotti alimentari da esportare e di cui la FAO si occupa da anni (la prossima conferenza internazionale si terrà dal 17 al 20 novembre a Nyeleni in Mali) senza avere il coraggio di trovare soluzioni definitive che mettono fine a questo scempio. Proprio su questo tema qualche giorno fa, mentre migliaia di persone muoiono di fame, vi è stata una denuncia di Survival International su terre fertili in Etiopia sottratte alle popolazioni locali e che chiama in causa anche imprese italiane.
Così come non possono essere trascurate le continue denunce sulla pericolosità delle deviazioni di corsi di fiumi per costruire enormi impianti di produzione eletttrica che sottraggono acqua alle popolazioni locali e che hanno contribuito a peggiorare il quadro idrico dell'intera regione.
Sono state inascoltate le proposte dei movimenti contadini (Via Campesina in testa) sulla necessità di regolamentazione del mercato agricolo mondiale atte ad impedire la speculazione finanziaria sulle derrate alimentari.

Questi e altri temi (come ad esempio i costi esagerati della gestione dei grandi organismi internazionali) sono alla radice delle carestie ed è disumano continuare, da anni, a non affrontarli.

In Africa si interviene solo nelle emergenze. Vi una rassegnata, e talvolta consapevole, consuetudine di attendere la catastrofe prima di intervenire, di lasciare sedimentare e "cronicizzarsi" situazioni che altrove griderebbero allo scandalo e indignerebbero l'opinione pubblica. Gli africani sopportano con dignità e fatalismo. Assistono, oramai senza lacrime, alla morte dei propri figli, vedono la propria terra seccarsi e morire, abbandonano la propria casa e vivono pensando che il domani forse non verrà.

Certo guardando le immagini dei campi profughi del Kenya oggi vi è la consapevolezza che bisogna intervenire, subito. Lo stanno facendo e lo continueranno a fare, con capacità e passione, centinaia di volontari e di organizzazioni che sono sul campo, che raccolgono fondi e che tentano, in condizioni disperate, di alleviare le sofferenze di chi non ha colpe. In attesa di una nuova catastrofe.

lunedì 18 luglio 2011

Catastrofe umanitaria nel Corno d'Africa

Qualcuno l'ha già definita una catastrofe. Quella che è in corso (non da oggi, sia chiaro) nel Corno d'Africa è secondo gli esperti la più grave siccità degli ultimi 60 anni. L'ultima grave carestia nell'area risale al biennio 1984-85 e fece più di un milione di morti. L'area interessata che comprende Somalia, Etiopia, Kenya e Sud Sudan è molto vasta e mette a rischio una popolazione tra i 10 e i 13 milioni di individui. Dopo due anni di scarsità delle piogge, oramai la popolazione è allo stremo.
E' chiaro che l'emergenza maggiore si verifica in Somalia, dove alla grave situazione idrica (e quindi alimentare, dove il grano è arrivato a costare il 100-200 % in più), si associano vent'anni di anarchia sociale, politica e militare in un paese dimenticato da tutti.
Come avviene durante le siccità, la produttività delle terre si riduce (in alcune zone si è dimezzata o addirittura annullata), le popolazioni sono costrette, per sopravvivere, a vendere il bestiame. Prima si vendono pecore e capre, che non contribuiscono alla produzione agricola, poi vitelli, cavalli e asini e infine i buoi, che ovunque sono alla base della ricchezza familiare. La perdita del bestiame, riduce la disponibilità di fertilizzanti per l'agricoltura. A questo punto il ciclo della miseria è chiuso. Non resta che migrare alla ricerca di nuove fonte di reddito o verso i campi profughi.
In questi giorni, dalla Somalia, circa 1400-1500 persone al giorno varcano i confini verso il Kenya alla ricerca di assistenza. Si stima che un quarto della popolazione della Somalia sia in fuga dalla propria terra. Il campo profughi di Dadaab (nella foto aerea in basso), ad oltre 80 chilometrui dalla frontiera somala, (costruito nel 1991 allo scoppio della crisi somala) oggi accoglie circa 400 mila rifugiati, quattro volte oltre le sue potenzialità.
Il campo è gestito dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), assieme ad organizzazioni umanitarie di varie nazioni e di varie matrici religiose. Uno sforzo enorme sostenuto anche dal governo kenyota, che proprio in questi giorni ha dato l'autorizzazione all'apertura del nuovo campo IFO II (iniziato a costruire nel 2008), capace di contenere altri 90 mila profughi. Per la sua azione, nonostante sia anch'esso un paese colpito dalla carestia, il Kenya è stato lodato dalle organizzazioni internazionali. Qualche nostro Ministro, che per mesi ha fatto temere "la calata dei barbari in Italia", farebbe bene a fare una visitina in Kenya, forse la prossima volta non direbbe più idiozie come quelle dette nei mesi passati.
L'Alto Commissariato, le ONG, le Nazioni Unite e i leader religiosi (ieri il Papa) stanno lanciando appelli al mondo intero perchè la situazione è insostenibile. Si stimano che servono 691 milioni di dollari aggiuntivi per arrivare a fine anno e per ora l'appello ai governi (Germania e Gran Bretagna tra i primi a rispondere) ha permesso di raccogliere "solo" il 30% dei fondi necessari.
In Italia AGIRE, coalizione di ONG per le emergenze, ha da giorni lanciato un'appello alle donazioni, sebbene come afferma Domeico Quirico sulla Stampa "la carità internazionale si è fatta stanca". Ovviamente vi sono anche altre istituzioni che raccolgono fondi, come FAO, UNICEF, PAM, Save the Children, Action Aid, Amref, Cesvi, Cisp, Coopi, Cosv, Intersos, Vis e altre.

Certo, secondo gli studiosi le origini della carestia sono da ricercarsi nella scarsità delle piogge e di conseguenza nei cambiamenti climatici globali. La colpa insomma è tutta della natura, ingenerosa verso l'Uomo e verso Dio. Ma, è innegabile che ciò che trasforma uomini, donne e bambini somali in disperati alla ricerca di cibo sono la pessima politica e la guerra che attanaglia il paese oramai da 20 anni, senza interruzioni. Politiche scellerate, interventi sbagliati e le peggiori strategie geopolitiche hanno contribuito, quando non determinato, la strage che oggi è in corso. A tutto questo si aggiunge la mancanza di informazione, la carestia attuale è annunciata oramai da due anni, gli appelli delle ONG si susseguono da mesi. Ora però serve intervenire, subito.



lunedì 11 luglio 2011

Stati in via di fallimento, aggiornamento 2011

Sancara si era già accupato, con un post del settembre scorso (Stati in via di fallimento: il trionfo dell'Africa, a cui vi rimando per le questioni generali) della speciale classifica che l'organizzazione per la prevenzione dei conflitti che generano guerre, The Fund of Peace, pubblica annualmente e che attraverso 12 indicatori (e dalla comparazione tra essi) tende a far emergere gli stati vicini al "collasso" delle sue strutture amministrative e democratiche.

Rispetto allo scorso anno, sono diminuiti, da 37 a 35 i paesi nella fascia di allerta (punteggio complessivo maggiore di 90), pur rimanendo inalterati il numero degli stati africani in questa lista dei "peggiori" (22 lo scorso anno, come quest'anno).
A capeggiare questa serissima classifica è la Somalia (113,4 punti, date le condizioni credo sia del tutto logico), seguita da Ciad (110,3), Sudan, RD del Congo, Haiti, Zimbabwe, Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Iraq e Costa d'Avorio.
Rispetto allo scorso anno, ma appare prevedibile, bisogna segnalare l'entrata nei primi dieci posti di Haiti e della Costa d'Avorio.

Sono poi 89 (erano 92, nel 2010) i paesi nella fascia dell'attenzione, 40 (erano 34) quelli della fascia della moderazione e 12 (erano 13) nella fascia della sostenibilità.
La classifica in termini positivi è capeggiata (ovvero al 177° posto, quante sono le nazioni analizzate) dalla Finlandia (lo scorso anno dalla Norvegia, quest'anno al secondo posto) con un punteggio di 19,4. E' da notare che dal gruppo "sostenibile" esce (l'avevamo già notato lo scorso anno) l'Islanda.

Da segnalare ancora il "miglior" piazzamento africano delle Isole Maurizio (150° posto con 44,2, poco dopo l'Italia che è 147°). Dell'Africa continentale al 117° posto si trova il Sudafrica (con 67,6) che scavalca di poco il Ghana, lo scorso anno in testa all'Africa continenatale.

Da questa analisi emerge che tutti gli stati africani si trovano nella fascia di attenzione per quanto concerne la possibilità di fallimento.

mercoledì 15 dicembre 2010

Libri: La trappola somala

Nel 1994 Laterza pubblica questo breve saggio di Angelo Del Boca, sicuramente il massimo esperto italiano del colonialismo dell'Italia in Africa, sul "clamoroso fallimento dell'intervento ONU in Somalia".
La storia di quello che accadde in Somalia a partire dalla caduta del dittatore Siad Barre (25 gennaio 1991), la successiva guerra civile, l'intervento militare americano (Restore Hope) e delle Nazioni Unite e infine il ritiro del contigente (gennaio 1994) che lascia nella totale anarchia la Somalia.
Del Boca partendo dal presupposto che si trattava di un fallimento annunciato, come alcune testimonianze raccontano, offre alcune illuminanti e precise spiegazioni, sempre ben documentate, su una serie di errori strategici e di valutazione che hanno portato la comunità internazionale ad "impantanarsi" in quella che egli definisce la trappola somala.
Parallelamente a quanto avvenne in Somalia, all'azione svolta dalle Nazioni Unite e a quella degli Stati Uniti, Del Boca affronta il ruolo dell'Italia in tutta la vicenda. Un ruolo che oltre a scontare un passato non certo edificante nel paese del corno d'Africa, è frutto di una serie di approssimazioni politiche, di uno scarso peso nell'ambito della coalizione e di palesi violazioni delle elementari regole militari.
Un libro da leggere per chi vuole capire l'origine della attuale situazione in Somalia.
Il disastro dell'intervento in Somalia inciderà fortemente sul futuro del Paese, che a distanza di quasi 20 anni continua ad essere dominato dal caos, come anche le recenti cronache ci ricordano, nella totale indifferenza della comunità internazionale.
Secondo alcuni osservatori autorevoli, ciò che accadde in Somalia condizionò pesantemente il mancato intervento nella crisi, che poi degenerò nel genocidio, del Ruanda. Le truppe non africane furono ritirate definitivamente dalla Somalia alla fine di marzo 1994 , quualche settimana prima che scoppiasse (7 aprile 1994) la crisi Ruandese. La paura di "impantanarsi" in un'altra guerra civile africana spinse la comunità internazionale ad essere "molto cauta", a non far intervenire le truppe ONU che pure si trovavano nel paese e a sottovalutare ciò che accadeva in Ruanda. In pochi mesi (aprile-luglio 1994) furono barbaramente trucidati oltre un milione di persone.

Angelo Del Boca è nato a Novara nel 1925, scrittore, partigiano e storico, è stato tra i primi a denunciare le atrocità delle truppe italiane nelle colonie (in particolare in Libia e Abissinia). Ha insegnato Storia Contemporanea alla facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Torino. E' autore di numerose opere sul periodo coloniale italiano in Africa.

giovedì 4 novembre 2010

Grave situazione umanitaria ai confini tra Kenya e Somalia

L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR o UNHCR in inglese) ha lanciato un appello al governo del Kenya perchè blocchi il rimpatrio forzato di più di 8.000 rifugiati somali (la maggior parte bambini, donne e anziani) dal campo di accoglienza Border Point One a Mandera.
La storia è cominciata il 29 ottobre quando l'Alto Commissariato ha lanciato un'allarme perchè a seguito degli scontri tra le milizie del governo provvisorio somalo e i ribelli di al-Shabaab nella città somala di confine Beled Hawo, oltre 7.000 persone erano scappate, trovando rifugio nel camp di Border Point One, a 500 metri dal confine tra Kenya e Somalia, in attesa delle decisioni del governo del keniota.
Il Kenya, stando al report 2010-2011 del Alto Commissariato è il paese dell' East Africa che ospita il maggior numero di rifugiati, in maggioranza provenienti dalla Somalia (oltre 350 mila), ma anche dall'Etiopia e dal Sud Sudan. Nel 2010 saranno spesi, nel solo Kenya, 152 milioni di dollari per i rifugiati (il budget previsto per il 2011 è di 166 milioni di dollari, mentre nel 2009 sono stati spesi 127 milioni).
L'emergenza dei profughi in Kenya è vecchia e grave (del resto la Somalia è in uno stato di anarchia dal 1993, il Sud Sudan è stato in guerra dal 1983 al 2005 e l'Etiopia affronta periodiche crisi soprattutto nella regione dell'Ogaden), al punto che è stato coniato il termine per quella regione di "triangolo della morte" dei rifugiati. Da anni le organizzazioni non governative denunciano la situazione esplosiva dei campi (vedi articolo).

Sempre secondo il rapporto dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite, sono oltre 10 milioni in rifugiati del mondo (oltre 2 milioni in Africa) che fanno arrivare a oltre 34 milioni ( richiedenti asilo, rimpatriati, apolidi, sfollati interni) le persone in qualche modo assistite dal UNHCR (oltre 10 milioni in Africa). L''80% di essi sono ospitati in Paesi in Via di Sviluppo, spesso aggravando la situazione interna al paese (quello che è successo dopo il genocidio nel Ruanda del1994 della a zona del Kivu nella Repubblica Democratica del Congo è l'esempio forse più drammatico).
La stato del rifugiato fu definito già nel 1951 all'Articolo 1 della Convenzione di Ginevra e tutelato dall'Art.14 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948.
Stiamo parlando di persone (la maggior parte donne, bambini e anziani) che improvvisamente sono costrette a raccogliere in fretta e furia i loro averi, abbandonare le loro case e fuggire, oltre i confini, in un altro stato per vivere (per un periodo? per anni? per sempre?) ,quando va bene, in una tendopoli allestita dagli organismi internazionali e dalle organizzazioni non governative. Inutile dirlo che si scappa dalla guerra, dalla fame, dalle violenze e dalle persecuzioni: insomma dalla morte certa.



venerdì 24 settembre 2010

Squalo a Mogadiscio, un ricordo

Ieri Repubblica.it ha pubblicato alcune immagini - bellissime - di un ragazzo a Mogadiscio che trasportava, sulla schiena, un grande squalo per venderlo.
Vedendo le foto mi è tornata in mente una storia. Nel 1995 ero in procinto di recarmi, per conto di una ONG italiana, in Somalia (cosa che poi non ho mai fatto). Mentre discutevamo sulle problematiche logistiche (la Somalia era nel pieno caos - vedi questo post di Sancara) un medico, che era appena rientrato da Mogadiscio, mi raccontò di un bambino morso da uno squalo mentre faceva il bagno. Incuriosito lo incalzai di domande sull'accaduto. Quando arrivarono gli americani - con la missione Restore Hope - dalle portaaerei alla fonda era difficile arrivare sulle spiagge a causa della barriera corallina. Gli americani decisero allora di aprire dei varchi (usando esplosivi) nella barriera per permettere il passaggio di mezzi anfibi e altre imbarcazioni in modo da favorire lo sbarco di truppe e mezzi. Ovviamente l'ecosistema naturale (e la protezione) fu alterato in modo permanente. In quel tratto di spiaggia vi erano i luoghi dove gli abitanti - soprattutto bambini - usavano fare il bagno. Gli squali iniziarono ad entrare, attraverso i varchi provocati dalle esplosioni, e vi furono i primi casi di attacchi all'uomo. Del resto da generazioni si sapeva che quella zona, a causa della barriera corallina, era protetta dalla presenza di squali più grandi. Quel medico (mi spiace non ricordarne il nome) mi raccontò che nell'ultimo anno vi erano stati diversi attacchi in quel tratto di mare - qualcuno anche molto grave (amputazioni di arti) - tutti a carico di bambini.
Oggi guardando le foto di Repubblica mi è tornata in mente quella chiacchierata. Questa volta, forse, i ragazzi hanno avuto la meglio sugli squali.

Naturalmente essendo una notizia di "seconda mano" non sono in grado di conoscerne maggiore dettagli , resta a mio parere interessante. Resta il fatto che il collegamento con la foto di Repubblica mi apparso sensato.

mercoledì 8 settembre 2010

Stati in via di fallimento: il trionfo dell'Africa

Ogni anno The Fund for Peace - organizzazione indipendente americana nata nel 1957 - che ha lo scopo di prevenire e ridurre i conflitti che generano le guerre - pubblica un indice (Failed State Index) in cui attraverso 12 indicatori (sociali, economici e politici) e la comparazione tra essi (e tra gli stati) si identificano gli stati più prossimi "al collasso" delle proprie strutture e quindi a rischio fallimento, che spesso in primis si traduce nell'incapacità di avere controllo del proprio territorio e di fornire servizi ai cittadini. Ad ogni parametro - come la pressione demografica, la presenza o meno di rifugiati, la credibilità o meno dello stato centrale, il declino economico, l'intervento di potenze straniere negli affari interni, la crescita di tensioni etniche interne - viene assegnato un punteggio su scala dieci.
La classifica generale dei 177 stati (per il 2010) determina il livello di allerta (punteggio maggiore di 90), di attenzione (punteggio maggiore di 60), di moderata attenzione e di sostenibilità. Ovviamente l'indice è diventato un indicatore usato per la scelta delle politiche regionali di intervento nelle crisi umanitarie.
La metodologia adottata comporta l'analisi di milioni di documenti (documenti dei governi e delle organizzazioni non governative, riviste, articoli specializzati) che vengono poi interfacciati con i documenti ufficiali delle organizzazioni internazionali (UNHCR, WHO, UN, etc.) e elaborati attraverso un software - ideato dal Fund for Peace, denominato CAST (Conflict Assessment System Tool) e infine validato nel confronto tra gli stati.

L'Africa giganteggia in questa classifica.
I primi 5 stati sono africani. Nell'ordine Somalia (prima con 114,1 punti) , Ciad, Sudan, Zimbabwe e Repubblica Democratica del Congo seguiti da Afghanistan e Iraq (direi nessuna sorpresa per questi 7), poi Repubblica Centro Africana, Guinea e Pakistan.
Nell'indice 2010 sono 37 i paesi del mondo nella fascia di allerta - di questi, 22 sono paesi africani.
Sono poi 92 i paesi nella fascia di attenzione, 34 nella fascia moderata e solo 13 i paesi nella fascia della sostenibilità (tutti i paesi scandinavi, la Danimarca, il Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda, l'Irlanda, l'Olanda). L'ultima (che poi significa la prima in termini di sostenibilità) è la Norvegia, 177° posto con 18,7 punti). Sorprendente la performance dell'Islanda - che nonostante un pessimo punteggio sul parametro economico dovuto alla crisi - compensa con gli altri parametri , soprattutto demografici, riuscendo a centrare l'ultimo posto nella fascia della sostenibilità.
Il miglior piazzamento africano è dato dalle Isole Maurizio (150° - un posto dietro all'Italia, 149° con 45,7 punti). La prima nazione dell'Africa continentale è il Ghana (122° posto con 67,1 punti).

La questione degli "stati in fallimento" è stata analizzata da Lester Brown (guru del movimento ambientalista e fondatore del Worldwatch Institute) in un suo interessante articolo su Le Scienze, pubblicato nel luglio 2009 (n.431), dal titolo "I rischio di un mondo senza cibo". La sua tesi è che se nel secolo scorso la principale minaccia derivava dal conflitto tra le superpotenze, oggi è data dagli stati in via di fallimento. Secondo Brown è l'assenza del potere (e non la sua concentrazione) a metterci a rischio. Gli stati in via di fallimento sono un problema internazionale perchè sono focolai di terrorismo, di armi, di droga e di profughi. Egli usa ad esempio la Somalia (al primo posto degli stati falliti fin dal 2008) divenuto una base per la pirateria, Iraq base per l'addestramento dei terroristi, l'Afghanistan leader della produzione mondiale di eroina e la Repubblica Democratica del Congo paese destabilizzato per la grande presenza di profughi ruandesi.
La sua analisi porta a dire che la civiltà globale dipende da una rete funzionante di stati, capaci di controllare il diffondersi delle malattie come i fenomeni del terrorismo internazionale, ovvero capaci di collaborare al raggiungimento di obiettivi comuni come ad esempio quello dell'aumento della denutrizione nel mondo e la decrescita delle scorte alimentari (su cui poi in realtà si base il suo articolo).

Certo seguendo alcune delle vicende che stanno accadendo, anche in questi ultimi mesi negli "stati prossimi a trocollo", (di cui alcune cose ho discusso anche nei miei post come gli stupri in RD del Congo o gli attacchi in Somalia), viene da pensare che la tesi di Brown non è assolutamente "campata in aria" e che il lavoro di The Fund for Paece diventerà sempre più importante per il destino dell'umanità.

martedì 24 agosto 2010

Somalia, la tragedia nel disastro

Oggi la stampa italiana, e non solo, riporta del grave attacco del gruppo di al-Shabab all'Hotel Muna di Mogadiscio in Somalia, dove hanno perso la vita, stando alle fonti, una trentina di persone tra cui sei o più membri del Parlamento di transizione. Le notizie sono ancora incomplete.

La questione somala è complessa. Basti pensare che dal 1991 la Somalia non ha un governo degno di tale nome (ovvero leggitimato e capace di controllare il territorio) e vive in una totale anarchia.
Mogadiscio, la capitale della Somalia, che a partire dagli anni '20 era stata una delle più belle (secondo standard europei) e ricche città dell'Africa, con un porto commerciale attivissimo, è oramai da 20 anni un campo di battaglia - come appare da questa foto raccolta dalla rete.
Raccontare la storia della Somalia - per capire l'attualità - richiederebbe troppo spazio. Ma alcuni punti è bene sottolinearli.

E' la Conferenza di Berlino del 1884 a determinare la storia odierna della Somalia: quando Italia, Francia e Gran Bretagna iniziano a contendersi, a volte sanguinosamente, il territorio. Dal 1892, e fino al 1920, i popoli della Somalia tenteranno di resistere al colonialismo. Nel 1936 la Somalia Italiana entra a far parte dell'Africa Orientale Italiana (assieme ad Eritrea ed Etiopia) che dal 1941 sarà occupata dalla Gran Bretagna. Nel novembre 1949 le Nazioni Unite, a seguito dei nuovi equilibri post-bellici, affideranno all'Italia l'amministrazione fiduciaria della Somalia.
Il 26 giugno 1960 la Somalia Inglese e il 1 luglio 1960 la Somalia Italiana, diventeranno indipendenti sotto un'unica bandiera (la Somalia francese diventerà indipendente nel 1977 con il nome Gibuti).
Il 15 ottobre 1969 fu ucciso il presidente Shermarke e pochi giorni dopo, il 21 ottobre 1969, con un colpo di stato sale al potere Siad Barre, militare che si era formato in Italia nel corpo dei Carabinieri (negli anni '50 aveva frequentato la Scuola Allievi Ufficiali di Firenze). La sua dittatura , durante la quale vi saranno ( nel 1964 e nel 1977) delle guerre territoriali con l'Etiopia, durerà fino al 25 gennaio 1991, quando sarà destituito.
Da quel momento il paese piomberà nel mezzo di una guerra civile, scatenata dai clan di signori della guerra, nel tentativo di egemonizzare il paese. In questi 20 anni vi sono stati ben 13 tentativi di instaurare un governo, tutti miseramente falliti o quasi.
Nel 1992, con due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (24.4.1992 e 3.12.1992) saranno inviati delle missioni militari per assistere e poi proteggere la popolazione civile (denominati UNOSOM I, UNOSOM II e UNITAF). La missione di UNITAF, meglio conosciuta come "Operazione Restore Hope" - invece di restituire speranza, come il suo altisonante nome prometteva, gettò il paese ancora più nel caos. Gli americani (con il coinvolgimento di altri paesi, tra cui l'Italia) ingaggiarono una lotta contro uno dei signori della guerra, il generale Aidid (anche lui addestrato in Italia e membro del governo di Barre), finendo per perdere credibilità e vite umane. In particolare nell'ottobre 1993 quando a seguito dell'abbattimento di un elicottero MH6o Black Hawk americano, vi furono 19 morti americani nel tentativo di recupero dei militari (su tale episodio il regista Ridley Scott ha ricavato il film "Black Hawk Down"). Questo episodio, e la stagnazione militare, indusse l'amministrazione americana di Bill Clinton a ritirare il contingente dalla Somalia agli inizi del 1994.
Il 20 marzo 1994 vi fu poi un triste e per certi aspetti ancora misterioso episodio che sconvolse l'Italia (già nel luglio 1993 erano morti alcuni militari italiani), l'assassinio della giornalista del TG3 Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hravatin che stavano indagando sul legame tra signori della guerra e il contrabbando di droga, armi e rifiuti tossici.
Il 16 dicembre 1994, tristemente, le Nazioni Unite, sconfitte, ritirarono la propria missione, abbandonando nel caos totale il paese.
Da allora Aidid assunse il controllo di una parte del paese (fino alla sua morte avvenuta il 2 agosto 1996 a seguito di ferite) in guerra soprattutto con un'altro signore della guerra, Ali Mahdi ( che aveva sostituito Barre per pochi mesi dopo la sua caduta).
Dal 1997 al 2004 - mentre il paese continuava ad essere nella totale anarchia e gli sfollati premevano sulle frontiere - vi furono numerosi tentativi di conciliazione tra le fazioni in lotta (si arrivò a contarne 26 nel 1997!), tra cui la Conferenza di Gibuti (2000) e la Conferenza di Mbagathi (2004) che istituirono governi di transizione, tutti residenti a Nairobi in Kenya.
Nell'estate del 2006 entra in gioco una nuova compagine: l' Unione delle Corti islamiche (rete di gruppi islamici, sostenute, stando alle Nazioni Unite, da Iran, Libia e Arabia Saudita) che scacciano i signori della guerra da Mogadiscio con il sostegno della popolazione oramai esausta.
Verso la fine del 2006, truppe dell'esercito etiope, sotto pressione dell'amministrazione americana di Bush e con un diretto appoggio dal gennaio 2007, invasero la Somalia con l'obiettivo di espellere i gruppi radicali islamici. A quel punto emerse tra le Corti Islamiche il gruppo Al-Shabab ("la gioventù"), ala fondamentalista.
Dal 2006 è presente nel paese anche una missione dell'Unione Africana (Amisom) con militari dell'Uganda (e questa è una possibile lettura dei recenti attentati suicidi a Kampala in Uganda, rivendicati da Al-Shabab).
Quando nel 2009 le truppe dell'Etiopia si ritirarono dalla Somalia le fazioni dei gruppi islamici erano già in lotta tra di loro per la spartizione del potere.

Oggi solo una piccola parte di Mogadiscio è controllato dal governo di transizione guidato da Sheik Sharif Sheik Ahmed, mentre il resto del territorio è in mano agli islamici che già alcune settimane fa avevano minacciato alcune associazioni umanitarie (e già, perchè in mezzo a questo casino, ci sono uomini e donne che rischiano la pelle ogni giorno per aiutare la popolazione civile inerme) accusate di fare proselitismo cristiano.

La Somalia è oggi una polveriera dove tutto può accadere. Qualche osservatore internazionale sostiene che uno degli obiettivi dei militanti islamici è quello di "scatenare una nuova reazione militare internazionale, poichè allargare il conflitto a livello regionale potrebbe essere la migliore occasione per riconquistare il potere locale".